Che mondo sarebbe il nostro se alcune virtù fossero oggi più diffusamente praticate e possedute? Virtù come la mitezza, che sembrano essere state bandite dalle relazioni tra gli uomini e che, secondo Norberto Bobbio, farebbero di noi tutti delle persone migliori. Bobbio ha riflettuto molto intensamente su questo tema negli anni che sentiva più prossimi alla morte, avvertendone l’urgenza, con un senso di preoccupata impazienza di cui si diceva consapevole, effetto – confessava – di «una reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere»[1]. Si occupò e scrisse della mitezza – un elogio, addirittura – perché le ultime sue riflessioni, che tanto avevano dato alla teoria politica, presero infine la via dell’etica, non per questo biforcandosi senza più possibilità di congiunzione. Il male che domina la scena del mondo spinse il filosofo a interrogarsi a fondo sulla sua natura e sulla possibilità di contrastarlo. Da pensatore laico qual era, la sua riflessione non prese la piega di una teodicea – come in Leibniz e Jonas, ad esempio – perché il male rientrerebbe interamente nella sfera dell’azione umana e Dio non potrebbe avervi parte alcuna. Ma sarebbe in un mondo così fatto, oggi più che mai, che la mitezza potrebbe restituire senso e valore alle relazioni tra gli uomini.
La mitezza, una virtù senza tempo
“Beati i miti perché erediteranno la terra”, si legge nel Vangelo di Matteo ogni volta citato quando si tratta di elogiare e rivendicare la mitezza. I miti, e non i mansueti, perché la mitezza, beatitudine evangelica, è tipica dell’uomo e non apparterrebbe agli animali non umani, che possono essere mansueti come l’agnello o venire ammansiti a seconda delle necessità o del grado di protervia dell’uomo. Mentre la mansuetudine può essere imposta e accettata come una forma di benigna rassegnazione, la mitezza risponde a un’esigenza di natura etica che interpella la libertà di scelta e induce chi la possiede e pratica a evitare che il prossimo possa soffrire a causa nostra. In un tempo in cui l’efficacia di una decisione si misura contando i tempi di reazione entro i quali è stata escogitata e messa in pratica, il mite si concede il tempo che serve per fare le sue scelte, consapevole che ogni atto – si tratti pure di un’omissione e, quindi, di un atto mancato – non rimane mai senza conseguenze. Per questa ragione, in un’epoca in cui il tempo prende la direzione dispersiva dell’accelerazione sociale, può sembrare che il mite indugi oltremodo e oltre il tempo consentito.[2] Il tempo è oggi il contrassegno di una vita che si vuole più performante: “meno tempo impieghiamo per fare talune cose, più ce ne rimarrà per talaltre”, recita il motto silenzioso delle nostre esistenze fin troppo rumorose. Il mite non vive la vita come se questa fosse una competizione disciplinata da tempi rigidi. «Non entra – come ha chiarito Bobbio – nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere. È completamente al di fuori dello spirito della gara, della concorrenza, della rivalità, e quindi anche della vittoria».[3] Fuori del tempo, e fuori del mondo: questa è l’immagine che sembra rappresentare la mitezza.
