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La stagione di Mario Draghi

di
Angelo Perrone*

C’è un prima e un dopo, una fase antica ed un’altra, successiva ed attuale, in cui tutto è diverso, impensabile e di difficile gestione. Una novità che ci allarma e preoccupa, lasciandoci attoniti, incapaci di orientarci a dovere, perché scontiamo l’impreparazione e la pochezza delle idee. Ci eravamo abituati a ragionare in questi termini a proposito della pandemia, per indicare il mondo qual era sino al febbraio 2020 e quello che invece è emerso dopo la tempesta del virus. A distanza di un anno, febbraio 2021, mentre siamo ancora in mezzo al guado, dobbiamo aggiornare i parametri, cambiare visuali e riferirci ad altro: gli stessi concetti possono essere usati per descrivere lo tsunami che ha investito la vita politica italiana, dopo il prevedibile fallimento del Conte ter e l’arrivo di Mario Draghi.

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Come con il Covid, si apre una fase di incertezze e ambiguità. Si entra in un terreno sconosciuto, in cui il senso delle novità (tipo di leadership, ampiezza del consenso politico) potrebbe essere amplificato a dismisura, facendoci perdere la percezione della realtà, deformandola oltre misura, impedendoci di affrontarla nella sua crudezza.
L’arrivo, sulla poltrona di Palazzo Chigi, dell’uomo venuto da lontano ha suscitato sorpresa e sgomento nel mondo politico, in fondo scettico sul fatto che potesse accadere, per quanto quel nome fosse evocato di continuo come ultimo e inevitabile rimedio alle inefficienze di sistema. Una sorta di ultima spiaggia.

Un governo Draghi a prima vista assai difficile, con numeri scarsi

La prima reazione è stata di incredulità, mascherata da disappunto e persino dissenso di principio; erano più i dissenzienti che gli altri (certo, no al predominio delle banche, per carità nessun governo tecnico, la politica innanzi tutto). E poi il “non detto”, pressante: le elezioni anticipate proprio no, non scherziamo, specie ora che con la riduzione dei seggi, a tornare lì, saranno davvero in pochi. A prima vista un governo assai difficile, con numeri scarsi, e tanta diffidenza
Nonostante la previsione, in fondo non si riteneva abbastanza concreta l’ipotesi, e si confidava sulle “risorse” di sempre. Ci sarebbero stati tempo e modo per ribattere ai colpi di maglio di Matteo Renzi, trovare la quadra, rabberciare una soluzione, trovare “responsabili” pronti al soccorso. Soprattutto, nessuno pensava che, dopo gli inutili tentativi dello stesso Conte per rimanere in sella e i dibattiti surreali tra i partiti (poche ore per mettersi d’accordo dopo i litigi), il cambio di passo fosse annunciato (dal Presidente Mattarella) con l’enfasi della svolta inevitabile, pena lo sconquasso del Paese sotto i fendenti del contagio e della crisi economica.

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È dunque finita la ricreazione, ragazzi, ora si fa, si deve fare, sul serio. Questo si è pensato dai più. Voi che vi siete trastullati appresso a giochetti mentre tutto traballava, che avete aperto una crisi incomprensibile ed inopportuna, che non avete saputo chiuderla, mentre crescono i morti e i disoccupati, poco consapevoli del momento, andate a posto. Vi abbiamo dato tempo ma non siete cresciuti abbastanza. La mano torna ai grandi, a chi sa, e per favore smettetela di mettervi di traverso.
Dovremmo aver fatto il callo alle improvvise conversioni, ai cambiamenti di rotta, ai mutamenti di pensiero in 12 ore senza una spiegazione, una precisazione qualsiasi, però certe abitudini sorprendono lo stesso. E non basta, a spiegare le capriole, invocare la comodità e strumentalità delle scelte, pure evidenti.

Il Governo che si annuncia segnala principalmente il vuoto in cui annaspa il Paese

Spendere 209 miliardi, ragazzi, non è un giochetto che si possa lasciare facilmente ad altri, l’occasione è troppo succulenta, il passato non conta più, va bene persino l’europeismo di bandiera dopo gli anni degli insulti e degli ostracismi. Poi, quanto alle intese con sovranisti e populisti (di ieri e oggi: dai 5 Stelle alla Lega), il capitolo è già stato esplorato a dovere, sappiamo come si fa e chiudiamo un occhio sulle malefatte, che sarà mai una nuova esperienza di tal fatta? Il gioco vale la candela.

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Il Governo che si annuncia segnala principalmente il vuoto in cui annaspa il Paese, la mancanza di valori, idee, tradizioni che abbiano ancora un senso, di radici che indichino le differenze di base, irrinunciabili per gli uni e gli altri. Un bagaglio complessivo che non impedisce certo il confronto, né ostacola accordi e compromessi, necessari nei momenti critici, ma che rende chiaro e trasparente il dialogo. L’intesa che si annuncia è basata sulla paura, e sul difetto di elaborazione culturale, più che sulle scelte consapevoli della politica.

Il governo di tutti rischia di essere il governo di nessuno

In una situazione di scarsa coesione sociale, di indifferenza verso gli ideali di fondo, mentre si assiste alla crisi identitaria dei partiti, il governo di tutti (o di troppi) rischia di essere il governo di nessuno, unito sulla volontà di nascere comunque, ma incapace di navigare per un tempo sufficiente, lesto ad inciampare alla prima occasione, appena emergeranno nuovi problemi. Uniti alla meta è un ottimo programma, se si va d’accordo.

