Il turismo serve ma non paga. Un bel paradosso italiano

Uno spettro si aggira per l’Italia: è il turista. Ne perlustra le città d’arte, enclave di bellezza dovute all’opera dei nostri illuminati avi, rinchiuse ormai dentro cinture periurbane ben meno degne dell’appellativo; ne affolla gli aeroporti, i “non-luoghi” omologati dalla trionfante triade architettonica globale-vetro, acciaio, cemento; ne occupa intere sezioni di marciapiede, affollando tavolini più o meno stabili, infilati dentro recinti spesso improvvisati; percorre i “turistodromi”: invisibili circuiti cittadini contrassegnati da bazar di paccottiglia globale, stazioni mangerecce, veri e propri suq di un’improbabile miscela merceologica, fatta di qualunque cosa, prodotta ovunque, purché capace di stare su una bancarella.

Lo spettro è bizzarro e attivissimo: dorme, mangia, compra, beve, guarda, gira e poi: fotografa, fotografa, fotografa, e condivide, ovviamente. Lui è noi e noi lui, cosicché, tutti assieme, produciamo ricchezza per l’Italia, e non poca: il contributo del turismo al Prodotto Interno Lordo italiano è stimato, infatti, intorno al 12% del totale, il che colloca questa industria nella top ten delle attività produttive del Belpaese.

Forse è questa la ragione per cui praticamente nessun politico nostrano si senta esentato dal pensare (e parlare) di turismo facendo uso di equilibrate colorite espressioni, quali: “il petrolio italiano” o i “giacimenti culturali”; oppure immaginando che “il futuro dell’Italia si chiama turismo”; e ricordando sempre che “in Italia abbiamo il maggior numero di siti Unesco del mondo”. Wow!

Tanta enfatica attenzione non è, tuttavia, senza ragione: le previsioni dicono, infatti, che il circuito turistico mondiale non andrà che affollandosi nel prossimo futuro, stimando l’entità degli arrivi internazionali nell’ordine di quasi un terzo della popolazione mondiale attuale. Considerata la ragguardevole posizione che già oggi l’Italia occupa nella ideale classifica delle destinazioni mondiali – quinta, dopo Francia, USA, Spagna e Cina – c’è di che essere ottimisti ma, come diceva Amleto, «la vita è una cosa meravigliosa, a me tocca vederne le ombre».
Queste siedono all’ombra di uno splendido paradosso, che vale la pena disegnare: da un lato i dati del turismo, attuale e prospettico: numeri che raccontano una realtà importante, viva e destinata a crescere ulteriormente; dall’altro lato, l’impalcatura politico-amministrativa che dovrebbe reggere il tutto e guidarne la crescita, se non lo sviluppo. Definirla “creativa” e “ballerina” è dir poco: dall’Enit, agenzia nazionale del turismo, più volte cittadino della lista degli enti inutili da sopprimere, alle agenzie di promozione regionale – con tanto di rappresentanza “diplomatica” all’estero – fino al dicastero, protagonista oggi dell’ultimo, incuriosente, trasloco della sua vita: dai Beni Culturali all’Agricoltura.
La domanda allora sorge spontanea: se il turismo è tanto rilevante per l’Italia, oggi e in prospettiva, perché relegarlo al rango di Dipartimento in giro per altri ministeri e non farne un Ministero (con portafoglio) a sé stante?

Lo snodo lungo il quale questo paradosso prende forma è dato dall’intreccio di più elementi che, però, finiscono per convergere su un unico punto: la ragione di questa (apparentemente folle) scelta. Eccola qua: è vero che il turismo crea denaro ma è probabilmente più vero che genera un insufficiente-nullo, o (addirittura) negativo, dividendo politico-elettorale. «Forse è meglio, perciò, provare a guidarlo senza governarlo», penseranno i nostri governanti.

Il turismo “non paga”, insomma, e la ragione si annida perlomeno in tre aspetti. In primo luogo, nell’impopolarità di alcune scelte di gestione territoriale, che il turismo richiede e i residenti patiscono. Si pensi, ad esempio, alla pedonalizzazione di intere porzioni di città; all’autorizzazione alla circolazione urbana dei torpedoni e dei bus turistici; all’imposizione di regolamenti paesaggistici. Tre piccole cose che chiariscono, tuttavia, il potenziale di impopolarità delle scelte di governo del territorio imposte dal turismo.
Secondo poi, il turismo è un servizio complesso, nella cui fruizione convergono diverse attività economiche – come il commercio, l’ospitalità, l’organizzazione di eventi, quella di esperienze e via dicendo. L’orchestrazione dell’esperienza turistica può comportare, di conseguenza, la riduzione dei gradi di libertà delle imprese dei comparti interessati, in nome di un superiore disegno di offerta turistica.
Terzo, l’inadeguatezza culturale e organizzativa della Pubblica Amministrazione nelle sue articolazioni a fare una cosa che si chiama “gestione”. La fuoriuscita da questo tunnel richiederebbe scelte drastiche come, ad esempio: formazione obbligatoria, orientamento al risultato, svecchiamento della forza lavoro, digitalizzazione dei processi. Tutte cose che definire impopolari sembra poco.

Possiamo sperare, allora, un giorno, di avere un Ministero dedicato, una tecnostruttura all’altezza, una razionale riorganizzazione delle competenze e una mirata determinazione delle azioni pubbliche? «Qui ci vuole uno pratico», disse Woody Allen in un film, trovandosi una bella donna nel letto. «Qui ci vuole la politica», diciamo noi. Per ora, ci tocca accontentarci dei politici.

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