Da Dylan Dog a Nathan Never. Michele Medda: “Il fumetto popolare è destinato a morire”

Da anni, ormai, si parla di imminente morte del fumetto, soppiantato nel cuore dei giovanissimi da tablet e videogiochi, snobbato dagli adulti, fiaccato dai continui rincari della carta. Eppure, nelle librerie lo spazio dedicato ai fumetti non è mai stato tanto ampio e alcuni autori nostrani hanno conquistato celebrità ed allori, soprattutto grazie alle graphic novel.
Qual è il presente ed il futuro dei fumetti in Italia? Con Michele Medda, ideatore di Nathan Never con Antonio Serra e Bepi Vigna, autore per le più importanti testate del fumetto italiano, da Tex Willer a Dylan Dog a Nick Raider, parliamo dell’evoluzione del fumetto in Italia e dei suoi lettori.

Scrivere fumetti è il sogno di molti ragazzi. Anche per lei rappresentava un sogno fin dalla giovane età? Come ha avuto inizio la sua esperienza di autore?
Per quanto posso ricordare, ho sempre voluto raccontare storie. Da ragazzino adoravo le strip umoristiche, e nei miei sogni mi vedevo come l’erede di Bonvi e Silver. Ma poi, nel momento in cui ho cominciato a considerare l’idea di fare di questo sogno un mestiere, in Italia il mercato delle strisce era praticamente morto. E così mi sono ritrovato a sceneggiare con due amici un fumetto di fantascienza. Siamo la piuma di Forrest Gump… Andiamo dove ci porta il vento, sperando che non ci porti troppo lontano da dove volevamo andare.

Qual è, a suo avviso, la peculiarità del fumetto rispetto alle altre forme narrative?
Il fumetto è una forma narrativa molto personale, direi quasi “intima”, e molto libera. Da questo punto di vista è più romanzo che cinema, nonostante col cinema abbia in comune sequenze di immagini.

In alcuni periodi storici le diverse espressioni artistiche hanno avuto la capacità di parlare con grande chiarezza del presente – si pensi al cinema neorealista e ad una parte di quello sviluppatosi negli anni Settanta, per citare un esempio. A suo giudizio, oggi il fumetto riesce a raccontare la realtà contemporanea?
Rispondo con una domanda, anzi, con due: oggi il fumetto riesce a raccontare il passato? Riesce a raccontare il futuro? Per me non significa nulla che un fumetto racconti o meno “la realtà contemporanea”: un’opera di finzione deve stare in piedi sulle proprie gambe, deve raccontare i propri personaggi e la propria storia. Personalmente, non mi interessa affatto un fumetto agganciato alla cronaca, che tratti gli stessi argomenti delle prime pagine dei giornali. Se gli autori di fumetti si fossero preoccupati di “raccontare la realtà contemporanea” non avremmo avuto Tex, Corto Maltese, Ken Parker, Cocco Bill, Lupo Alberto, le Sturmtruppen. Per me il fumetto è invenzione nel senso più alto del termine, è la creazione di universi fantastici e di storie. Memoir o biografie a fumetti non mi interessano. E men che meno mi interessa quell’ambiguo ibrido che va sotto il nome di graphic journalism.

In che misura, secondo lei, il fumetto soffre la concorrenza delle moderne forme di intrattenimento? E in che misura riesce, invece, ad offrire anche oggi qualcosa di diverso ed unico?
Ogni nuovo medium toglie materialmente un po’ di terreno sotto i piedi agli altri media. È sempre stato così, e così sarà. Il fumetto in Italia soffre particolarmente perché, a differenza del cinema, non si è strutturato in un’industria. È andata così, non c’è niente da fare. Questo non toglie nulla alla specificità del mezzo, che rimane, come dicevo prima, una forma di espressione molto personale e con margini di libertà creativa sconosciuti a cinema e tivù. Non morirà, ma si ridurrà ai minimi termini, e con una qualità media sempre inferiore. Poi, è chiaro, non si può uccidere il talento, per fortuna. I talenti ci saranno sempre… Ma stanno bruciando i campi dove il talento può crescere. E questo è un problema della cultura italiana da almeno vent’anni, non è un problema esclusivo del fumetto.