Una virtù “debole” e non politica
Attraverso le riflessioni di Bobbio si possono cogliere altre qualità della mitezza che non a tutti possono apparire tali. La mitezza è virtù dialogica, perché si esplica nella relazione con l’altro; è anche etica e cardinale, in quanto risponde all’ideale aristotelico della sobrietà comportamentale e incarna i principi cristiani che orientano al bene, pur appartenendo, secondo Bobbio, alle virtù deboli. Così definite non perché ritenute «inferiori o meno utili e nobili, e quindi meno apprezzabili, ma perché caratterizzano quell’altra parte della società dove stanno gli umiliati e gli offesi, i poveri, i sudditi che non saranno mai sovrani, coloro che muoiono senza lasciare altro segno del loro passaggio su questa terra che una croce con nome e data in un cimitero».[4] Ciò non farebbe del mite un soggetto arrendevole e remissivo per vocazione: «Non è remissivo né cedevole, perché la cedevolezza è la disposizione di colui che ha accettato la logica della gara, la regola di un gioco in cui alla fine c’è uno che vince e uno che perde».[5] Il mite sa che quella in cui si è coinvolti non è esattamente una gara. Il suo agire non è ostentazione di modestia: «La modestia è caratterizzata da una sottovalutazione non sempre sincera, anzi spesso ipocrita, di sé stessi. La mitezza non è né sottovalutazione né sopravvalutazione di sé, perché non è una disposizione verso sé stessi ma è sempre un atteggiamento verso gli altri e si giustifica soltanto nell’“essere verso l’altro”».[6] Chi sa riconoscere il mite può scoprire con sorpresa l’aura di ilarità che ne avvolge la persona.[7] Elemento che lo renderebbe simile allo Zarathustra di Nietzsche, a suo modo campione di genuina benevolenza, se non fosse per l’abissale contrapposizione che emergerebbe da una loro più rigorosa comparazione. Tanto più che per Bobbio la mitezza è talento, virtù, femminile e non propriamente maschile.
Il potere delle parole
Nel non lungo elenco in cui Eugenio Borgna prova a costruire un piccolo campionario di esempi concreti di mitezza le donne non spiccano per numero di citazioni, ma la loro presenza è più che evidente. Le rappresenterebbe un po’ tutte Etty Hillesum, la giovane scrittrice ebrea olandese che morì ventinovenne ad Auschwitz. Indice di mitezza è stata la ricerca delle parole alla quale non ha mai rinunciato nemmeno nello sconforto più desolante. Parole che andrebbero centellinate e attentamente vagliate in ogni circostanza della vita per non sottovalutarne mai il peso. «Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per trovare quelle poche parole che ci sono necessarie».[8] Meditate, soppesate, sottratte a eccessi e sterili ridondanze, le parole hanno un potere di cui è consigliabile fare buon uso. L’erranza mediatica a cui sono oggi prevalentemente destinate ne depotenzia il senso, ma non ne disinnesca del tutto la forza.
Il “mito” della mitezza
Può essere che chi celebra la mitezza non sia in grado di vedere il mondo per quello che è? Non sono altre le “virtù” che oggi, e forse da sempre, contano di più? Chi vorrebbe avere a che fare con il mite o – per dirla proprio tutta – vivere da mite? Il mite appartiene al Vangelo e alla schiera dei nonviolenti a cui ripugna il solo pensiero di poter essere molesti agli altri. Virtù “scomoda”, la mitezza sarebbe in grado di sconvolgere equilibri, gerarchie e inveterate abitudini se solo venisse accolta là dove è per principio esclusa, vale a dire la politica, il luogo in cui il principe deve tenere a freno i sussulti della coscienza e badare unicamente alla ragion di Stato (quando realmente di questa si tratta) di cui si dice esecutore e finanche servo. Sarebbe davvero un altro mondo quello in cui, per dirla ancora con Bobbio, si scoprisse finalmente che «il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé»,[9] perché se è vero che la mitezza non è più di questo mondo, è comunque a quest’ultimo che apparteniamo.
[1] Norbento Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali [1998], il Saggiatore, Torino 2014, p. 42.
[2] Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino 2015.
[3] N. Bobbio, Op. cit., p. 37.
[4] Ivi, p. 35.
[5] Ivi, p. 38.
[6] Ivi, p. 39.
[7] «Il mite è ilare perché è intimamente convinto che il mondo da lui vagheggiato sarà migliore di quello in cui è costretto a vivere, e lo prefigura nella sua azione quotidiana, esercitando appunto la virtù della mitezza, anche se sa che questo mondo non esiste qui e ora, e forse non esisterà mai» (ibid.).
[8] Etty Hillesum, Diario 1941-43, Adelphi, Milano 1985, p. 148; cfr. Eugenio Borgna, Mitezza, Einaudi, Torino 2023, p. 17.
[9] Bobbio, Op. cit., p. 34.