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L’Effetto Matilda. Storia di un’illustre sconosciuta

di
Andrea Laudadio*

Le diseguaglienze nella scienza: leffetto Matilda

[Un meccanismo sistemico cancella le donne dalla storia della scienza, perpetuando disuguaglianze che minano l’efficacia e l’innovazione della ricerca stessa.]

C’è una donna che ha fatto una scoperta scientifica rivoluzionaria. Ha lavorato anni, analizzato dati, superato ostacoli. Il suo nome dovrebbe essere nei libri di storia. Invece, alla conferenza stampa, accanto al suo lavoro compare solo il nome del collega maschio. Quando qualcuno cita la scoperta, menziona lui. Quando arrivano i premi, li riceve lui. Lei, semplicemente, sparisce.

Sembra lo scenario di un romanzo distopico? È accaduto a Rosalind Franklin, la cui fotografia a raggi X fu decisiva per scoprire la struttura del DNA. Watson e Crick vinsero il Nobel. Lei venne dimenticata. È accaduto a Lise Meitner, che contribuì alla scoperta della fissione nucleare: il Nobel andò solo al suo collaboratore Otto Hahn. È accaduto a Jocelyn Bell Burnell, che scoprì le pulsar da studentessa: il premio fu assegnato al suo supervisore.

Ancora oggi scienziate vittime inconsapevoli dell’Effetto Matilda

E se questo non fosse solo storia passata? Se accadesse ancora oggi, in questo momento, nei laboratori e nelle università di tutto il mondo? Se una ricercatrice vedesse il suo lavoro ricevere meno citazioni, i suoi articoli valutati come “meno rigorosi”, le sue domande di finanziamento avere il 7% di probabilità in meno di essere approvate rispetto a quelle di un collega maschio con identiche competenze? Non perché il lavoro valga meno, ma perché porta un nome femminile?

Questo meccanismo ha un nome: l’Effetto Matilda. E se non lo si conosce, migliaia di scienziate ne sono vittime senza saperlo.

Il termine venne coniato nel 1993 dalla storica della scienza Margaret W. Rossiter per descrivere la soppressione sistematica dei contributi delle scienziate alla ricerca e la conseguente attribuzione del loro lavoro a colleghi uomini (Rossiter, 1993). Il nome è un tributo intellettuale a Matilda Joslyn Gage, suffragista del XIX secolo che nel 1870 denunciò per prima l’occultamento storico dei risultati intellettuali femminili (Rossiter, 1993). L’Effetto Matilda ha negato il dovuto credito a personalità fondamentali come Lise Meitner, che contribuì alla scoperta della fissione nucleare, Rosalind Franklin, la cui fotografia a raggi X fu cruciale per la scoperta della struttura del DNA, e Jocelyn Bell Burnell, scopritrice delle pulsar.

Dall’accumulo di ricchezza al furto sistematico

Per comprendere l’Effetto Matilda occorre fare un passo indietro al 1968, quando il sociologo Robert K. Merton descrisse un fenomeno apparentemente opposto: l’Effetto Matthew. Prendendo il nome da un versetto del Vangelo (“A chi ha, sarà dato e avrà in abbondanza…”), Merton documentò come gli scienziati già famosi e affermati ricevessero un credito sproporzionato per il loro lavoro, mentre i ricercatori meno noti venissero sistematicamente ignorati, anche a parità di contributo (Merton, 1968). Il successo genera ulteriore successo in un circuito di retroazione positiva: più sei conosciuto, più vieni citato, più ottieni finanziamenti, più diventi influente.

Margaret Rossiter identificò l’Effetto Matilda non come fenomeno separato, ma come meccanismo che moltiplica in senso negativo l’Effetto Matthew per le donne (Rossiter, 1993). Se l’Effetto Matthew costruisce ricchezza di reputazione per gli eminenti (in maggioranza uomini), l’Effetto Matilda opera impedendo alle donne di entrare in questo ciclo virtuoso fin dall’inizio. L’impatto cruciale non è solo un mancato riconoscimento, ma un vero svantaggio cumulativo che si amplifica lungo l’intera traiettoria professionale (Fiorentin et al., 2023).

