Il declino dello Stato moderno nelle sfide del presente

Il difficile adattamento dello Stato moderno alle sfide del presente, alla tecnologia e al mondo virtuale. Lo spaccato di Massimo Russo, Direttore di Esquire Italia.

Lo Stato moderno nelle sfide del presente

Lo Stato moderno e le sfide del presente. «Lo Stato nazione è una tecnologia sociale che ha avuto per secoli il compito di assicurare benessere, progresso e sicurezza alle persone. Questa invenzione della modernità non è più adatta ai bisogni della collettività, sono le piattaforme private che hanno preso il suo posto, dovremo perciò essere pronti a comprendere i nuovi equilibri politici ed economici che questo comporterà, per non rimanere completamente spiazzati». Questa la tesi di fondo di Statosauri (ed. Quinti Quarto) saggio di Massimo Russo, manager e giornalista, direttore di Esquire Italia, che offre uno spaccato efficace del rapporto che lega democrazia e rivoluzione digitale.

 

Lo Stato moderno e la complessità delle sfide del presente

«Il mondo continua a restringersi malgrado alcuni eventi ci abbiano portato a pensare diversamente. La pandemia ci ha fatto alzare barriere contro la paura, stimolando qua e là rigurgiti di sovranismo e strane nostalgie nazionaliste. Si tratta di vecchi arnesi destinati ad andare in disuso». Partirei da questa affermazione contenuta nel saggio per cercare di spiegare il neologismo utilizzato per titolare il saggio: Statosauri. Cosa vuol dire esattamente?

Gli Stati nazionali sono una costruzione politica e sociale inadatta a gestire la complessità delle sfide del presente. Organismi del passato non più adeguati a un ecosistema differente. Partiamo dalla definizione di “tecnologia”. Secondo Treccani, è una parola che «indica le tecniche utilizzate per produrre oggetti e migliorare le condizioni di vita dell’uomo: non si tratta quindi solo di realizzazioni concrete, ma anche di procedure astratte». In questo senso, anche le costruzioni sociali sono tecnologie, come lo sono le città, le piazze, la natura divina del sovrano che fu necessaria per spiegare la derivazione in capo al re del suo potere. Dunque, anche gli Stati sono una tecnologia. Le tecnologie invecchiano e diventano obsolete. Mentre gli obiettivi e i bisogni che hanno portato alla loro affermazione sono più che mai vivi ed attuali. Parliamo di sicurezza, prosperità, sviluppo.

Nell’epoca delle piattaforme digitali, gli Stati sono dunque destinati a un irreversibile declino?

L’epoca delle piattaforme, abilitata da Internet e dal passaggio al digitale entro cui viviamo immersi, presenta uno scenario che poco ha a che fare con quello che ha dato origine allo Stato moderno. I soggetti che se ne sono potuti giovare, grandi aziende private, pongono sfide che gli Stati non sono in grado di affrontare. La connessione permanente, l’intelligenza artificiale, l’aumento della capacità di calcolo, i modelli di business e di governo abilitati dai dati sono realtà difficilmente compatibili con realtà territoriali basate su paradigmi del secolo scorso. E ciò negli ultimi anni ha provocato squilibri ormai evidenti. Gli Stati si basano su tre pilastri: la sovranità, che si è svuotata ed è diventata sovranismo, il popolo, ormai rappresentato dal simulacro del populismo e l’idea di confini e di territorio, polverizzata dal digitale. Occorrono nuove forme di ingegneria sociale in grado di cogliere queste opportunità e di misurarsi con queste sfide.

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Link e neo capitalismo nello Stato moderno

Il “capitale diventa un link” come viene detto nel suo saggio. Questa affermazione sottende un cambio di paradigma. Dobbiamo e possiamo concludere che il capitalismo tradizionale è giunto al capolinea?

La rete Internet ha abilitato modelli economici molto diversi da quelli dell’epoca delle macchine. Prima serviva un grande capitale per dare il via a un’impresa. Questo capitale era di solito immobilizzato. Pensiamo a un’industria, a un’istituzione finanziaria. Con la Rete, le connessioni con i tuoi utenti, il loro numero e la loro forza diventano più importanti che mai. Si può operare nella mobilità con il car sharing senza possedere mezzi di trasporto, raccogliere capitali per finanziare imprese con il crowdfunding, diventare un gigante dell’industria ricettiva senza possedere immobili.

Le merci, inoltre, diventano sempre più software, pensiamo alle automobili il cui motore cambia caratteristiche con un aggiornamento del sistema operativo. Non significa che il capitalismo tradizionale sia finito. Ma chi sa utilizzare queste nuove opportunità può crescere con molta facilità, anche perché i costi marginali per la produzione di beni o servizi digitali sono decrescenti o tendenti allo zero. Non è un caso se, negli ultimi vent’anni, il 52% delle aziende americane che facevano parte dell’indice “Fortune 500” è sparito: acquisizioni, fallimenti, chiusure. E le prime cinque imprese per capitalizzazione sono tutte piattaforme digitali.

