Fra i temi che hanno animato il dibattito pubblico negli ultimi giorni c’è la “Superlega” di calcio. Una suggestione durata circa 24 ore, ma che è riuscita – in questo breve lasso di tempo – ad offuscare, addirittura, il tema della pandemia. Ma perché il progetto di Perez e Agnelli è svanito in così poche ore? Perché è fallita la Superlega?
La rivolta contro le 12 Big
Dodici squadre. Poi diventate undici, fino all’uscita di tutte le inglesi e la presa d’atto degli organizzatori con le parole di Agnelli: «la Superlega non andrà avanti». Contro di loro un coro di proteste che ha coinvolto tifosi, politici, uomini di governo. Dalle parole di Boris Johnson («farò tutto il possibile per fermarla»), a quelle di Mario Draghi («preservare le competizioni nazionali, i valori meritocratici e la funzione sociale dello sport»); fino ad arrivare alle accese proteste dei tifosi, sfociate in vere e proprie rivolte di massa al di fuori degli stadi.
Ciò che ha stupito – e che probabilmente ha fatto tramontare, nel giro di poche ore, il progetto – è stata l’unità delle proteste. Un coro unanime, che non ha riguardato solamente quei club che si sono visti estromettere dall’élite del calcio e i loro tifosi: a reagire, infatti, sono stati anche, e soprattutto, molti uomini delle stesse società i cui “padroni” avevano siglato il patto delle 12 “sorelle”. Tra tutti Josep Guardiola, personaggio chiave della “filosofia del calcio” contemporanea, il quale ha commentato con un secco «non è sport, è un’altra cosa».
Perché è fallita la Superlega?
Ma se non è sport, di cosa si tratta? E perché la Superlega ha trovato una opposizione così massiccia e omogenea tra tifosi, società di calcio e uomini di governo? Certamente, le modalità attraverso le quali i proprietari delle 12 società hanno agito, rappresentano il primo, grave limite di questa azione. L’annuncio improvviso dei 12 Club – con le dimissioni di Agnelli dall’Eca (l’Associazione dei Club Europei) –, è stato visto come un affronto. Una prova “muscolare” dei 12 Club più ricchi e indebitati d’Europa che hanno deciso per sé e per tutti, senza concertazioni, senza dialogo.
Un limite, questo, connesso al secondo, che in assoluto è un valore: la forza sociale del calcio. Le modalità di un sistema chiuso, su inviti, senza un merito effettivo (se non quello del potere economico e politico) di ingresso nella Lega dei grandi club, sono apparse per tutti inaccettabili. Questa prova di forza ha infatti toccato le corde più intime, i valori più sani di uno sport che, per quanto basato sul potere economico, ha ancora bisogno di una propria morale di fondo. Una morale fondata sul merito e sulla possibilità, quand’anche remota, che una piccola realtà di provincia riesca ad affermarsi tra le grandi.
L’Europa del calcio, nell’opporsi alla Superlega, ha dimostrato di avere ancora bisogno dei sentimenti antichi, di storie come l’Atalanta di Gasperini, o il Leicester di Ranieri. E del sogno dei tifosi che sperano che la propria squadra possa accedere al palcoscenico più importante. È stato questo, senza dubbio, il limite più grande del progetto: non tenere conto della forza sociale del calcio e dei milioni di tifosi che lo animano.