La dialettica Matthew-Matilda rivela una profonda crisi nel concetto di “meritocrazia”. Le disuguaglianze di genere che ne derivano non sono il risultato di una mancanza di merito o produttività, bensì l’esito di un sistema sociale che, sebbene guidato dal “mito della meritocrazia” – l’idea che solo il merito porti a assunzioni, promozioni e salari più alti – fallisce strutturalmente nel distribuire equamente il capitale reputazionale (Fonseca, 2023). Il sistema premia chi ha già (Matthew), mentre sottrae sistematicamente (Matilda) a chi, pur contribuendo, viene invisibilizzato, con un impatto profondo e negativo sul successo professionale delle donne nell’accademia (Fiorentin et al., 2023).

Le molteplici facce dell’invisibilità

L’Effetto Matilda si manifesta in forme diverse, alcune plateali, altre subdole. La più eclatante è l’appropriazione diretta delle scoperte. Casi storici abbondano: Lise Meitner, che collaborò alla scoperta della fissione nucleare ma vide il Nobel per la Chimica del 1944 assegnato solo al suo collaboratore Otto Hahn. Rosalind Franklin, le cui immagini cristallografiche del DNA furono mostrate a Watson e Crick senza il suo consenso, mentre lei venne esclusa dal Nobel del 1962. Jocelyn Bell Burnell, che da studentessa scoprì le pulsar ma vide il Nobel per la Fisica del 1974 andare al suo supervisore Antony Hewish.

Le radici di questo meccanismo affondano nei secoli. Il caso di Trota di Salerno, figura medica italiana del XII secolo, è emblematico. Come chiarisce la rigorosa analisi filologica di Monica H. Green (2024), la figura storica di Trota fu un’autrice rispettata e accreditata per la sua opera, il De curis mulierum (Sui trattamenti per le donne). Tuttavia, nel corso dei secoli, la sua identità fu offuscata: il suo nome divenne il titolo di un ensemble di testi, il “Trotula”, e la sua autorialità fu messa in discussione, fino a essere attribuita a figure maschili per renderla conforme alle aspettative delle epoche successive (Green, 2024; Rossiter, 1993).

Il gender citation gap

Le forme contemporanee sono più sottili ma altrettanto dannose. Una delle più studiate è il gender citation gap, il divario di genere nelle citazioni. Numerosi studi, inclusi quelli nel campo della comunicazione e della geografia umana, dimostrano che gli articoli scientifici scritti da uomini ricevono, in media, un numero significativamente maggiore di citazioni rispetto a quelli scritti da donne, anche a parità di qualità e importanza della ricerca (Aufenvenne et al., 2024; Feeley & Yang, 2022). Il divario è alimentato da un circolo vizioso: gli uomini tendono a citare altri uomini più frequentemente e, costituendo ancora la maggioranza nelle posizioni accademiche di vertice, questo schema rafforza la visibilità maschile a scapito di quella femminile (Aufenvenne et al., 2024).

Un paradosso emerge dai dati più recenti. Uno studio su 5.500 studiosi di comunicazione in 11 paesi ha rivelato che, a parità di altre condizioni, gli articoli delle studiose donne sono sistematicamente più visti online, ma significativamente meno citati rispetto a quelli dei colleghi maschi (Rajkó et al., 2025). Questo suggerisce che, sebbene la ricerca femminile attiri maggiore interesse iniziale, questo non si traduce in un riconoscimento formale nel sistema di valutazione accademico, evidenziando un cortocircuito nel processo di validazione scientifica.

La psicologia del pregiudizio: quando il ruolo non combacia

Per comprendere le radici profonde di questa disparità occorre guardare ai meccanismi psicologici del pregiudizio. La  Role Congruity Theory (Teoria della Congruenza di Ruolo), sviluppata da Eagly e Karau, offre una chiave interpretativa essenziale (Knobloch-Westerwick & Glynn, 2013). La teoria propone che il pregiudizio verso le donne in ruoli professionali altamente mascolinizzati, come la scienza, nasca dall’incongruenza percepita tra le caratteristiche stereotipate del genere femminile e quelle associate al ruolo tipico dello scienziato (Knobloch-Westerwick & Glynn, 2013).

