Il magistrato di sorveglianza è una figura di cui poco si conosce e si parla in Italia. Un lavoro complesso che incomincia quando un detenuto inizia il suo percorso di espiazione della pena. Per la pubblica opinione, bastano la condanna e il carcere, ma dopo che cosa accade, e quanto è complesso, ma anche gratificante, rendere reale il dettame della Costituzione che la pena sia espiazione ma anche percorso per il reinserimento nella società? Viviamo in un tempo in cui basta il titolo di un giornale per definire un colpevole, emettere una sentenza e voltare pagina. Eppure, esistono mondi complessi che sono propri della legge e della Costituzione che, insieme, definiscono il concetto di Giustizia. Cosa fa, dunque, il Magistrato di Sorveglianza?
L’Eurispes, attraverso le pagine elettroniche del suo magazine di approfondimento, affronta il tema della Magistratura di Sorveglianza con la dott.ssa Giovanna Di Rosa, Presidente del tribunale di Sorveglianza di Milano. Dal 2010 al 2014, è stata eletta componente togata del Consiglio Superiore della Magistratura. Autrice di numerosi articoli sui temi della detenzione, è stata nominata relatrice alla Scuola Superiore della Magistratura.
Leggi anche
Chi è e cosa fa il Magistrato di Sorveglianza
Presidente, che cosa fa e chi è il Magistrato di Sorveglianza? Una domanda secca e diretta per cercare di comprendere uno dei ruoli della Magistratura di cui meno si parla.
Il Magistrato di Sorveglianza è un giudice togato come tutti gli altri, i cui compiti primari sono definiti nella legge di Ordinamento Penitenziario n.354 del 1975, che disciplina con puntualità regole e diritti nella vita detentiva. Decide in alcuni casi da solo, per esempio sui permessi premio e sui permessi di necessità dei detenuti, sulle applicazioni provvisorie delle misure alternative, sui risarcimenti richiesti dai detenuti in caso di carcerazioni contrarie all’art.3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, tutela i diritti dei detenuti in carcere, decidendo i reclami relativi alla loro violazione, vigila sul carcere e sul rispetto delle norme all’interno, segnalando al Ministro della Giustizia eventuali esigenze e carenze organizzative, si occupa delle misure di sicurezza.
Il Tribunale di Sorveglianza è l’organo collegiale, competente sulle questioni più delicate e giudice di secondo grado delle decisioni del Magistrato di Sorveglianza, che in quest’ultimo caso non potrà personalmente comporre il collegio per evidenti problemi di incompatibilità. Nel collegio sono presenti, oltre a due Magistrati di Sorveglianza – uno dei quali presiede il collegio stesso – anche due componenti esperti, nominati tra sociologi, psicologi, criminologi, medici, quali figure che potranno fornire il loro contributo professionale per la decisione da assumere.
Il suo compito è decidere la più opportuna modalità di esecuzione della pena in tutti i suoi risvolti e declinazioni, seguendo il principio costituzionale posto dall’art.27, comma 3 della Costituzione, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. La pena non è solo quella detentiva, rientrandovi anche la pena pecuniaria; inoltre, il Magistrato di Sorveglianza decide le istanze dei condannati che riferiscono di versare in condizioni economiche disagiate e di non poter pagare le spese processuali, anche milionarie, del loro processo, oltre alle spese di mantenimento in carcere.
Il panorama delle competenze del Magistrato di Sorveglianza è, dunque, molto ampio e riguarda l’intero settore dell’esito del processo penale, arrivando fino alla riabilitazione, di competenza del Tribunale di Sorveglianza, che consente la cancellazione dei reati dal certificato penale della persona che è stata condannata.
Il Magistrato di Sorveglianza, dunque, e non l’Autorità amministrativa decidono del percorso di un detenuto.
Esattamente. Il sistema legislativo ha voluto affidare a un giudice togato, e non all’Autorità amministrativa, ogni aspetto decisionale che riguarda il contenuto delle sentenze di condanna, nessuna esclusa, e ciò fa comprendere il significato profondo che il Legislatore dell’epoca ha attribuito a questa funzione. Il ruolo del Magistrato di Sorveglianza è dunque fondamentale nel dare senso e contenuto alla pena irrogata e a tutti i contenuti nella sentenza penale, che non ha infatti concluso il percorso del condannato, perché deve essere eseguita. Le pene detentive sotto i quattro anni possono, sostanzialmente, essere espiate in misure alternative, ma occorrono condizioni esterne positive (un domicilio e talvolta un lavoro, o comunque un’autonomia economica) e valutazioni prognostiche, da parte del Magistrato di Sorveglianza, perché la misura possa essere concessa. Le altre pene, più consistenti, contengono limiti legali di tempo di espiazione per l’accesso alla possibilità di fruire dei cosiddetti benefici penitenziari. Una volta superati questi limiti, si tratta allora di verificare il percorso trattamentale concreto effettuato dalla persona condannata, alla luce anche del tempo trascorso dalla commissione del reato, per pervenire a un giudizio di esclusione della pericolosità sociale e di meritevolezza di quanto richiesto.
Si tratta di una valutazione molto complessa, essendo evidente quanto sia difficile valutare in maniera oggettiva il percorso interiore di una persona per comprendere se abbia compiuto dei progressi o meno, al fine di avviare il recupero esterno.
Quindi è il Magistrato di Sorveglianza che sovraintende al percorso di rinserimento del detenuto nella società, la pena espiata è solo una parte del percorso.
