Loot box e gacha games: intrattenimento o gioco d’azzardo?

loot box

Le loot box sono oggetti virtuali, utilizzati nel gaming on line, che contengono premi non monetari, con i quali il giocatore può migliorare la propria esperienza di gioco, o avanzare di livello. Per fare ciò, il giocatore deve però acquistarle, spesso con un pagamento in moneta reale.

Loot box, qualificabili come gioco d’azzardo?

In particolare, sotto l’aspetto fiscale, sarebbe opportuno chiedersi se possano o meno essere qualificate come gioco d’azzardo, laddove l’articolo 110 del decreto legislativo 18 giugno 1931, n. 773 stabilisce che l’uso di apparecchi e congegni da gioco d’azzardo (intendendosi per tali quelli che hanno insita la scommessa o vincite puramente aleatorie di un qualsiasi premio in denaro o in natura) sono vietati, salvo che sia stata richiesta ed ottenuta un’autorizzazione amministrativa.

Il giocatore non ha modo di sapere quale sia il premio contenuto nella loot box prima di averne pagato il prezzo

L’aspetto da approfondire è dunque quello per cui il giocatore non ha modo di sapere quale sia il premio contenuto nella loot box prima di averne pagato il prezzo e se questo, vista la prevalenza della componente della fortuna su quella dell’abilità, possa o meno essere considerato gioco d’azzardo (virtuale).

Un confronto internazionale: Olanda, Gran Bretagna, Germania, Spagna e Italia

In ambito internazionale, del resto, in Olanda, dopo che già nel 2018 l’Autorità per il gioco d’azzardo aveva classificato alcune forme di loot box come gioco d’azzardo, assoggettandole alle leggi regolanti le lotterie e le slot machine, da ultimo, è stata presentata una mozione che potrebbe portare i Paesi Bassi a bloccare le loot box per i minorenni. Secondo i firmatari della mozione (appartenenti a ben sei forze politiche diverse), le loot box “manipolerebbero gli utenti minorenni e li spingerebbero a compiere delle microtransazioni. Spostandoci in Gran Bretagna, nel 2019, anche il Comitato britannico per il digitale, la cultura, i media e lo sport aveva raccomandato che le loot box fossero regolamentate come forma di gioco d’azzardo. E nel 2020, una commissione speciale parlamentare aveva presentato un rapporto con paragrafi specificatamente dedicati proprio alle loot box, concludendo come fosse dimostrata la connessione tra loot box e gioco d’azzardo compulsivo. Nella risposta ufficiale di chiusura del rapporto le autorità inglesi si sono però poi limitate ad invitare le software house ad autoregolamentarsi, onde evitare un futuro intervento del governo. Anche in Germania, poi, il Bundestag, nel 2021, ha votato a favore di una riforma del Young Protection Act, per regolamentare dinamiche “simili al gioco d’azzardo”, tra cui le loot box. In Spagna, infine, secondo un recente disegno di legge proposto dal governo in tema di gioco d’azzardo, le loot box diventeranno presto vietate ai minori. A tal fine verrà introdotto un metodo di verifica dell’età dell’utente e sarà imposto un limite massimo alle spese effettuabili. Gli sviluppatori saranno inoltre obbligati a rivelare le percentuali di ottenimento dei vari oggetti potenzialmente inclusi nelle loot box. E in caso di violazioni, le società dovranno pagare multe da 25.000 a 100.000 euro. In Italia, sul tema, si è espressa l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha adottato nuovi standard di trasparenza per i videogiochi in cui sono presenti acquisti in-game, con particolare attenzione a quelli con sistemi di loot box, imponendo l’obbligo di rendere chiaramente visibile il logo PEGI (Pan European Game Information, che indica il rating del gioco) e di esporre un avviso che informi l’utente della possibilità di ulteriori esborsi di denaro durante il gioco.

Sia le loot box che i gacha games rientrano nel più ampio fenomeno dei giochi freemium

Tanto premesso sull’evoluzione normativa, nazionale e internazionale, del fenomeno loot box, si evidenzia che tale fenomeno non è il solo da “attenzionare” e non va confuso, ad esempio, con quello, similare ma diverso, dei gacha games. I gacha games sono nati in Giappone nel 2010, ispirandosi ai distributori automatici di gachapon, molto diffusi nel paese del Sol levante e negli altri paesi asiatici. I gachapon sono distributori che contengono capsule all’interno delle quali si trovano giocattoli (chi è stato a Tokyo li ha senz’altro visti ad ogni angolo di strada), per ottenere i quali (la cui vincita sarà determinata dal caso) bisogna inserire una moneta. Ebbene, i gacha games funzionano allo stesso modo, ma nel mondo virtuale. Si carica il gioco, si acquistano pacchetti tramite microtransazioni in-game e si ottengono premi casuali che possano aiutare nel gioco. In sintesi, i giochi sono gratuiti, ma per progredire serve pagare. In sostanza, sia le loot box che i gacha games rientrano nel più ampio fenomeno dei giochi freemium, laddove l’idea di profitto è, appunto, quella delle microtransazioni (ovvero, dopo aver consentito di scaricare on line il gioco gratis, rilasciare contenuti a pagamento in modo continuo e a prezzo basso). Nei giochi freemium, in definitiva, è possibile scaricare il gioco ed avviarlo gratuitamente, ma poi, durante la partita, con la formula degli “acquisti in-app”, viene offerta la possibilità di ottenere potenziamenti. Lo sviluppatore (e l’azienda che fa da tramite), pertanto, guadagna non tanto nell’acquisto diretto dell’app, ma durante il suo svolgimento.

La soluzione più immediata potrebbe essere quella di sottoporre le loot box all’imposta sugli intrattenimenti

E allora la domanda è: come vengono intercettati i (notevoli) proventi derivanti da tali fenomeni? Suggerimento non richiesto per il legislatore: a parte il profilo imposte dirette (che richiederebbe un trattato a sé), sul fronte della tassazione “tradizionale” dei giochi, la soluzione più immediata potrebbe essere quella di sottoporre tali fattispecie all’imposta sugli intrattenimenti. E, ripercorrendo il meccanismo della digital tax, ad esempio, si potrebbe specificare che il criterio di collegamento con il territorio dello Stato sussiste quando il servizio è fruito da utenti mediante l’utilizzo di un dispositivo localizzato nel territorio nello Stato, il quale si considera tale sulla base dell’indirizzo di protocollo internet (IP) del dispositivo stesso, o, in mancanza, con ricorso ad altro metodo di geolocalizzazione. Insomma, il futuro, anche fiscale, va prima conosciuto e poi (soprattutto) regolato.

*Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulle Politiche Fiscali.

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