I dati sull’aumento della violenza contro le donne parlano da soli: molestie, maltrattamenti e femminicidi sono piaghe sempre più “illuminate” dai media, anche se la condizione di prostrazione e di solitudine della donna oggetto di violenze di genere non è mitigata più di tanto dal lavoro dei centri antiviolenza e dalla accresciuta, diffusa consapevolezza delle dimensioni del problema.
Non sempre la denuncia delle donne avviene e si specchia nelle aule di un tribunale. Ma nei casi di violenza sessuale il “rischio” di passare da vittima a carnefice, che fino a qualche decennio fa rasentava una quasi “certezza”, si è significativamente abbattuto, tanto che tra gli addetti ai lavori e nella letteratura giurisprudenziale e medico-psichiatrica si fa strada una corretta attenzione anche ai diritti della difesa di soggetti quasi sempre maschili “inchiodati” dalle parole di una donna, e spesso solo da queste.
Su questa materia così delicata proponiamo qui la riflessione dell’Avvocato Nicola De Fuoco.
Da sempre i reati contro le persona, e in particolare quelli di violenza sessuale sulle donne, sono stati oggetto di particolare attenzione da parte dei cosiddetti “addetti ai lavori”, avvocati, magistrati, anche alla luce degli accesi dibattiti dottrinari e degli approdi giurisprudenziali sul punto.
E non è un caso, attesa la estrema delicatezza della materia e la particolare rilevanza attribuita alle dichiarazioni della vittima di abusi sessuali, dalle quali dipende pressoché esclusivamente l’esito del giudizio.
Tali dichiarazioni finiscono, quasi sempre, per condizionare il processo, indirizzando i giudici verso una pronuncia di condanna dell’imputato, pur prescindendo da un adeguato approfondimento e/o dalla ricerca di elementi di prova che possano riscontrare quelle dichiarazioni.
Sulla scorta di tale scenario, si innesta il delicato problema del profilo soggettivo della vittima della violenza, con particolare riferimento alla sussistenza di patologie psico-somatiche, che involgono accertamenti medico-legali i cui esiti, in molti casi, finiscono per sconfessare i fatti come denunciati, e di conseguenza, l’accusa mossa nei confronti dell’imputato.
È il caso, ad esempio, del soggetto isterico, che è tendenzialmente portato a manipolare il dato reale, e far apparire e/o credere come avvenuti, fatti in realtà mai verificatisi. Difatti, il soggetto portatore di tale patologia manifesta un livello di tensione costantemente elevato, associato ad insicurezza, immaturità e tendenza a sviluppare sintomi sotto stress, in particolare, esibizionismo, dipendenza e tendenza alla manipolazione nelle relazioni sociali. Tale personalità è esercitata con teatralità ed è finalizzata ad ottenere dagli altri attenzione, comprensione e conforto, attraverso modalità comportamentali simulative.
Sul punto, la letteratura medico-psichiatrica ha fatto passi da gigante, così offrendo spunti di riflessione ad una materia così importante quanto delicata.
Nel caso di specie, la prova di una patologia isterica in seno ad un soggetto vittima di un abuso sessuale riviene da un test universalmente riconosciuto, l’M.M.P.I., (Minnesota Multiphasic Personality Inventory): un test valutativo/psichiatrico sulla personalità, di assoluta attendibilità e riconosciuto universalmente dalla più accreditata letteratura scientifica, che stabilisce in termini di percentuale la tendenza di un soggetto a manipolare la realtà.
È chiaro che la percentuale più o meno elevata di tale test incide più o meno pesantemente sulla capacità del soggetto a testimoniare e, quindi, sulla sua credibilità e/o attendibilità, tale da spostare gli equilibri di un processo in un senso o nell’altro.
E il dato non è di poco conto, visto che quasi sempre la responsabilità penale di un imputato di violenza sessuale dipende proprio dalla attendibilità delle dichiarazioni della vittima del reato, soggetto, di fatto, interessato al giudizio.
È auspicabile, pertanto, anche nell’ottica di una evoluzione giurisprudenziale sul punto, una attenzione e un approfondimento più rigoroso a casi e/o situazioni similari, che quotidianamente sono portate sul banco dei tribunali.
È un dovere per chi amministra la giustizia, perché la giustizia non sia solo un fatto formale, ma soprattutto sostanziale.