Continua il business delle agromafie come anche le attività di indagine nei confronti di un sistema criminale che incide con pari gravità sulla qualità della produzione agricola italiana e sui diritti del lavoro. Le mafie agiscono, infatti, in tutti i settori economici con strategie sempre innovative, allo scopo anche di evitare le attività di indagine di Procure e Forze dell’Ordine. Questo significa una continua diversificazione delle loro attività criminali e relazioni sempre nuove, spesso internazionali, a cui si aggiunge una continua delocalizzazione delle proprie attività in aree dove norme, attenzione sociale e mediatica, e capacità di intervento della relativa magistratura, sono meno organizzate.
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Sotto accusa una azienda agricola del salernitano con filiale in Romania
Si tratta di considerazioni che valgono anche per una operazione condotta a fine gennaio scorso a Salerno e precisamente nella zona di Capaccio-Paestum, dove operava una delle aziende agricole più importanti della provincia, la “Italat-Paestum srl”, con una filiale operativa nella città di Zimbor, nel distretto di Salaj, in Romania. Quest’ultima, infatti, è un’area a tradizionale vocazione agricola che ha visto, ad un certo punto, spuntare quasi dal nulla una rinomata azienda agricola italiana, ossia proprio la “Italat – Paestum Srl”, che affermava di produrre la “vera mozzarella italiana”. Una presenza che era stata salutata con entusiasmo dalle istituzioni rumene e dalla popolazione per la capacità che avrebbe dimostrato di investire, di generare lavoro e di sviluppare capacità e conoscenze anche tecniche in un settore, quello agricolo e caseario, in continua espansione ed evoluzione.
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Le indagini hanno portato al sequestro di beni per 16 milioni di euro
In realtà, secondo gli inquirenti, le imprese interessate da questa strana delocalizzazione facevano parte di un insieme di altre società che, a vario titolo, sarebbero tutte riconducibili all’imprenditore Roberto Squecco, arrestato il 20 gennaio scorso dalla Polizia e indicato come dominus occulto dietro il sistema ambulanze e onoranze funebri tra Agropoli, Acerno e Capaccio (Salerno). Le indagini, inoltre, hanno portato al sequestro di beni per complessivi 16 milioni di euro, coinvolgendo una galassia di proprietà e assetti societari intestati a prestanome, tra familiari e collaboratori di Squecco, a cui gli inquirenti sono arrivati ricostruendo minuziosamente una serie di fatture false e società aventi come unico scopo quello di celare speculazioni e traffici illeciti. Il provvedimento ha interessato anche un terreno di 4.600 metri quadrati, destinato ad attività del settore caseario, che si trova proprio a Zimbor, a poca distanza dall’azienda. Un’indagine accurata e minuziosa che può essere inserita tra quelle che annualmente molte Procure italiane, del Sud e del Nord, avviano contro le agromafie e ogni loro tentativo di occultare o riciclare denaro illecito proveniente dal settore agricolo del Paese. Le indagini, in questo caso, erano partite nel 2019, quando, come avvertono le cronache locali, dopo l’elezione del sindaco del paese, Franco Alfieri (non coinvolto nell’inchiesta), per festeggiare un carosello di ambulanze sfilò tra le strade di Capaccio. Come a dire, “qui comandiamo noi”.
L’imprenditore indagato continuava ad avere rapporti con amministrazioni locali, enti e associazioni
Ma chi era Squecco? Secondo gli inquirenti si tratterebbe di un personaggio vicino al clan camorristico Marandino, attivo a Capaccio-Paestum e in altri comuni della Piana del Sele, non nuovo ad attività criminali di questa natura. Non a caso, già nel 2014 era stato arrestato con l’accusa di estorsione aggravata e di affiliazione al clan che faceva capo a Giovanni Marandino, fino a subire una condanna in via definitiva, con parziale riforma del delitto estorsivo aggravato dal metodo mafioso. Nonostante il precedente penale, l’imprenditore salernitano, rilevano gli inquirenti, continuava ad avere rapporti con amministrazioni locali, enti e associazioni, rivestendo nei fatti un ruolo che non era compatibile con quello con cui figurava, ovvero di semplice dipendente di una ditta di onoranze funebri. Insomma, ufficialmente un dipendente amministrativo ma, nei fatti, secondo l’accusa, il referente di un sistema di società impiegate in vari settori, compreso quello agricolo e caseario, con estensione del proprio network affaristico anche in Romania, dove peraltro sono crescenti gli investimenti di molte organizzazioni mafiose. Proprio la Romania, infatti, costituisce una delle aree in cui le mafie amano investire i loro profitti illeciti se non delocalizzare le loro attività, come nel caso della “Italat-Paestum”, che si era peraltro imposta sul mercato non solo a Zimbor, ma in tutta la Transilvania.
Le “vie” di insediamento delle agromafie nell’economia italiana
Determinante l’assenza di una normativa antimafia e antiriciclaggio evoluta come quella italiana
Un gioco relativamente facile soprattutto per l’assenza di una normativa antimafia e antiriciclaggio evoluta come quella italiana e di ispettori e investigatori adeguatamente formati. Di certo, alcune strategie e abitudini che sono identitarie delle mafie, soprattutto quando investono nel settore agricolo, non mancano mai di ripetersi, anche quando le relative aziende vengono delocalizzate all’estero. Anche in questo caso, infatti, un articolo del 2011 di un quotidiano locale online, Adevarul (“Verità”), denunciava l’utilizzo all’interno dell’azienda salernitana di sette operai impiegati senza regolare contratto di lavoro. Anche in questo caso, dunque, nonostante la necessità di riciclare denaro, la pratica dello sfruttamento lavorativo resta una costante.