Della giustizia, se tale è, si dica quel che si dica, non si può ammettere alcuna forma di duplicità. Al massimo, come tra i primi aveva fatto Aristotele, se ne possono distinguere e definire le forme. Si darebbero, allora, una giustizia di tipo geometrico o distributiva e una di tipo aritmetico o compensativa. È soprattutto a questa seconda fattispecie di giustizia che si rivolgono le riflessioni dell’uomo della strada, quando, pensando alla giustizia e alla spettrale solennità di un’aula di tribunale, ragiona matematicamente sull’entità di un reato e sulla “giusta” punizione da comminare a chi ne verrà riconosciuto colpevole. In occasioni simili può accadere di scoprirsi pessimi matematici, tentando di far quadrare i conti a qualsiasi costo e diventando colpevolisti o innocentisti senza mezze misure, perché convinti, a torto, che la giustizia sia inflessibile e intransigente per natura. Questa è la giustizia che sanziona e risarcisce e non quella che ripara. La giustizia che castiga il torto, illudendosi di “premiare”, attraverso la sanzione comminata a terzi, chi lo ha subito. Diversa è la giustizia riparativa, il cui modello, di provenienza anglosassone (il pensiero corre alle restorative city di Hull e Leeds), inizia a diffondersi anche in Italia.
Una storia nobile e recente
Quella della giustizia riparativa è una storia che in gran parte deve essere ancora scritta, perché le sue origini sono piuttosto recenti. Chi volesse raccontarla, difficilmente potrebbe prescindere dal luogo in cui tutto probabilmente ha avuto origine. E precisamente in quella che, sino allo scoppio della I guerra mondiale, era la Berlin canadese, poi ribattezzata Kitchener in memoria di un militare britannico, diventato segretario di Stato, che aveva combattuto contro i tedeschi nella Grande guerra. Nei primi anni ‘70, in questa località dei grandi laghi, due educatori ebbero l’idea di proporre una soluzione diversa dalla classica punizione per una serie di atti di teppismo compiuti da due adolescenti ai danni delle abitazioni di diversi loro concittadini. Non vennero “puniti”, ma inseriti in un programma di incontri con le famiglie alle cui proprietà avevano recato danno, in modo che, insieme, vittime e trasgressori, trovassero la soluzione – la “giusta” e concordata misura, si potrebbe dire – per riparare e restaurare il rapporto di fiducia che era venuto meno. La soluzione allora escogitata fu quella di prestazioni di lavoro concordate in misura tale da assicurare l’impegno riparatore dei due ragazzi. Fu un esperimento, e come tale viene oggi ricordato. Le prime incoraggianti applicazioni di questi principi si ebbero nel campo della giustizia penale applicata su minori. Date le origini, i suoi primi sviluppi si sono avuti proprio nel mondo anglosassone.
Dentro il meccanismo della giustizia riparativa
La giustizia riparativa vuole essere un approccio che concepisce il reato tanto come un danno subito da una o più persone, quanto come l’allentamento o divisione relazionale che il reato in questione ha provocato all’interno di una comunità. Come spiegano gli esperti di Reparative Justice, la frattura può essere mitigata, “compresa”, in un certo senso contenuta e, nel migliore dei casi, anche ricomposta. Delle fratture restano sempre le cicatrici, si potrà dire, ma queste, si potrebbe aggiungere, sono sempre il ricordo di qualcosa che non è più e che in qualche misura è stato superato. Le “cicatrici” impediscono una definitiva cancellazione della memoria del misfatto, e questo può essere un bene, perché “riparare” non vuol dire “cancellare” o manomettere la memoria del passato. Come si procede, allora? Qual è la prassi da seguire? Innanzitutto, si inizia con il tessere delle strategie (momenti di confronto, studio, conoscenza del problema) che coinvolgono le diverse parti in causa, tutte portatrici, in misura diversa, di bisogni e aspettative. Gli attori principali di questo contesto sono la vittima, l’autore del reato e la comunità. La giustizia riparativa quasi esige che il ruolo di quest’ultima non sia quello di una comparsa. Anzi, come possono rivelare diverse esperienze virtuose di giustizia riparativa (e tra poche righe si farà menzione di una di queste) il ruolo della comunità di riferimento, se coinvolgibile e ben coinvolta, diventa di fondamentale importanza.
