Sud predisposto per natura a delinquere?

corruzione

Daniele Martinelli, giornalista professionista e membro nel 2013 del gruppo comunicazione del M5S alla Camera dei deputati, commentando i gravi fatti della caserma dei carabinieri a Piacenza ha scritto su facebook: «Va però ribadito che la predisposizione a delinquere e a fare del male è solitamente propria di chi nasce, cresce e si forma al Sud».

Come spiegherebbe, tuttavia, Martinelli gli innumerevoli casi di corruzione e di crimini commessi da agenti delle Forze dell’ordine di provenienza settentrionale? Come quello della Banda della Uno Bianca, per esempio? La cui determinazione nel commettere efferatezze fa gelare il sangue nelle vene. Come spiegherebbe inoltre scandali più recenti, come quello delle Forze dell’ordine in Trentino dell’operazione “Basil”, quello dei poliziotti degli incidenti sulla Torino-Milano nel tratto di Novara, quello di corruzione aggravata dall’agevolazione mafiosa al clan Luppino della ’Ndrangheta in provincia di Cuneo, dei poliziotti dei falsi permessi di soggiorno in Veneto al Commissariato di Jesolo, quello degli agenti di polizia penitenziaria che portavano droga nel carcere di Bergamo, quello degli agenti dei Commissariati di Porta Genova e Lorenteggio nel milanese? La lista sarebbe interminabile.
Rincarando poi la dose, in un video su Youtube, Martinelli, rivolto alla gente del Sud affermava: «Imparate a essere più civici e più civili e a far fronte ai problemi; e imparate a crescere meglio i vostri figli».

Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Interno (anno 2019), sono soprattutto le province del Centro-Nord a essere caratterizzate dai più alti livelli dell’Indice di criminalità (calcolato ogni 100mila abitanti); addirittura fra le prime 50 province d’Italia con i valori maggiori dell’indice, solo 12 sono del Sud, occupando prevalentemente le posizioni più basse. Per trovare la prima provincia meridionale nella classifica bisogna scendere al 17esimo posto. In vetta troviamo invece Milano con un valore dell’indice di 7017,3, seguita da Rimini (6430,1), da Firenze (6252,8), Bologna (6233,7) e Torino (5339,3).
Martinelli scrive ancora: «Del resto la Camorra, la Sacra corona unita, la ’Ndrangheta o Mafia con i loro metodi di sangue e violenza, non sono propriamente associabili alle mentalità tipiche del Piemonte, della Lombardia o del Veneto».
Il compianto Marcello Musso, pubblico ministero piemontese ‒ sempre impegnato nella lotta alla criminalità organizzata (ottenendo fra l’altro le condanne di Riina e Bagarella) nelle più importanti inchieste antimafia della storia d’Italia, presso la Procura di Palermo, durante il periodo stragista, e a Milano nelle inchieste sulle infiltrazioni mafiose nel Nord Italia ‒ nell’introduzione al libro Italós (2017) scrive: «Senza la lettura di questo libro, [non] si poteva facilmente immaginare che la correità di una certa politica locale o il familismo mafioso, l’omertà, la complicità della popolazione con i mafiosi del posto ‒ fenomeni da sempre considerati endemici o persino insiti in una certa parte della popolazione meridionale (come tutti hanno potuto vedere almeno una volta nei telegiornali, nell’ostruzionismo alle Forze dell’ordine da parte di gente del luogo durante taluni arresti di esponenti di clan criminosi) ‒ fossero stati per secoli fattore strutturale e profondamente radicato nelle integerrime e civili regioni del Piemonte, della Lombardia, dell’Emilia-Romagna, del Veneto ecc. […] Un piemontese non avrebbe mai immaginato, ad esempio, che nel suo Piemonte, dove chi scrive è nato, cresciuto e ha studiato per diventare Magistrato a Torino, fosse stata in uso per secoli la pratica del taglieggiamento, come pure quella dei sequestri di persona, ritenuti da sempre prerogative di clan e bande criminali del Sud e delle Isole». E difatti, l’intero Nord per secoli, fino all’Unità, quand’era ancora povero e degradato, si caratterizzava per un universo endemico di criminalità organizzata in cui, oltre ai sequestri di persona a scopo di riscatto e al taglieggiamento, era praticato, per esempio, il traffico delle giovani donne che, rapite in una data città, venivano obbligate a prostituirsi in un’altra, ove nessuno potesse riconoscerle (come si fa oggi con slave o nigeriane). Al Nord esistevano cosche mafiose autoctone ante litteram e un feroce banditismo che per razziare e stuprare realizzava vere e proprie occupazioni militari d’interi paesi. Aggiunge poi il pm Musso: «Se dall’Unità in poi i fenomeni di criminalità organizzata originari del Nord Italia si sono estinti, mentre quelli del Sud si sono ingigantiti ‒ al punto da attecchire e poi imporsi anche al Nord ‒ è stato dovuto al progressivo drenaggio di risorse che, convogliate dal Sud al Nord, hanno reso quest’ultimo, col tempo, sempre più ricco e “civile”, a danno di un Sud che diveniva, per contro, progressivamente più indigente, degradato e “aggressivo”».