Senso della funzione di sorveglianza, ricordiamolo, è il reinserimento della persona attraverso la rieducazione, in modo che la pena serva e sia utile per restituire una persona diversa alla società. Per svolgerla, ci si avvale allora della lettura di tutti i documenti presenti, a partire dalla sentenza di condanna, dal certificato penale e dei carichi pendenti, dalle informazioni di Polizia, di quanto altro previsto dalla legge, pervenendo poi, però, alla lettura e allo studio dei documenti che tracciano il percorso interiore della persona, compreso l’eventuale percorso realizzato per la vittima e a titolo di riparazione, oltre che di risarcimento, del danno. Il carcere redige relazioni di osservazione scientifica della personalità con la presenza di esperti anche al suo interno, che svolgono colloqui ripetuti con i detenuti e li osservano durante il loro percorso. Il complesso di questi elementi, accompagnato dalla conoscenza e verifica diretta, da parte del Magistrato di Sorveglianza cui è affidato il singolo caso del detenuto, porta alla decisione che, ripeto, è davvero molto complessa.
La complessità del ruolo
Perché si sceglie questo ruolo in Magistratura? Quali sono le motivazioni che muovono verso un mondo così complesso?
Ho personalmente fatto questa scelta dopo aver svolto, a lungo, altre funzioni giudiziarie perché ero stata attratta dall’esperienza che avevo avuto in occasione di un’applicazione, ossia di una chiamata, al Tribunale di Sorveglianza, alla quale mi sono molto interessata. Si tratta di un ruolo che richiede una continua sfida, legata proprio all’impegno che assorbe e che riguarda il raggiungimento di un ideale di giustizia effettiva, quella che porta a cancellare il male, anche gravissimo, arrecato, ripristinando la vittoria dello Stato senza la perdita di una ulteriore vita, quale è quella del condannato. L’interconnessione con le altre scienze umane come la psicologia, la criminologia, ecc. è poi una caratteristica che motiva ulteriore grande interesse.
Si parla molto, soprattutto recentemente di 41 bis, ergastolo ostativo; quali sono le difficoltà quotidiane che un Magistrato di Sorveglianza si trova a vivere in questo contesto?
La maggiore complessità è legata alla verifica della situazione soggettiva per comprendere davvero il percorso rieducativo compiuto dal singolo condannato. Le norme vigenti in alcuni casi non consentono l’ammissibilità delle istanze, sul cui merito quindi non si può entrare. In prospettiva, l’acquisizione di tutti i documenti istruttori fornisce un contributo significativo, ma si potrebbe affidare anche alla giustizia riparativa un canale di possibile risposta per la decisione sull’effettivo cambiamento dell’uomo, oltre naturalmente alla più attenta osservazione compiuta in carcere. Il tema vero riguarda la strategia che il legislatore intende seguire per queste situazioni, tenuto conto del confronto culturale sulla capacità effettiva della rieducazione in alcuni casi e della sussistenza della previsione costituzionale di cui ho parlato.
La possibilità della rieducazione è una chimera, oppure è la concreta possibilità che uno Stato democratico deve dare innanzitutto a sé stesso prima ancora che al condannato?
La seconda, senza dubbio. Lo impone la Costituzione, ed è uno strumento che garantisce, essa sola, la pace sociale dopo un reato. Affidare alla mera detenzione la risposta della società al reato, senza curarsi di dare una alternativa che si impegni a tutto campo per impedire la reiterazione del reato, è non risolvere un problema, ma rimuoverlo e basta. Occorre pensare nell’ottica della rieducazione anche per dar pace alle vittime dei reati: le nuove risposte della giustizia riparativa potranno consentire anche alle vittime la riappacificazione con la stessa società, che così si impegna verso di loro, e un’attenzione duratura da parte dello Stato, che non è quella della vendetta. Certo, occorrono anche impegno, investimenti, e risorse, sia negli uffici di sorveglianza sia negli Istituti penitenziari e presso l’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna).
L’esperienza umana e professionale
Dalla sua lunga esperienza in materia, qual è la storia che più l’ha colpita sia in positivo sia in negativo nel mondo delle carceri italiane e cosa possiamo fare perché questo mondo non sia dimenticato?
Le belle storie sono moltissime, ma sono sconosciute perché il bene non si vuole ascoltare, non fa rumore e dunque non fa notizia, non viene pubblicato sui giornali. È questo il motivo per il quale la nostra funzione di sorveglianza, che rappresenta “il volto buono” della giustizia, quello della ricostruzione, quello che nella raffigurazione classica della giustizia viene dopo la spada che taglia, è così poco conosciuta. Eppure, i recuperi sono davvero numerosi, le revoche delle misure alternative bassissime (nell’ordine del 3-4% annuale circa, e alcune per eventi non colpevoli), l’assenza di recidiva molto alta (circa l’80%), ma solo se è stata data la possibilità di espiare la pena in misura alternativa, in sostanza proponendo un modello di vita legale. È recentissima la storia di un detenuto di Bollate che ha inventato un modo di tracciare i rifiuti, per incentivare la raccolta differenziata, dimostrando un talento e fornendo un’utilità alla società che quindi, da tutti i suoi componenti e sempre, trae arricchimento. Partendo dal riconoscimento della natura buona dell’uomo e dalla ricerca di questa natura, sta allora all’impegno delle Istituzioni assicurare un sistema che garantisca a tutti, anche a chi non ne ha avuto la possibilità ed ha per questo sbagliato, di poter vivere onestamente del proprio lavoro e in condizioni umane dignitose. Le storie negative sono quelle che vedo quando, in occasione di contatti e incontri con detenuti, mi accorgo di comportamenti di persone esterne e terze, che si mostrano prevenute, per il solo fatto di essere a contatto con una persona detenuta. Questo dimostra che esiste un preconcetto che deve essere ancora sconfitto. Come si potrà altrimenti far reinserire le persone che hanno commesso reati, una volta espiata la loro pena?
L’intervista è disponibile anche in inglese