Nuove coordinate e nuovi orizzonti
Ma in che cosa consiste la grande novità della giustizia riparativa? La risposta che seguirà è indice delle difficoltà che la sua piena e rapida applicazione inevitabilmente incontrerà, perché se è vero che molti passi in avanti sono stati fatti, la strada da percorrere non appare affatto in discesa. Si tratterebbe, come ha chiarito Zagrebelsky, di «modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico».[1] La speranza non nascosta dall’ex presidente della Corte Costituzionale è che i successi della giustizia riparativa riducano sempre di più il numero di persone che finiscono in carcere. La direzione di queste coordinate è nota, i precedenti non mancano, e questo vale anche per la letteratura scientifica – forense e psicologica – che studia la materia.
Un laboratorio sperimentale nel nord Sardegna
L’Italia non intende restare a guardare quello che si fa altrove. Lo testimonia la vivacità del dibattito in corso, determinata anche da un’urgenza che non ammette deroghe. La legge n.134/2021 di riforma del processo penale definisce le linee che dovranno essere seguite nel nostro Paese per introdurre la giustizia riparativa, dando delega al governo per disciplinarne l’attuazione. Il dibattito non è solo politico e nemmeno circoscritto al mondo giuridico, e questa, se vogliamo, è una fortuna. Ci sono settori dell’associazionismo che studiano la giustizia riparativa e Università – quella di Sassari, ad esempio – che hanno dato vita a laboratori sperimentali. Lo ha constatato di recente anche la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che proprio nel capoluogo sardo ha inaugurato lo scorso 23 giugno l’XI Conferenza mondiale sulla giustizia riparativa.
La scelta dell’Italia vale come un riconoscimento per la qualità di un processo in corso; l’avere, invece, individuato la Sardegna come luogo della conferenza è forse ancor più significativo. È nell’isola che si trova Tempio Pausania, la prima città e comunità riparativa d’Italia. In questo centro di poco meno di 15mila abitanti della Gallura interna s’impiantarono i primi semi di un progetto di lunga durata che avrebbe dovuto ricomporre il rapporto tra la comunità e il nuovo carcere. Pensato e costruito per ospitare persone che avevano commesso reati di stampo mafioso, da molti visto come una risorsa economica da far fruttare e da altri come una iattura che avrebbe compromesso l’immagine della città, il carcere diventò subito un argomento capace di dividere l’opinione pubblica, parte della quale si dichiarò (siamo nel 2014) preoccupata per la possibile influenza che il contatto con i parenti dei detenuti avrebbe potuto avere sulla città. E così un team di ricercatori e studiosi dell’Università di Sassari, guidati dalla professoressa Patrizia Patrizi, decise di scommettere su Tempio, avviando un progetto che è ancora in corso e che ha coinvolto un numero crescente di soggetti. Un progetto che viene ora presentato come un modello per ispirare altre città del Paese.
Giustizia ripartiva, cui prodest?
La giustizia riparativa non è un’idea a costo zero. È, chiaramente, un investimento, e non solo di natura economica. È un investimento perché dai suoi costi è possibile ricavare degli utili, e molteplici possono essere, se ben calcolati, i vantaggi e i benefici che può assicurare. Di questi non fa mistero la Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. I servizi di giustizia riparativa vengono ritenuti strumenti efficaci per la risoluzione dei conflitti in tempi brevi e utili anche per prevenire atti di criminalità. Ma è soprattutto uno stile comportamentale, frutto di esercizio civico e spirito di partecipazione comunitaria, che può aiutare a risolvere conflitti sociali e riattivare relazioni sospese, dai tanti ordinari casi di bullismo alle vecchie e nuove forme di discriminazione all’interno di una comunità o tra comunità diverse e antagoniste.
[1] Gustavo Zagrebelsky, Che cosa si può fare per abolire il carcere, “La Repubblica”, 23 gennaio 2015.