Ha detto che nel nostro Paese il fumetto non si è strutturato in un’industria. Quali sono le ragioni, a suo giudizio?
In realtà, un’industria vera e propria del fumetto – cioè una massiccia produzione autoctona e diversi concorrenti in un mercato con cifre importanti – si è sviluppata solo negli Usa e nell’area franco-belga. Da noi si è avuto un inizio di sviluppo “industriale” del settore, a cominciare dagli anni Sessanta. Ma tutto era già finito negli anni Ottanta: sono rimasti sulla piazza solo pochi editori, così diversi tra di loro da non farsi mai concorrenza. E dunque, ogni volta che una casa editrice chiudeva, non ce n’era nessuna abbastanza simile da rimpiazzarla. Per quale complesso di cause (perché sicuramente ce n’è stata più d’una) sia avvenuto questo, sinceramente non lo so. E al punto in cui siamo, è anche inutile chiederselo. A nostra parziale consolazione possiamo dire che il fumetto è praticamente finito anche in Spagna e in Argentina, paesi dove il medium aveva goduto di enorme popolarità come da noi. In altri paesi, invece (come la Germania, i Paesi Bassi, i Paesi dell’Est), non c’è mai stata una massiccia produzione autoctona. Il fumetto è sempre stato un fenomeno di nicchia, e tale è rimasto.

In alcuni paesi i fumetti sono rivolti a fasce d’età diverse e i giovanissimi rappresentano solo una parte dei lettori. Secondo lei, nel nostro Paese il fumetto si è finalmente emancipato, nella percezione diffusa, da “prodotto per l’infanzia” divenendo trasversale alle generazioni?
Non mi sembra che sia cambiato molto dagli anni Settanta. Per la maggior parte degli adulti di oggi il fumetto è una cosa che si leggeva da bambini. C’è poi una fascia di pubblico che reputa il fumetto “adulto” e lo legge anche da adulto, ma è minoritaria. E tale resterà, perché non abbiamo più un passaggio generazionale. I bambini oggi non leggono i fumetti.

Oggi ai fumetti si sono aperte le porte dei festival letterari (Gipi e Zerocalcare sono stati candidati al Premio Strega). Ritiene che, rispetto al passato, il fumetto in Italia abbia guadagnato credito come forma d’arte? Il grande successo delle graphic novel, in particolare, ha aiutato in questa direzione?
No, il fumetto non ha guadagnato credito come forma d’arte presso il grande pubblico. Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad una – sacrosanta – polemica per via di quei politici che citano le storie di Topolino come esempi di ignoranza e superficialità. Come dire: “Se leggi Topolino sei un imbecille”. Questo la dice lunga su quanto siano considerati i fumetti (e i fumettisti) in Italia. E poi non esiste un “grande successo” delle graphic novel. Esiste il successo di un paio di autori che fanno grandi numeri. Ma le graphic novel vendono, se va bene, mille copie. Se poi si va a fare la media le cifre sono più basse. Le graphic novel hanno eco sulla stampa (ma “eco” non significa “successo”) solo se hanno temi engagé o comunque spendibili mediaticamente: i migranti, la mafia, il Medio Oriente, un’infanzia difficile, “Ho-scoperto-di-essere-gay”, queste cose qua. Sono cose per un’élite che legge l’Huff Post o Internazionale, e che dà credito a quelle tematiche lì, non ai singoli autori. Gianni De Luca è stato un autore straordinario, lo sanno tutti quelli che fanno questo lavoro. Ma lavorava per Il Giornalino delle Edizioni San Paolo, quindi per i preti. Non era mediaticamente spendibile, a differenza degli autori di Linus. Credo che nessun giornale si sia mai occupato di De Luca in quanto artista tout-court. In Francia Hugo Pratt era stato insignito di un’onorificenza da Mitterrand: Chevalier des Art et des Lettres. Impensabile, da noi.

