Sardegna, un’isola in fiamme che racconta la crisi climatica

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La conta dei danni provocati dagli incendi che, anche quest’anno, hanno martoriato la Sardegna deve essere ancora ultimata, ma sin da quando, lo scorso luglio, era scattata l’emergenza, la sua enormità era subito apparsa chiara a tutti. Difficilmente quantificabile, ma evidente. A tenere veramente banco non sono ora tanto il calcolo esatto dei danni materiali e l’urgenza delle misure e delle procedure per l’accreditamento dei Ristori destinati ai singoli e alle comunità, quanto l’annosa discussione sulla cronica difficoltà (ma c’è chi parlerebbe di incapacità) di fare fronte al fenomeno degli incendi estivi attraverso efficaci interventi preventivi.

Sempre più consapevoli del cambiamento climatico

Pare, comunque, che stia crescendo la consapevolezza della globalità del fenomeno, riferibile non più soltanto a variabili locali come la trascurata e poco oculata gestione dell’ambiente o la carenza di risorse da mettere in campo per contrastare la piaga stagionale e ricorrente degli incendi. Negli interventi dei politici sardi si fa, finalmente, sempre più riferimento a dinamiche e problematiche globali come il cambiamento climatico e il surriscaldamento del Pianeta, argomenti forti, di rado affrontati con la necessaria conoscenza, di cui – per quanto poco ragionevole possa sembrare – non si teme più l’impopolarità. Di fronte alle temperature record dello scorso agosto e alla prevedibilità di effetti sempre più numerosi e minacciosi diventerebbe complesso, se non penoso, negare l’evidenza della crisi climatica. Ciò non toglie, però, che si possano rilevare fattori, per così dire, endemici, e cioè caratteristici di una determinata area perché altrove meno presenti, come la sensibilità ecologica, le politiche di tutela del patrimonio zootecnico, la mancata, o inefficace, programmazione di studi sul territorio, la siccità. Anche questi fattori, per niente trascurabili, contribuiscono a mandare in fumo ogni 15 anni, secondo le stime di Coldiretti, qualcosa come 40mila ettari di bosco.

Un più efficace presidio del territorio

Potrebbero essere le classiche lacrime di coccodrillo quelle che sono state versate sulle rovine fumanti delle Regioni italiane che più di tutte hanno avuto a che fare con la piaga degli incendi. Non è un’accusa, ma il dato di una facile constatazione perché, secondo Coldiretti, la soluzione potrebbe essere davanti agli occhi di tutti, se è vero che per tutelare i boschi italiani basterebbe incrementare il presidio del territorio. Secondo questa logica, la maggiore vigilanza di un bene agirebbe come un deterrente nei confronti di chi è mosso da intenzioni criminali, perché a queste è purtroppo riconducibile in gran parte la casistica dei roghi, dei quali 6 su 10 continuerebbero, infatti, ad essere di origine dolosa. Ma nessuno meglio di Coldiretti sa quanto sia difficile contrastare l’allontanamento dalle campagne, proposito concretamente praticabile solo con l’aumento del numero degli imprenditori agricoli. Come potrebbero agire, d’altronde, come un incentivo le immagini della terra che brucia, di boschi inceneriti e della mattanza di animali imprigionati tra le fiamme? Sullo sfondo di queste immagini terribili c’è, poi, la desolazione di migliaia di piccole imprese e famiglie che perdono, in poche ore, il lavoro e le fortune di un’intera vita. Eppure, è arduo immaginare soluzioni altrettanto concrete e incisive come quella indicata da Coldiretti, che vede nel pascolamento e nell’insediamento diretto l’unica, realistica condizione per salvaguardare il territorio.

La paradura, dalla Sardegna alla solidarietà globale

La devastazione provocata dagli incendi sarebbe stata più grave se ancora una volta non si fosse messa in moto la macchina interna della solidarietà che nell’Isola prende il nome di “paradura”. È, questa, un’antica pratica comunitaria alla quale si ricorre in Sardegna quando un pastore, o un allevatore, vengono colpiti da una calamità: può essere il furto di una pecora, o la perdita di un intero gregge. La comunità si “appropria” della perdita subita da uno dei suoi componenti e interviene per ristabilire l’equilibrio infranto. Tutti contribuiscono, mettendo a disposizione (“paradura” significa proprio questo) foraggio o capi di bestiame, e quanto più è grave il danno da riparare, tanto più la “paradura” si fa generosa. È accaduto anche questa estate, con tutte le comunità della Sardegna che si sono attivate per assicurare ai pastori dell’oristanese, una delle aree più colpite dagli incendi, quanto serviva loro per non far morire di fame migliaia di pecore e bovini. La “paradura”, quindi, come espressione di sempre, vive forme di solidarietà che si reggono sui princìpi di un’antica, quasi ancestrale, etica mutualistica. Solidarietà che è diventata poi globale quando si sono visti sorvolare nel cielo dell’Isola i canadair provenienti da Grecia e Francia, perché il fuoco che brucia i boschi è un nemico che non conosce confini.

L’olivastro resiliente simbolo della Sardegna

Ci sono dei simboli e delle testimonianze che il fuoco piromane non ridurrà in cenere. Viene da pensare ai tanti animali – pecore, cerbiatti, cinghiali – messi in salvo dalla Clinica Veterinaria Duemari di Oristano e, purtroppo, anche ai tanti che non sono sopravvissuti. C’è invece speranza per il Patriarca, l’olivastro millenario di Cuglieri che ha conosciuto l’inferno delle fiamme. La tempra di questo prodigio della natura è così forte che per lui si profila la possibilità di sopravvivere alla violenza del fuoco. Questa dovrebbe avere risparmiato una parte delle radici, dalle quali potrebbe germogliare nuova vita. Come un centenario aggrappato con tutte le sue forze alla vita, l’olivastro resiliente è sotto l’osservazione di una squadra di botanici dell’Università di Cagliari che ne sta monitorando la complessa convalescenza. Se sopravvivrà, non sarà più quello di prima, ma diventerà il simbolo di una resilienza disperata e possibile.

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