“I care”, il nuovo motto dell’Unione europea. In una congiuntura felice per l’Unione europea, dovuta ad una gestione unitaria della pandemia con l’erogazione delle somme necessarie a rialzarsi dalla batosta sanitaria e quindi socio-economica e occupazionale, ritorna in modo prepotente l’orgoglio dell’essere e del sentirsi europei, dopo anni di euroscetticismo e di sostanziale sfiducia nei confronti di Bruxelles, accusata di autoreferenzialità e di una eccessiva rigidità delle sue politiche, non ultime quelle improntate all’austerity.
E in questo spirito di rinnovata credibilità si inserisce la riscoperta dei padri nobili dell’Istituzione politica europea che, a quelli già sanciti dalla storia e dall’impegno politico, pensa di aggiungerne degli altri, a dimostrazione della necessità di declinare in chiave nuova e vincente l’azione unificatrice di un organismo che, comunque, potrebbe fare di più e di meglio.
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Alla ricerca di una mission
Una Unione europea che per molti decenni è stata alla ricerca di una sua mission nella quale tutti potessero riconoscersi, incalzata dai populismi e dai sovranismi che l’hanno presa a bersaglio per qualsiasi dossier. Oggi, con Mario Draghi, ex presidente della Bce, a Palazzo Chigi e nel bel mezzo di una crisi causata dal Covid-19, i paesi membri sembrano aver ritrovato le ragioni dello stare insieme.
E cosa c’è di meglio e di più qualificante dei simboli e degli slogan, dei padri ispiratori e dei modelli da seguire? Sarà forse per questo che giorni fa Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, in occasione del discorso sullo stato dell’Unione, ha pensato bene e in modo appropriato di citare Don Milani, il parroco di Barbiana, e il suo “I care” – io mi prendo cura – come modello per l’Europa di domani, proponendo il “We care” come motto dell’Ue? Si dirà che è il tempo della solidarietà, del gioco di squadra, del “nessuno deve restare indietro”.
“I care”, il nuovo motto dell’Unione europea
Cosa significa infatti “I care” se non assumersi responsabilità, occuparsi dell’altro e agire in sinergia? Cosa è stato Don Milani con il suo esperimento rivoluzionario della scuola di campagna? Sicuramente uno dei più grandi modelli educativi e di insegnamento, per una scuola che non escludesse nessuno e che includesse tutti, che offrisse opportunità di crescita e di miglioramento. La percezione è che i tempi che stiamo vivendo siano il contesto più idoneo per questa impostazione. I sovranismi e le loro ragioni nazionalistiche hanno perso appeal e terreno. Le politiche di contenimento dei contagi hanno insegnato che per molte questioni i confini sono solo virtuali e che molte tematiche non possono che essere affrontate in modo effettivamente collegiale. È il principio della solidarietà, di quella solidarietà che ispirò i magnifici sette Padri della Ue, Alcide De Gasperi, Altiero Spinelli, Jean
Monnet, Robert Schuman, Joseph Bech, Konrad Adenauer, Paul-Henri Spaak, senza i quali il disegno di una Europa solidale e politicamente unita sarebbe rimasta pura utopia. La pandemia ha offerto un ottimo banco di prova per testare la capacità di reazione dell’Unione europea dinnanzi al blocco dell’economia e dell’occupazione, con un pesante arresto del Pil, in uno scenario del tutto nuovo. Lo strumento del Recovery Fund, con l’assegnazione di risorse all’Italia per un totale di 250 miliardi di euro per spese in investimenti infrastrutturali ha sicuramente contribuito a una diversa considerazione dell’Istituzione europea.
È vero, adesso il nostro Paese dovrà dimostrare di esserne all’altezza ma, come sottolinea il 33° Rapporto Italia dell’Eurispes, l’Italia dovrà guardare lontano «perché è qui che si giocherà la partita e tutto dipenderà dalla qualità della progettazione con la quale accompagneremo le scelte da sottoporre a Bruxelles». Un rischio è che si possa pensare di procedere come nel passato e quindi di vedersi respingere progetti non adeguati nella forma ma anche nella sostanza.
L’altro rischio è «quello di poter pensare che l’Italia possa presentarsi in Europa con una raccolta di progetti e progettini elaborati dalle diverse Regioni – insomma con un vestito di Arlecchino – buona forse per soddisfare appetiti politici o clientelari ma non in grado di dimostrare una seria e coerente strategia per la ripresa e la crescita».
«La costruzione del piano italiano – sostiene Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes – deve essere ancorata alla consapevolezza che il programma di interventi deve avere una proiezione di lungo periodo con una traiettoria di 10-20-30 anni ed essere, nello stesso tempo, in grado di dispiegare i primi tangibili effetti a partire dal breve termine mettendo in moto un volume di risorse sufficienti a superare le difficoltà più immediate di famiglie e imprese».
La corretta gestione delle risorse
Le risorse ci sono e possono consentire davvero una ripresa dei ritmi di produzione e un rilancio dell’economia, senza considerare che la pandemia ha evidenziato le falle dei vari sistemi, accelerando quei processi di riforma che da anni giacciono nei cassetti e che ora sono diventati improrogabili: da quella della Pubblica amministrazione a quella fiscale, dalla giustizia al welfare. Riforme che una digitalizzazione ancora più accentuata può definire in modo ancora più incisivo.
È un fatto che l’Europa abbia messo a disposizione degli Stati membri 390 miliardi nella forma di contributi a fondo perduto e 360 miliardi nella forma di prestiti a lungo termine. «In questo contesto – spiega il presidente Fara – assumono grande rilevanza le scelte che verranno fatte sulla destinazione delle risorse ai diversi territori e, nel nostro caso, al Sud per il quale il Recovery potrebbe essere l’ultima carta di riscatto possibile: occorre passare dalla logica dell’emergenza e del timore del rischio, alla normalità nella programmazione delle opere pubbliche, ossia individuare un quadro di obiettivi chiari e da perseguire con tenacia, sostituendo vaghe aspettative con concrete procedure per realizzare quanto effettivamente serve con maggiore priorità».
In ogni caso, l’Unione europea in questa occasione ha dimostrato spirito di coesione e concretezza, inaugurando una stagione di effettiva solidarietà dinnanzi ad una emergenza globale. Un vero e proprio stress test che sinora, anche sul tema dell’approvvigionamento dei vaccini, nonostante qualche defaillance con le Big Pharma, la Ue ha superato grazie ad una politica di ascolto e di solidarietà. In questa prospettiva, “I care” o “We care”, può essere il motto migliore, soprattutto se questo approccio diverrà abituale, trasformandosi in un metodo da applicare a tutte le altre tematiche.