Secondo lei, in Italia siamo ostaggio di una distinzione, spesso pretestuosa, tra fumetto popolare e fumetto d’autore?
Tra qualche anno il fumetto popolare (inteso come fumetto seriale) non ci sarà più, quindi questa dicotomia sparirà. Problema risolto. A quel punto ci saranno solo graphic novel, quindi sarà interessante vedere con quale criterio spocchioso si distingueranno le graphic novel di serie A da quelle di serie B.

Ho capito bene, nel giro di qualche anno secondo lei il fumetto seriale sparirà?
Il fumetto seriale a cadenza mensile sparirà perché c’è la crisi del cartaceo. Chiudono le edicole e falliscono i distributori, quindi si vendono meno giornali, e quindi chiudono altre edicole e falliscono altri distributori. Un serpente che si morde la coda. Poi, certo, le serie continueranno a esistere in libreria, così come esistono le serie di romanzi con protagonista fisso. Ma ovviamente non sarà possibile strutturare le serie così come le abbiamo conosciute, come prodotto di uno staff di autori, con uscite mensili e con una stretta continuity. Riguardo ai manga, in quanto prodotto di importazione non hanno bisogno di grandi tirature. Per l’editore non fa differenza venderne tanti in edicola o pochi in libreria con prezzi più alti.

I lettori di fumetti sono meno numerosi rispetto al secolo scorso. Secondo lei, sono più consapevoli, più appassionati, c’è più attenzione alla qualità da parte dei lettori?
I lettori consapevoli e appassionati ci sono sempre stati. Ma, in base alla mia esperienza, non mi sembra che i lettori attuali siano più attenti che in passato. Anzi, mi sembrano mediamente meno attenti.
Qualche giorno fa leggevo su Internet una discussione interminabile sui dati di vendita dei fumetti. Ora, se ripenso a quando ero un lettore adolescente, l’ultima cosa che mi interessasse era conoscere i dati di vendita: tra di noi si discuteva delle storie, dei personaggi, e dei nostri autori preferiti. Sembra che nessuno sia più capace di dire cosa lo ha colpito di una storia, di individuare un senso complessivo nel racconto. I lettori si fissano su dettagli insignificanti, o peggio, su forzature narrative (vere o presunte) che sono presenti in qualsiasi racconto (che sia romanzo, fumetto, film). L’attenzione alla qualità che i lettori rivendicano è puro lip-service (solo parole). Il criterio è molto semplice: il fumetto “di qualità” è quello che piace a me. Il Mercato è visto come un giudice infallibile che distribuisce torti e ragioni. Se quella tale serie – che non mi piaceva – ha chiuso, e perché se lo meritava. Se ci si dovesse fare un quadro del pubblico del fumetto andando su Internet, il quadro sarebbe agghiacciante. Se poi si pensa che a scrivere certe cose è un pubblico adulto (almeno anagraficamente), vengono i brividi. Ma, intendiamoci, vengono i brividi anche a leggere quello che scrivono su Internet certi autori. A volte penso che certi pregiudizi sul fumetto – che sia un medium infantile, per nerd, disconnesso dalla realtà, per gente immatura – abbiano una ragion d’essere.

Il clamoroso successo dei film tratti da Harry Potter e Il signore degli anelli ha avuto anche l’effetto di avvicinare alcuni spettatori alla lettura delle opere originarie. A suo avviso, il dilagare delle pellicole sui personaggi dei fumetti (soprattutto supereroi, ma non solo) ha avuto la stessa influenza oppure no?
Penso che chi va a vedere un film sugli Avengers non abbia la minima idea che esistano i fumetti con gli Avengers. Ma io stesso ho visto film tratti da fumetti senza sapere che fossero tratti da fumetti: e, quando l’ho saputo, quello che ho visto non mi ha certamente invogliato a leggere gli albi.

Da un unico punto di vista il fumetto è rimasto baluardo del passato: il suo legame inscindibile con la carta. Prerogativa dei fumetti è, infatti, la quasi totale assenza di un mercato digitale. Secondo lei, questo aspetto è destinato a mutare?
È una previsione difficile. Ma, visto che ormai si tenta da almeno due decenni di portare i fumetti sul digitale e il mercato è ancora molto ristretto, credo che per avere un fumetto esclusivamente digitale passerà ancora molto tempo.

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