Evidentemente Daniele Martinelli ignora il fenomeno secondo cui sottraendo risorse a una popolazione aumentano, inesorabili, i livelli di aggressività e di violenza (si vedano, per esempio, gli encomiabili lavori al riguardo del Premio Nobel Konrad Lorenz). E indubitabilmente il giornalista pare essere pure a digiuno del fatto che quando la penuria di sostanze diviene strutturale e protratta nel tempo si attiva poi la fenomenologia di genesi delle mafie. Continua infatti Musso nella sua introduzione: «Nessuna società è di per sé immune dal precipitare in baratri di violenza tali da diventare strutturali. […] Tutte le realtà d’impoverimento e degrado, attuate in contesti sociali popolosi, hanno sempre dato origine alla nascita di mafie: da quella russa, tra le più potenti al mondo, a quella irlandese, l’Irish Mob (l’Irlanda è stata depauperata economicamente dall’Inghilterra per vari secoli e la sua economia deliberatamente stroncata a vantaggio di quest’ultima). L’esempio irlandese è particolarmente significativo. La conquista da parte dell’Irlanda della libertà dal giogo economico inglese ha determinato una graduale e progressiva crescita della sua economia, portandola a essere, fino a prima della crisi del 2007, la celebre “Tigre Celtica”. E questo nonostante, nella prima metà del Novecento, fosse una delle aree più povere e arretrate dell’Europa occidentale. In conseguenza di ciò, ha assistito anche a un’enorme diminuzione dei suoi livelli di violenza, fino a raggiungere i gradi di “civiltà” da cui oggi è caratterizzata». Innumerevoli altre realtà furono caratterizzate da situazioni simili, uscendone solo dopo aver avuto la possibilità di crescere economicamente e di rarefare così le sacche di degrado. Tra gli svariati esempi troviamo la Chicago della prima metà del Novecento, la New York della seconda metà dell’Ottocento, la stessa Lombardia di manzoniana memoria (con i suoi bravi e l’omertosa diffusa mentalità donnabondiana), nonché quella ottocentesca, ove i lombardi erano definiti dai loro colonizzatori austriaci: “i nulli”. Le mafie del Sud Italia, viceversa, permangono perché il depauperamento e il degrado nel quale nuotano non sono mai stati interrotti, da oramai centosessanta anni circa.
Nel medesimo video su Youtube, Martinelli poi affermava: «Sono orgoglioso di essere soprattutto lombardo e di non essere cresciuto con la cultura della mafia». Musso invece scrive: «Se fossimo nati e vissuti in queste stesse aree [del Nord], fino a un secolo e mezzo fa, avremmo avuto un’idea completamente diversa della “geografia criminale” italiana. E avremmo ritenuto endemica e scontata una criminalità organizzata piemontese, lombarda, romagnola, veneta, e forse queste sarebbero continuate a esistere fino ai giorni nostri, se non fosse stato per l’incessante drenaggio di risorse finanziarie, perpetrato per un secolo e mezzo, da Sud verso Nord. Se l’Unità d’Italia non fosse stata fatta nella maniera in cui è stata portata a compimento, è altamente probabile che la criminalità organizzata meridionale si sarebbe estinta, dati i livelli di ricchezza, decisamente maggiori […] di cui godeva il Regno delle Due Sicilie».
Piergiorgio Morosini, giudice del Consiglio Superiore della Magistratura, in Attentato alla Giustizia (2011) fa l’elenco di tutti i patti Stato-Mafia avutisi nella storia d’Italia; e il primo è del 1860, confermato da Joe Bonanno (1905-2002, la più grande mente politica di sempre della mafia) capo della famiglia mafiosa Bonanno di New York, il quale nella sua autobiografia scrive che il nonno fu chiamato per accordarsi con Garibaldi per assicurare il buon esito della “missione”. I suoi picciotti venivano pagati 4 tarì al giorno. In questo modo fu data loro la possibilità d’intraprendere liberamente i propri affari acquisendo un potere destinato a crescere in modo esponenziale e di cui prima erano completamente sprovvisti. La prima cosca mafiosa vera e propria nacque infatti ufficialmente nel 1863 a Monreale, per opera del questore di Palermo che rese boss di tale organizzazione suo genero. In seguito, altri ispettori di polizia creeranno nuove cosche in altre città siciliane. Leonardo Sciascia arrivò persino a dire che, essendo il patto Stato-Mafia a fondamento dell’unità, per liberarsi dalla Mafia, l’Italia avrebbe dovuto prima “suicidarsi”.
Il termine stesso “Cosche” con grande probabilità è proprio d’importazione piemontese, derivante da “Còche”: bande organizzate di giovani criminali che, nella Torino di metà Ottocento, commettevano stupri, violenze, crimini di vario genere e omicidi, peraltro venendosi a trovare anche in lotta le une contro le altre. Fra esse, in città, divenne poi particolarmente potente la banda della Cocca che negli anni Cinquanta dell’Ottocento seminò il terrore a Torino rendendosi protagonista di furti, truffe, rapine, stupri, omicidi e altri crimini efferati (Julini, M., 1988. Poliziotti e propalatori nel Piemonte sabaudo: il caso Cibolla, 1860-1861. Torino: Stampatre, pp. 157).
Il giornalista Martinelli su Facebook ha anche scritto: «Ecco, sono questi i rudi metodi di un Sud arretrato dal quale proviene la stragrande maggioranza di delinquenti che sporcano il prestigio delle Istituzioni e di quella maggioranza di gente per bene e onesta che indossa la divisa con onore». A Torino la banda della Cocca vantava forti collusioni e connivenze con le Forze dell’ordine e altre Istituzioni pubbliche, in special modo nella persona di Filippo Curletti, alto e potente funzionario di polizia al quale, tra l’altro, erano stati assegnati l’incarico di salvaguardare la sicurezza pubblica nei nuovi territori del neonato Regno d’Italia, più altri incarichi altisonanti. Infatti, quando il capo della Cocca, Vincenzo Cibolla, fu arrestato, durante il processo dell’agosto del 1861, ritenendo di essere stato tradito, iniziò a collaborare con la giustizia facendo pesanti rivelazioni (fra cui anche quella di aver violentato e ucciso una bambina di 9 anni). Le sue confessioni arrivarono a gettar ombra persino sul governo del novello Regno d’Italia, lambendo lo stesso Cavour da poco deceduto. L’alto funzionario di polizia, Filippo Curletti, venne riconosciuto colpevole, ma riuscì a fuggire (o meglio, fu lasciato fuggire) all’estero, da dove, pochi mesi più tardi, scrisse e fece pubblicare in francese uno scottante opuscolo dal titolo: La verità sugli uomini e sulle cose del regno d’Italia. Rivelazioni di J.A. Antico agente secreto del conte Cavour (ripubblicato di recente). In tale manoscritto Curletti rivelava il lavoro sporco compiuto per realizzare l’Unità d’Italia, facendo i nomi dei personaggi politici coinvolti e descrivendo le nefandezze da essi (e da lui stesso) commesse nel riunire sotto il Piemonte gli stati della Toscana, di Modena, di Parma, della Romagna, di Umbria e Marche e delle Due Sicilie: incluse le uccisioni di avversari politici da parte di carabinieri e poliziotti piemontesi travestiti da popolani del posto; e naturalmente incluso lo scandalo delle annessioni dei suddetti stati italiani al Piemonte, giustificate tramite i plebisciti truccati, con ancora una volta poliziotti e carabinieri travestiti da popolani che votavano in luogo della gente del posto. Plebisciti a cui poi ‒ come si espresse il deputato Pope Hennessy al Parlamento inglese il 4 marzo 1861 riferendosi al caso delle Due Sicilie ‒ «l’Europa aveva assistito esterrefatta» (Di Rienzo, E., 2012. Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee. 1830-1861. Rubbettino, pp. 229).