Storicamente, i tratti associati al genere femminile – empatia, comunicazione, cura – sono stati stereotipati come meno allineati con i tratti percepiti come necessari per il successo scientifico: obiettività, assertività, competitività (Knobloch-Westerwick et al., 2013). Questa discrepanza genera una valutazione negativa a priori. Le donne si trovano intrappolate in un “doppio vincolo”: se affermano la propria competenza attraverso l’assertività, violano gli stereotipi di genere e rischiano di essere percepite come “competenti ma fredde”; se aderiscono ai comportamenti stereotipicamente femminili, la loro competenza viene messa in dubbio.

L’evidenza sperimentale conferma questo bias. Un esperimento sulla comunicazione scientifica ha presentato abstract identici attribuendoli alternativamente ad autori maschi o femmine (Knobloch-Westerwick et al., 2013). I lavori attribuiti ad autori maschi venivano valutati come aventi una qualità scientifica significativamente superiore rispetto agli abstract attribuiti ad autrici donne (Knobloch-Westerwick et al., 2013). Un gap apparentemente minimo che, operando nelle fasi iniziali di valutazione tra pari, funge da filtro cruciale per l’accettazione dei lavori, il finanziamento e la collaborazione accademica.

I numeri dell’ingiustizia

L’Effetto Matilda non è un concetto astratto, ma un meccanismo con impatti economici e istituzionali rigorosamente quantificabili. Uno studio sul sistema di finanziamento pubblico argentino (PICT) ha rivelato che le ricercatrici hanno una probabilità significativamente inferiore di ottenere il loro primo finanziamento rispetto ai colleghi maschi, un divario che persiste e si aggrava nel tempo, creando “barriere alla persistenza” (Fiorentin et al., 2023).

A ciò si aggiunge il problema della distribuzione iniqua del carico di lavoro accademico. Le donne accademiche dedicano meno tempo alla ricerca rispetto ai colleghi maschi, non per scelta ma perché vengono incaricate più spesso di compiti di didattica, mentoring e attività di servizio istituzionale. Meno tempo disponibile per la ricerca si traduce, inevitabilmente, in meno sottomissioni di articoli e grant, ostacolando in modo decisivo l’avanzamento di carriera.

La catena causale dell’Effetto Matilda si conclude con l’impatto economico sistemico. Il divario di citazione, come dimostrato da numerosi studi, perpetua la disuguaglianza salariale, poiché le citazioni sono una metrica chiave per promozioni e avanzamenti (Aufenvenne et al., 2024; Fiorentin et al., 2023). L’Effetto Matilda non è solo un problema di riconoscimento, ma un meccanismo istituzionale che perpetua la disuguaglianza economica strutturale.

La soluzione nascosta nell’anonimato

Se l’Effetto Matilda dimostra che la valutazione scientifica è viziata dalla conoscenza dell’identità di genere, la soluzione metodologica più robusta consiste nel rimuovere tale informazione. La Double-Blind Peer Review (DBR), o revisione tra pari a doppio cieco, è emersa come contromisura istituzionale fondamentale per mitigare i bias impliciti nel processo editoriale (Fonseca, 2023).

Lo studio più citato su questo tema riguarda il giornale Behavioral Ecology. Dopo l’introduzione della DBR nel 2001, si è osservato un aumento significativo (circa l’8%) nella rappresentazione di articoli con prima autrice donna, un modello non riscontrato in una rivista simile che manteneva la revisione tradizionale (Fonseca, 2023, citando Budden et al., 2008).

Questi risultati hanno un’implicazione epistemologica profonda: il successo della DBR dimostra in modo lampante che il bias è legato alla percezione dell’identità di genere, e non al merito scientifico (Fonseca, 2023). Quando il lavoro viene valutato in anonimato, le donne hanno maggiori probabilità di vedere la qualità del loro contributo riconosciuta, aggirando il filtro negativo della Role Congruity Theory.

