La redazione è un’ampia stanza della Terza Casa di Rebibbia e i dodici redattori sono tutti detenuti. Due riunioni alla settimana attorno a un tavolone centrale, con un solo computer in dotazione. Ma tanta soddisfazione, tanto orgoglio, di essere protagonisti di quel mensile dal titolo ironico, “Beccati a scrivere”, che è stato presentato in pompa magna, nei saloni della Federazione della Stampa.
A guidarli è Fabio Venditti, già inviato speciale del Tg2, poi caporedattore a Mediaset, quindi regista di “Socialmente pericolosi”, un film sui ragazzi difficili dei Quartieri spagnoli a Napoli. «Lavorare con loro è una soddisfazione impagabile – racconta il direttore – Sono grati e felici del fatto che degli uomini liberi gli dedichino del tempo e qualche energia». Oltre al direttore, sono presenti due volontarie, la figlia Margherita e l’amica Flavia Alfonsi, che si occupa della parte grafica.
Dei detenuti, in tre soltanto sono potuti uscire da Rebibbia per presentarsi in pubblico. I giovani sono Januz Miha, albanese, e Azim Soleman, egiziano, più il cinquantenne Vincenzo La Neve, pugliese, e vengono scortati dalle guardie carcerarie. Gli altri nove, tra molti mugugni, sono dovuti rimanere dentro. Sono stati tutti arrestati per reati di droga, o predatori, con questa collegati. Ma hanno un grande privilegio, rispetto a tutti gli altri, quello cioè di vivere nella Terza Casa di Rebibbia. Dove si arriva se non si hanno condanne superiori agli otto anni, e soprattutto compiendo un percorso specifico che viene valutato dalle relazioni delle educatrici che li seguono.
Cosa ha di diverso la Terza Casa, lo raccontano loro stessi, in un articolo contenuto nel primo numero di “Beccati a scrivere”: «Tutti noi abbiamo provato il carcere vero, e le differenze, sono enormi. Tanto per cominciare qui si sta chiusi in cella soltanto la notte, dalle 22,30 alle 7,30. Già questo è un passo avanti gigantesco. E le nostre, neppure possono essere chiamate celle: sono stanze vere e proprie di 35 metri quadri, dove dormiamo in due. Le finestre sono grandi e con sbarre molto sottili, che fanno meno prigione. E sono in basso, così possiamo vedere la strada, l’autobus che fa la fermata e le persone che camminano. Possiamo osservare un po’ di vita…» Sono 40, in tutto, gli ospiti della Casa, diretta con grande impegno da Annunziata Passannante; hanno la doccia in camera, la possibilità di incontrare i familiari all’aperto, nell’area verde, e l’obbligo di studiare e di lavorare nel carcere, oltre la possibilità di fare volontariato all’esterno, ma anche controlli, cui sottostanno senza preavviso, per verificare che non abbiano assunto droga. «Ma noi non siamo fessi, non vogliamo rimetterci». In questo regime di custodia attenuata, anche i rapporti con il personale di Polizia penitenziaria sono più rilassati e più umani.
«La mia convinzione è che tutto funzioni meglio, nel carcere, se proponi dei progetti che impegnino la testa – spiega Fabio Venditti –. Nel 90 per cento dei casi, le persone che finiscono dentro hanno studiato, infatti, poco o per nulla. È il carcere duro e afflittivo che aumenta il pericolo di recidiva, la scuola o le misure alternative, come l’affidamento in prova, garantiscono invece il recupero. Ce lo ha detto anche Gherardo Colombo, nell’intervista che apre il primo numero della rivista». Un’intervista condotta in questo modo: i redattori hanno posto in riunione tutte le domande, il direttore le ha annotate e ha trascritto poi le risposte di Colombo. Il titolo è esplosivo: “Il carcere è una fabbrica di criminali” e, indirettamente, condanna anche il provvedimento sulla legittima difesa, con vari inasprimenti di pena, or ora approvato da un ramo del parlamento, il Senato. Da pubblico ministero, Colombo, credeva molto nella reclusione sic e simpliciter di chi ha commesso un reato, ora, invece, ritiene indispensabile un processo di rieducazione e di recupero, che comincia con il lavoro in carcere, per passare all’affidamento all’esterno, ma dubita fortemente che il Governo attuerà in questa direzione la riforma del sistema penitenziario.
In un altro articolo, il primo di una serie, intitolato “Ma una volta era molto peggio”, è il detenuto anziano Vincenzo La Neve, una vita passata dietro le sbarre, con piccole boccate d’ossigeno di libertà, a spiegare come funzionavano le cose un tempo. «Negli anni ’80 non si dava importanza alle condizioni di vita dei carcerati e alla loro dignità, tanto che venivano ammassate, nei cosiddetti cameroni, fino a 40 persone, con brande a castello che arrivavano anche al quarto piano». Tutti insieme, nessuna distinzione tra reati minori e reati più gravi, tra detenuti in attesa di giudizio e condannati, tra giovani e vecchi, e allora ci si divideva in bande: «Ai ragazzi che si trovavano in questi cameroni veniva insegnato a duellare con i coltelli», per difendersi dalla fazione opposta. Vincenzo adesso ha conquistato lo status di volontario, e può uscire dal carcere. Quando la presentazione del giornale è finita, le guardie carcerarie riportano a Rebibbia i due giovani, e lui va a consolare il padre di uno di loro, scoppiato in lacrime.
“Beccati a scrivere” non gode di alcun finanziamento. Il computer di redazione è stato donato dalla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici Cgil. La stampa del primo numero, in 400 copie, è stata offerta dalla libreria “Universitaria”. Adesso bisogna trovare i soldi per il secondo, che uscirà il 24 novembre. «Questo è il nostro unico costo – conclude Fabio –. Ma Beppe Giulietti, il presidente della Federazione nazionale della stampa, ha promesso che ci darà una mano».