Che cosa ci mancherà di più di Franco Battiato? Sicuramente tanto, compresa anche la divertita reazione che avrebbe riservato al gran numero di “coccodrilli commemorativi” che, in questi ultimi giorni, hanno risalito la corrente del fiume virtuale della memoria. A dimostrazione del fatto che il valore di una presenza viene realmente misurato solo quando si inizia a percepirne la mancanza.
È il metabolismo del distacco che fa sì che la memoria più autentica passi sempre attraverso l’accettazione e la rielaborazione del lutto secondo un processo – sofferto e mai scontato – di cui non si possono prevedere i tempi. L’unica certezza, in questi casi, è che i tempi che dovranno passare saranno necessariamente e inevitabilmente lunghi. Dunque, per quanto, a pochi giorni dalla morte di Franco Battiato, ci si sforzi di stabilire che cosa ci rimarrà o meglio si tramanderà del suo straordinario lascito artistico, bilanci e previsioni saranno immancabilmente lacunosi e provvisori. Ma è proprio questo ciò che accade quando il patrimonio da ereditare ha un valore di cui non si può stimare l’enormità.
Uno, cento e più Battiato
È probabile, se non del tutto certo, che il Battiato di cui maggiormente ci si ricorderà sarà il musicista, autore e interprete di tante canzoni anzitempo diventate dei classici. In questa previsione non c’è niente di azzardato, perché il Battiato che più si conosce e ama è quello della Voce del padrone o di superbe canzoni come La cura e Ti vengo a cercare.
Tuttavia, dentro il musicista ci sono tanti strati ed espressioni di creatività che l’estimatore di Battiato farebbe bene a non trascurare. C’è il Battiato che ha amato la pittura e che deve essere stato tentato qualche volta, come è accaduto a Joni Mitchell e Cat Stevens, dal proposito di dedicarvisi anima e corpo, anche a costo di mettere per un po’ di tempo nel cantuccio la vocazione e il mestiere di musicista. C’è poi il Battiato che si è dilettato (con meno consensi e fortuna, a detta di molti) nella realizzazione di corti e lungometraggi. C’è anche il Battiato intellettuale e pensatore, mistico e gran conoscitore di più civiltà: quella occidentale di cui sentiva, seppur molto criticamente, di essere figlio e quella delle sapienze orientali da cui era fortemente attratto. C’è, infine, il Battiato “ibrido”, quello delle tante collaborazioni con artisti che il mercato discografico ha spesso colpevolmente sottovalutato come Giuni Russo e Juri Camisasca. Insomma, ce n’è davvero per tutti per scegliere il proprio e quasi esclusivo Battiato.
Un invito al viaggio
Potremmo intendere le esplorazioni artistiche di Battiato come un viaggio che fa di ogni sua tappa un passaggio e un’iniziazione. Un po’ come suggerisce l’inedito di quell’album di cover superbamente interpretate che è Fleurs, esplicito omaggio a Baudelaire e a Gesualdo Bufalino, l’amico scrittore conterraneo a cui dedicherà L’imboscata. In effetti, tra le tante definizioni che si possono dare della musica di Battiato può calzare a pennello quella di un Invito al viaggio, una delle tante canzoni dell’ultimo fecondissimo periodo di creatività durato una ventina di anni in compagnia di Manlio Sgalambro, il filosofo-paroliere che, in Teoria della canzone, pensando, vien da immaginare, proprio all’amico Battiato, teorizzava l’avvento di una popular music senza populismo.
Maestro di leggerezza
Se Calvino ha scritto della leggerezza in una delle sue memorabili lezioni d’oltreoceano, Battiato l’ha invece messa in musica. Lo ha fatto combinando spiritualità e mondanità, erudizione e non-sense, sperimentalismo e rispetto per le radici della tradizione. Ha cantato di “gesuiti euclidei vestiti come bonzi per entrare a corte degli imperatori Ming” e di discutibili preferenze gastro-culturali che potrebbero far preferire un bel piatto di insalata a una sinfonia di Beethoven o a un brano di Sinatra. Con la stessa disinvoltura si è servito di mille riferimenti a Hegel, Pascal, Lu-Tzu e ai grandi mistici dell’Occidente come Giovanni della Croce e Teresa d’Avila, convinto sostenitore della credenza che una sapienza non è mai una vera dottrina ma, semmai, la sintesi di mille altre sapienze.
La cura e il suo eterno significato
Non c’è ovviamente una canzone che più di altre possa rappresentare Battiato. Ci sono, però, canzoni che sembrano piacere più di altre. Di queste, La cura è stata e continua a essere una delle più amate. Cantata in più lingue, cover dalle non sempre impeccabili interpretazioni, La cura, scritta a quattro mani con Sgalambro, viene considerata una delle canzoni d’amore più belle degli ultimi anni.
A sorprendersi per il grande successo della canzone è stato per primo lo stesso Battiato, che ebbe subito (così ha dichiarato) la sensazione di essere stato attraversato da una felice ispirazione, ma non la certezza che quella sarebbe stata considerata una delle sue canzoni capolavoro. Nel testo si legge che siamo esseri speciali, che possiamo esserlo per gli altri, soprattutto se di questi sapremo prenderci cura, e che non c’è ostacolo che non possa trasformarsi in eroica impresa.
La canzone dice davvero tanto e qualsiasi tentativo di ridurla a una precisa interpretazione (compresa quella che ne vuole fare una canzone d’amore) può diventare un errore. Anche Battiato decise di non licenziare un’interpretazione unica e definitiva. Scelse di fare così non per prendersi bonariamente gioco di tanti inutili sforzi esegetici, ma perché, molto semplicemente, una canzone è come la vita, che può diventare tanto più difficile ed esigente quante più aspettative e significati in essa riponiamo.