Veniamo da un altro mondo 

Eppure, il cambiamento di clima intorno all’esperimento Draghi, dopo le battute a caldo, non sarebbe stato possibile, senza una diversa percezione del valore e dell’importanza della competenza nella soluzione dei problemi. Veniamo da un altro mondo, davvero. Dalle stagioni dell’“uno vale uno”, dell’impreparazione al potere, delle figuracce accumulate da “politici” alle prime armi, che nella vita non hanno mai amministrato nulla né guidato neppure un condominio. Veniamo dall’isolazionismo in Europa, dall’opposizione all’integrazione continentale, dalle fake news sulla moneta unica e sulla globalizzazione.

Ogni società ha conosciuto nella storia forme positive ed utili di “stratificazione”, espressione non già di una deprecabile piramide di privilegi, ma semplicemente della necessaria distribuzione delle funzioni sociali tra persone esperte e capaci. Non possiamo occuparci di tutto, e non ne siamo capaci. Banalmente, per riparare l’auto ci si rivolge ad un meccanico esperto, per sottoporsi ad un intervento chirurgico ci si rivolge ad medico affidabile. Per le cose da fare, non chiamiamo il primo che passa.

Tra economia e scaramanzia: il bazooka di Draghi

C’è sempre stato bisogno di chi ne sapesse di più e fosse in grado di risolvere le questioni (specie se complicate), fossero, per stare all’attualità, l’invenzione di un vaccino, l’istruzione scolastica, la formazione professionale, la realizzazione di prodotti innovativi. A condizione, s’intende, che costoro – in qualunque settore – fossero in grado di interpretare l’interesse generale, mettere le proprie capacità al servizio di tutti, oltre ogni egoismo individuale o di categoria. In fondo, è questo il senso delle democrazie liberali rappresentative, in cui si realizza il massimo possibile di equilibrio tra chi vota e chi governa, chi – in qualsiasi campo – fa delle scelte e chi le utilizza.

Si è compiuta un’inaccettabile trasformazione antropologica

Se negli ultimi decenni hanno preso piede movimenti populisti di ogni risma, se il concetto di élite ha assunto un significato spregevole, non è perché non abbiamo più necessità di medici, scienziati, meccanici e muratori (non importa dunque il settore, né il ruolo, solo l’esperienza e la capacità), ma perché si è compiuta un’inaccettabile trasformazione antropologica. Le élite, specie quelle politiche, sono diventate più simili ad una casta indiana, centri di potere con la missione di autoriprodursi mantenendo prerogative e privilegi, dimentichi dell’interesse della collettività.

Un buon tecnico deve anche avere attitudine politica

L’arrivo di un “tecnico” nel governo del Paese solleva sempre da noi l’eterna discussione sul rapporto tra tecnici e politici, tra le scelte dettate dalle competenze scientifiche e quelle proprie della politica. Un dibattito raffinato e spesso irreale. Trascuriamo il fatto che un buon tecnico deve anche avere attitudine politica, nel senso di mostrare capacità di ascoltare la società civile e le opinioni di tutti, e che un politico bravo è anche dotato di competenza ed esperienze: il divorzio tra le due categorie si consuma sulla reciproca indifferenza alle ragioni dell’altro campo.

La partita di Mario Draghi

La partita di Mario Draghi è appena cominciata. Certo, servirà fare tesoro delle esperienze accumulate sul modo di gestire l’economia di società occidentali complesse, o sfruttare le capacità di dialogo e di interazione maturate in Europa e nel mondo. La competenza indiscutibile lo rende prezioso in questa fase.
Però, c’è anche altro, partendo dalla consapevolezza che Mario Draghi non è un demiurgo, o un salvatore della patria, perché nessuno può esserlo realisticamente. Molto bravo lo è, ma non è “superMario” con la bacchetta magica e, da solo, in grado di fare tutto. Il paradosso è che il nuovo venuto avrà reso un servizio compiuto al Paese se riuscirà a saldare la cesura esistente tra la cultura tecnica e quella politica. Se sarà in grado di mettere la competenza a disposizione della ricostruzione del dialogo tra i cittadini e le Istituzioni, rendendola un volano utile per restituire la fiducia verso la cura della cosa pubblica.

Mario Draghi non è un demiurgo, o un salvatore della patria, perché nessuno può esserlo realisticamente

In una parola, il prossimo presidente del Consiglio dovrà trovare il modo di aiutare la politica a risollevarsi dal baratro nel quale è sprofondata ridandole, con la capacità sua e delle persone che sceglierà, anche prestigio e autorevolezza. Il ciclo che inizia potrebbe persino servire a creare un rapporto più caldo ed intenso tra il potere e i cittadini. Non bastano soluzioni amministrative assennate né l’impiego delle migliori intelligenze se si rimane dentro il proprio mondo pur di valore. Serve lo slancio che abbini alla bravura tante cose: il coinvolgimento delle persone, l’attenzione agli altri, la condivisione delle scelte. Davvero sarebbe questa la novità più significativa e promettente per il sistema democratico, dopo il periodo scomposto e inconcludente che ci lasciamo alle spalle.

 

*Angelo Perrone è giurista e scrittore. È stato pubblico ministero e giudice. Si interessa di diritto penale, politiche per la giustizia, tematiche di democrazia liberale. È autore di pubblicazioni, monografie, articoli.

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