Oltre il mito della meritocrazia

L’analisi dell’Effetto Matilda rivela un meccanismo onnipresente e pervasivo che modella l’intera struttura della scienza contemporanea. Non si tratta di un errore isolato di riconoscimento, ma di una catena causale complessa: il bias psicologico insito nella Role Congruity Theory genera una sottovalutazione della qualità della ricerca femminile (Knobloch-Westerwick et al., 2013), che si traduce in una ridotta acquisizione di risorse (grant) e un carico di lavoro non equo.

Questa iniquità iniziale si amplifica lungo la carriera, alimentando uno svantaggio cumulativo (l’Effetto Matthew rovesciato) che culmina nell’allargamento progressivo del gender citation gap e contribuisce in modo significativo al gender wage gap nella scienza (Wu, 2023).

L’esistenza stessa di questo meccanismo strutturale solleva una critica fondamentale all’impianto ideale della sociologia della scienza, in particolare al principio di Universalismo delineato da Robert K. Merton (Merton, 1979). L’Universalismo postula che la validità delle affermazioni scientifiche debba essere valutata esclusivamente su criteri impersonali e pre-stabiliti, indipendentemente dall’identità (genere, razza, nazionalità) del ricercatore. La soppressione basata sull’identità di genere, incarnata dall’Effetto Matilda, dimostra in modo inequivocabile che il sistema scientifico non opera secondo questo ideale normativo. Al contrario, l’autorità e il capitale reputazionale sono mediati da persistenti filtri sociali e pregiudizi, rendendo l’universalismo un obiettivo ancora drammaticamente non raggiunto.

Per affrontare l’Effetto Matilda, l’attenzione deve concentrarsi sulle riforme sistemiche e obbligatorie. L’evidenza empirica mostra che la rimozione dell’identità di genere attraverso meccanismi come la Double-Blind Peer Review è un passo essenziale per ristabilire un sistema che valuti il merito scientifico in modo genuino (Budden et al., 2008). Le istituzioni accademiche, i finanziatori e le riviste devono adottare in modo esplicito politiche volte a contrastare i bias impliciti, definendo criteri chiari per l’autorialità e garantendo una distribuzione equa dei carichi di servizio e didattica. Aumentare la presenza di donne nei comitati editoriali, nelle commissioni di valutazione per i finanziamenti e nei panel di premiazione è cruciale: studi dimostrano che la presenza di donne in questi organismi aumenta le probabilità che altre donne vengano premiate e riconosciute.

La questione centrale, tuttavia, va oltre il riconoscimento individuale. Consentire la soppressione sistematica del contributo femminile non è solo un fallimento etico, ma un danno epistemologico che impoverisce la scienza nella sua totalità. Mantenere una storia scientifica distorta e limitare la piena espressione del talento femminile mina la diversità di prospettive e, di conseguenza, il potenziale di innovazione della ricerca stessa. Quando prospettive, domande e ipotesi vengono sistematicamente escluse sulla base del genere, l’intera impresa scientifica perde capacità cognitiva e forza innovativa.

Il nostro lavoro, come comunità scientifica globale, è garantire che il merito non abbia genere e che nessuna “Matilda” debba mai più lavorare nell’ombra. Solo attraverso un impegno rigoroso verso la trasparenza e l’uguaglianza si potrà superare il “mito della meritocrazia” e permettere alla scienza di onorare il suo ideale di universalismo. Ignorare l’Effetto Matilda significa accettare una scienza meno ricca, meno innovativa e meno giusta.

Riconoscerlo e combatterlo attivamente non è solo un dovere etico verso le scienziate di ogni epoca, ma un investimento indispensabile per restituire alla conoscenza il suo valore collettivo: la capacità di attingere all’intelligenza di tutta l’umanità, non solo di una sua metà.

 

*Andrea Laudadio è a capo della Formazione e Sviluppo di TIM e dirige la TIM Academy.

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