L’incidente della portacontainer Ever Given a Suez ha messo in luce come l’idea di una globalizzazione ormai al tramonto sia frutto di analisi quantomeno affrettate. È bastato che una sola nave, per quanto tra le più grandi del mondo, s’incagliasse di traverso nel Canale di Suez per bloccare per vari giorni una rotta strategica per gli scambi internazionali (pari a oltre il 10%), causando danni per svariate decine di miliardi di dollari al commercio ed alla produzione delle più diverse filiere industriali transnazionali. Un tema centrale anche per l’Italia, incardinata negli snodi commerciali.
Suez, Ever Given ancora bloccata: la fragilità del commercio globale
Quello delle Ever Given a Suez è per certi versi del più classico degli imprevisti. Un evento improbabile ma non impossibile, e di portata straordinaria, che ci ha ricordato la fragilità delle catene globali del valore. È sorprendente notare come l’interruzione del traffico nel canale per così pochi giorni abbia dato un’enorme visibilità, nel dibattito pubblico, a dinamiche dei processi globali, in realtà già note da tempo.
L’“affaticamento” delle catene globali di valore, infatti, non è una novità. L’espansione apparentemente senza limiti del commercio mondiale ‒ che ha accelerato dagli anni Ottanta, trainata dall’aumento della domanda, dai processi di liberalizzazione dei mercati, dal calo dei costi di trasporto e dell’energia ‒ già prima della pandemia aveva subìto un rallentamento.
Con il diffondersi del commercio on-line e delle grandi piattaforme digitali, le catene di produzione si erano allungate sempre di più, consentendo all’industria importanti economie di scala, ma determinando anche una frammentazione organizzativa la cui complessità è apparsa spesso sfuggire al controllo delle stesse imprese.
Negli ultimi anni, vari fattori hanno contribuito ad indebolire la fiducia incondizionata delle imprese nelle delocalizzazioni, evidenziando crescenti movimenti di alcune filiere verso il “reshoring”. Il calcolo del trade-off tra efficientamento dei costi ed esposizione della produzione agli shock esterni si è arricchito di nuove variabili.
Alcune cause di questo fenomeno sono legate al graduale avvicinamento dei livelli salariali e di protezione dei lavoratori asiatici a quelli occidentali. Altre sono dettate dai rischi reputazionali, dovuti all’estrema segmentazione dei processi di produzione. Questi, infatti, espongono le aziende a possibili violazioni di norme ambientali o sociali, come quelle sulla salute dei lavoratori o sul lavoro minorile.
Le strategie nazionali e la pandemia
Parallelamente, l’esigenza di salvaguardare i livelli occupazionali in molti Paesi avanzati ha favorito strategie di sviluppo nazionali che pongono al centro la tutela dei sistemi industriali domestici. Ciò non solo per ragioni economiche, ma anche per valutazioni politiche o di sicurezza nazionale. Un ruolo importante ha giocato la temuta perdita di controllo sulla produzione di beni considerati strategici in aree sensibili, quali la tecnologia, le fonti energetiche o le comunicazioni, anche a fronte di investimenti provenienti dall’estero negli stessi settori, percepiti talvolta come potenzialmente rischiosi per l’interesse nazionale.
Con la pandemia, la forte richiesta di protezione proveniente dalle opinioni pubbliche ha rafforzato, un po’ in tutto il mondo, la sensazione che un’interdipendenza economica divenuta necessariamente asimmetrica possa rivelarsi una fonte di rischi piuttosto che di opportunità, se non accompagnata da adeguate misure a difesa dei mercati interni. Le difficoltà di approvvigionamento di prodotti sanitari ne sono state in molti Paesi la spia più evidente. Non a caso, nei massicci interventi pubblici decisi da tutti i governi per combattere gli effetti della crisi economica, molte risorse sono state destinate a rinsaldare quelle reti di sicurezza sociale che la crisi sanitaria ha messo sotto pressione, rivelando debolezze spesso imputate ad una espansione incontrollata e mal gestita dell’economia globale.
La ribalta dei “confini economici”
Lungi dallo scomparire, i “confini economici” sono così tornati a pesare di nuovo nell’equazione geopolitica degli Stati, favorendo una tendenza al ripensamento delle catene di valore nel quadro di una sorta di “regionalizzazione” della globalizzazione. In questa nuova realtà, i fattori della produzione e gli investimenti di tipo tradizionale sembrerebbero destinati a contare meno rispetto ai grandi flussi che animano settori sempre più centrali dell’economia del XXI secolo: le connessioni, i dati, i servizi, le idee, il talento.
Non sorprende, in questo contesto, come lo stesso Joe Biden, oltre agli ambiziosi piani di rilancio dell’economia con forti iniezioni di risorse pubbliche, abbia dato il via ad una revisione della strategia nazionale delle supply chain dell’industria americana, mirata a correggerne le vulnerabilità in settori chiave come i semiconduttori, i prodotti sanitari e farmaceutici, quelli tecnologici.
La stessa Cina, d’altronde, già alle prese con il fenomeno delle rilocalizzazioni di numerose aziende straniere, con il 14mo Piano Quinquennale ha annunciato di voler limitare la propria dipendenza dalle esportazioni, puntando sempre di più sui consumi interni quali driver della crescita economica. Corollario di questo nuovo orientamento si può considerare il progressivo aumento, verificatosi negli ultimi anni, dei salari medi e della domanda interna.
E l’Unione europea? Da noi, la questione del riadattamento delle catene di valore non potrà prescindere da un utilizzo oculato e orientato ad una visione organica e strategica del Recovery Plan. Il fenomeno, per le sue dimensioni e la sua complessità, non appare infatti alla portata dei singoli Stati Membri. Piuttosto, esso sembra richiedere una regia attenta da parte di tutte le Istituzioni comunitarie, ciascuna nel proprio àmbito di competenza, in attuazione di un preciso disegno comune volto a rafforzare (o a rigenerare) il tessuto industriale del Continente.
La dimensione della vicenda Never Given bloccata a Suez
Più in generale, il tema si presenta come una grande sfida che chiama in causa la governance internazionale, a cominciare dal G20. Per i Paesi occidentali la posta in palio è ancora più alta. Alfieri di una visione liberale dell’economia, essi sono chiamati a contemperare i princìpi del libero mercato, con i valori democratici fondamentali quali il rispetto dei diritti dei lavoratori, l’equità fiscale, la responsabilità sociale delle imprese.
La vicenda della Ever Given, allora, non può essere ridotta ad una dimensione puramente economico-commerciale, ma va dritta al cuore delle dinamiche geopolitiche del nostro tempo. Ed è proprio tenendo conto anche di variabili politiche e geopolitiche che la globalizzazione può continuare ad essere strumento di crescita e sviluppo sostenibile per la comunità internazionale.