Taglio dei fondi, cancellati i servizi per l’integrazione, avvantaggiate le grandi cooperative che possono permettersi di dare una sforbiciata netta al costo per l’accoglienza degli immigrati.
Una scelta improntata esclusivamente al drastico taglio dei fondi per l’accoglienza, senza porsi il problema di riformare il sistema di prima accoglienza in Italia. Con la conseguenza di determinare un peggioramento delle condizioni di accoglienza per i richiedenti asilo oltre che di quelle delle comunità ospitanti. È questo, in sintesi, il quadro tracciato da In Migrazione nell’analizzare il nuovo schema di Capitolato per la gestione dei centri di accoglienza, presentato dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini.
A fare le spese della scelta di “aggredire” gli ormai famigerati 35 euro al giorno destinati all’accoglienza sono, infatti, le figure professionali specializzate nei servizi: circa 36mila operatori specializzati di cui almeno la metà andrà a ingrossare le fila dei disoccupati. Più che un risparmio, dunque, uno spostamento delle voci di spesa: da un lato, non si garantiscono più i necessari interventi nell’ambito dell’integrazione, sulla vulnerabilità, nel presidio delle strutture e sul piano sanitario, con conseguenze disastrose sotto il profilo del rischio sociale collegato; dall’altro, si trasferiscono i fondi nella disponibilità del ministero del Lavoro, che dovrà spendere quei fondi per misure di sostegno al reddito dei nuovi disoccupati. E se questi non garantiranno più i servizi che hanno garantito fino ad oggi, a finire penalizzati saranno anche gli Enti locali di prossimità, che dovranno tamponare le emergenze create dalla carenza di servizi destinati alle persone accolte nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria.
Di queste strutture, ormai è evidente, sono destinate a rimanere in funzione soltanto quelle che lavorano “su grandi numeri”, in grado, cioè, di fare economie di scala importanti davanti a tagli quantificabili tra i 19 e i 26 euro, per persona accolta, al giorno, su 35. Si favoriscono, dunque, proprio le realtà di grandi dimensioni, con il rischio che – ancor più che in passato – vi siano casi di realtà disposte a tagliare sui costi di vitto e di forniture di beni, pur di lucrare.
C’è da aspettarsi che pochissime, delle 1.048 associazioni e cooperative (il 57% del totale) che nel 2017 hanno partecipato a bandi per l’apertura di Cas fino a 50 posti, torneranno a farlo. I tagli, dunque, determineranno la disponibilità di meno posti del necessario e le Prefetture saranno costrette a prorogare le vecchie convenzioni a 35 euro, vanificando i risparmi tanto sbandierati dal ministro.
L’analisi di In Migrazione si è concentrata sugli effetti dei nuovi schemi di capitolati per i bandi dei Centri di Accoglienza Straordinaria attivati dalle Prefetture, che rappresentano quantitativamente oltre il 90% dell’accoglienza che l’Italia garantisce ai richiedenti protezione internazionale.
Ne emerge che il Viminale dà indicazione di cancellare i servizi per l’integrazione erogati dai gestori dei Cas: niente più corsi di lingua né sostegno per preparare l’audizione dinanzi alle Commissioni territoriali per la richiesta d’asilo. Gli ospiti saranno “parcheggiati” senza strumenti di conoscenza e di orientamento e senza mediazione culturale, determinando così anche la fine di esperienze virtuose che avevano caratterizzato alcuni bandi delle Prefetture.
Il risultato di questo repentino ritorno al passato è, dunque, già noto: sfruttamento lavorativo e caporalato, accattonaggio, aumento della microcriminalità e forte rischio di arruolamento da parte delle mafie.
Un modello che taglia servizi e personale, concentrandosi sulla fornitura di vitto, alloggio e beni materiali, cessa anche di sostenere le vulnerabilità di chi è sfuggito a guerre e persecuzioni. Sparisce lo psicologo, e l’assistente sociale, nei centri fino a 50 posti, dovrà essere presente per 6 ore settimanali. Per di più, all’aumentare del numero di ospiti diminuisce fortemente il tempo disponibile per incontrare questa figura, che deve far fronte anche a una elevata mole di burocrazia. Stesso discorso per i mediatori culturali, che, nei centri più grandi, si potranno incontrare per meno di 20 minuti al mese.
La situazione, già resa insostenibile, rischia di sfociare poi nell’allarme sociale se crollano anche le prestazioni minime di assistenza sanitaria. La presenza del medico nei centri più piccoli è richiesta per 4 ore l’anno ad ospite e non è più obbligatorio avere un infermiere in struttura. È facile immaginare le conseguenze di una scelta del genere anche sui richiedenti asilo e sulla comunità tutta.
Più in generale, la presenza di personale richiesta dai prossimi bandi, in virtù delle nuove linee guida ministeriali, è così esigua che non si potrà nemmeno garantire la continuità del presidio della struttura per le 24 ore, arrivando a un operatore ogni 150 ospiti nei centri più grandi. Quale sicurezza si può garantire in condizioni del genere? In quest’ultimo dato c’è la sintesi di tutto il paradosso di un ministro che finisce per tradire le sue stesse parole d’ordine.