Anche riguardo all’origine del termine “Mafia”: esso compare per la prima volta in Sicilia nel 1863, riscontrato nell’opera teatrale: I mafiusi de la Vicaria, scritta da Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca. In seguito, nel 1865 appare per iscritto in un Rapporto del prefetto di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. In tale anno il termine “mafiosi” compare anche nella legge 20 marzo 1865, n. 2248 (nell’articolo 105).
Prima del 1863, il termine è completamente sconosciuto in Sicilia. Viceversa, nell’idioma torinese è presente il termine “mafi”, “mafiu” stante a indicare una persona rozza, grossolana, ignorante e di maniere molto villane. “Brüt mafee” in milanese vuol dire uomo brutto. Il lemma “mafia” si trovava anche nel dialetto bergamasco e, nel gergo militare dell’Ottocento, l’espressione “far la maffia” aveva il significato di sfoggiare lusso. A Vicenza e Trento si usava il termine “maffìa” col significato di superbia. Secondo l’Accademia della Crusca, maf(f)ia è una vox media, con generalmente il significato di “braveria, baldanza”, potendo assumere sia accezione positiva che negativa.
Per inciso: da studi quali, ad esempio, quelli del prof. Enzo Ciconte (tra i massimi esperti in Italia di mafie e criminalità organizzata; e docente di Storia delle Mafie Italiane presso l’Università degli Studi di Pavia), emerge che ormai da decenni il Nord è “tornato” a esser teatro di affari e relazioni tra mafie, imprenditori e politici locali complici. E tali rapporti sono addirittura intessuti in maniera ancor più spregiudicata, potente e diffusa che al Sud. Le mafie, poi, insinuandosi nelle maglie del tessuto produttivo sono arrivate finanche a controllare “militarmente” ampissime aree del Settentrione (Ciconte, E., 2010. ’Ndrangheta padana. Rubbettino, Collana: Problemi aperti, pp. 217).

Marco Ascione è ricercatore Eurispes – Osservatorio sul Mezzogiorno

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