 

I cambiamenti post pandemia

Sappiamo (più o meno) quali sono stati gli effetti che la pandemia ha generato sul fronte sanitario. Sul versante geopolitico, lo scenario è in evidente mutazione. Cosa dobbiamo aspettarci?

La pandemia è stata un acceleratore dei processi di globalizzazione e di condivisione di conoscenza. Il che non vuol dire che, viceversa, non assistiamo a spinte di senso contrario, a nuovi nazionalismi, all’erigersi di nuovi muri, al ritorno di chiusure. Ma si tratta di reazioni forti, proprio perché significativi e ineluttabili sono i movimenti tettonici e globali a cui stiamo assistendo. Alcuni paesi potranno decidere di rimanerne fuori, di balcanizzare la Rete e il digitale applicando anche ad essi i confini del Novecento. Ma questo significa anche tagliarsi fuori dai benefici che essi possono portare.

 

La fine dei territori

La diffusione del virus ha creato un bisogno di confinamento. In questa dinamica dobbiamo aspettarci una riemersione del Leviatano di Hobbes?

Il nascere dell’organismo statale in Hobbes, oltre che da ragioni di efficienza, era determinato soprattutto dalla paura della caduta nello stato naturale, della regressione al caos. La paura è una forza fondamentale, un istinto che ci permette di reagire rapidamente al pericolo. Ma nessuno vorrebbe compiere le scelte fondamentali della sua vita basandosi solo sulla paura. Inoltre, la paura è uno straordinario modello di business e di creazione del consenso politico. Infine, è un alibi che ci deresponsabilizza. Di solito, indica un capro espiatorio sul quale addossare i nostri fallimenti: “È colpa degli stranieri”, “No, delle big-tech”, “Del grande complotto”. Esercitare la libertà è faticoso.

Democrazia e tecnologia, potere dell’algoritmo, come si declina la delicata catena di questi rapporti?

Cos’è un algoritmo? Un insieme di procedure per arrivare a un determinato risultato. Anche la ricetta per la crostata di frutta è un algoritmo. Si può avere paura di una ricetta? Non dobbiamo demonizzare le parole. Certo, la potenza di calcolo e l’intelligenza artificiale, l’uso dei dati, ci pongono nuove sfide, ma sono le sole tecnologie che possono davvero rimettere in moto l’ascensore sociale, creare prosperità, aumentare il numero delle nostre scelte, la qualità della vita. La questione è chi gestisce questo potere. Dobbiamo creare i presupposti perché ciò avvenga nel migliore dei modi. E, per farlo, le Istituzioni devono iniziare a ragionare come piattaforme, mettere i dati a disposizione della crescita, trattare l’immigrazione come una risorsa e non una minaccia.

Bertrand Badie, nel celebre saggio La fine dei territori, pubblicato 25 anni fa, ci aveva visto giusto?

Badie scriveva al compimento della prima fase della globalizzazione. Ora, con il digitale, la globalizzazione ha accelerato e cambiato di stato. La moneta, la libertà di espressione, il lavoro, i mercati non hanno più alcuna connotazione territoriale. È proprio per questo che servono nuove tecnologie sociali per governare tale complessità.

 

La democrazia richiede manutenzione

Nella prospettiva di un capitalismo fondato, come dicevamo all’inizio, sulle piattaforme, il cittadino avrà la possibilità di esercitare la sovranità?

Il capitalismo è già fondato sulle piattaforme. Anche le produzioni tradizionali sono cambiate per sempre. Le merci sono software. La parte digitale della catena del valore dei beni è molto più rilevante della parte fisica; pensiamo alle automobili, avviate a trasformarsi in sistemi operativi. Il recupero della sovranità passa attraverso due cambiamenti: a livello sociale, dalla trasformazione degli Stati nazionali in piattaforme, e a livello dei singoli, dall’esercizio della responsabilità individuale. L’epoca digitale consegna a ognuno di noi nuovi poteri, che richiedono conoscenza e responsabilità per essere esercitati appieno. Serve una nuova alfabetizzazione. La libertà richiede impegno, ma del resto la democrazia non è garantita per sempre. La sua manutenzione dipende da ognuno di noi.

Stefano Rodotà si era battuto per una carta dei diritti di Internet; a che punto siamo sul terreno del riconoscimento di questa nuova generazione di diritti?

Ho avuto la fortuna di far parte della Commissione parlamentare incaricata della stesura di una carta dei diritti per Internet, guidata dal professor Rodotà. Credo che gran parte di quell’impianto teorico sia solido. Certo, migliorabile. Ma quando un documento che si occupa di argomenti così rilevanti nasce dall’incontro di diverse sensibilità, non bisogna avere paura delle mediazioni, se non sono compromessi al ribasso. L’applicazione pratica di quanto immaginato dalla carta, tuttavia, è davvero lontana. Esiste una finestra, un’opportunità. Ma dobbiamo muoverci con determinazione, lungimiranza e rapidità. L’Europa ha una cultura dei diritti collettivi, delle libertà individuali, rispetto delle diversità, possiede inoltre una conoscenza tecnologica sufficiente per costruire un umanesimo per l’epoca delle piattaforme. A patto che, noi cittadini, lo si desideri davvero

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