Rai e dittatura dell’auditel: l’origine della crisi del Servizio Pubblico

Renato Parascandolo, uno dei temi che sembra poco presente nel dibattito di questi mesi sulla riforma della Rai è la mission, termine con cui si identifica la direzione e gli obiettivi verso cui un Servizio Pubblico deve puntare per adempiere al suo ruolo nella società.

“Come forse saprà, la Rai non ha mai avuto una “mission” formalmente definita, se non in termini molto generici. Mi riferisco alle concessioni Stato-Rai o alle diverse convenzioni biennali che sono state via via rinnovate. Un discorso diverso vale per i “compiti” che la Rai deve assolvere che, delineati da ultimo sulla base dalla legge Gasparri (2004) nei contratti biennali di servizio, sono sempre stati oggetto di descrizioni di dettaglio, destinate a codificare i più piccoli particolari degli impegni che la Rai sottoscriveva, ma non in grado di delineare un quadro generale o gli orizzonti strategici del Servizio Pubblico; anche per questo non hanno mai fatto testo all’interno dell’azienda. Si può quindi dire che la mission è rimasta sempre implicita, e che l’azienda è stata orientata di volta in volta da delibere del Consiglio d’amministrazione e da disposizioni interne”.

Due anni fa Articolo 21, Eurovisione ed altre associazioni della società civile hanno lanciato un concorso che ha coinvolto centinaia di scuole in tutta Italia proprio per definire la mission della Rai del futuro “in non più di 10 righe”, come si trattasse di un articolo della Costituzione. Questo concorso, di cui lei è stato uno dei coordinatori, è oramai praticamente terminato, e proprio in questi giorni i giurati stanno votando la migliore mission elaborata dagli studenti. Avremo così finalmente quella che si può dire la prima consultazione pubblica sulla missione della Rai. La BBC, al contrario, fin dalla nascita (1922) si è dotata di una mission riassunta in tre semplici parole: To inform, educate and intertain.

“Non vorrei essere frainteso. La missione della Rai, anche che se non scritta e codificata, per un lungo periodo è stata chiaramente avvertita: un Servizio Pubblico volto ad elevare la cultura generale degli italiani, ad alfabetizzare la popolazione, alla crescita del senso civico…”

E ciò è stato reale dalle origini, passando con la metà degli anni ’50 all’esordio delle trasmissioni tv e, almeno, fino a metà degli anni 70

“Sì, è andata avanti finché c’è stato il regime di monopolio. Anche dopo la riforma (1975) la Rai ha continuato a svolgere egregiamente il compito di Servizio Pubblico, almeno fino alla metà degli anni ’80, quando l’esplosione della tv commerciale divenuta a diffusione nazionale, ha sostanzialmente modificato il quadro”.

Tullio De Mauro in un saggio recente ha affermato che nei primi decenni della tv “seguire le trasmissioni Rai garantiva al suo pubblico 5 anni di scuola in più”

“Mi sembra un’affermazione pienamente condivisibile. Con la nascita della televisione commerciale, con l’imporsi della logica del duopolio, cominciò invece il processo di perdita d’identità, assecondato dalle varie dirigenze che si sono succedute a partire dalla metà degli anni ’80”.

In questo processo quanto ha pesato il fenomeno della lottizzazione?

“La lottizzazione ha appesantito la Rai, ma non è stata la causa prima dell’abbassamento della qualità dell’offerta. Esso è dovuto al peso sempre più centrale che le dinamiche pubblicitarie hanno assunto nel budget complessivo della Rai, e nella testa dei suoi dirigenti. Ciò ha portato a un modello di business che ha trasformato l’utente/cittadino/abbonato in una merce da esporre sul banco del mercato pubblicitario…”

Potremmo dire che con lavvento dell’auditel (1984) la Rai è stata proiettata in un diverso territorio, che prima non le apparteneva? 

“Certo. L’auditel è un meccanismo di ricognizione dell’audience che serve esclusivamente alla televisione commerciale. Esso stabilisce a quale prezzo “vendere” i telespettatori di una determinata segmentazione economico-sociale e in una determinata fascia oraria, e non ha nulla a che vedere con la qualità dei prodotti mandati in onda …”

Per il mercato della politica è successo qualcosa di analogo, solo che lo strumento utilizzato non è stata l’auditel ma la lottizzazione. Anche il consenso si acquisisce con la tv

“E probabilmente così, ma ciò non basta a spiegare il decadimento culturale della programmazione del Servizio Pubblico, che si è messo sulla stessa rotta della tv commerciale. Paradossalmente la lottizzazione di per sé avrebbe potuto produrre una programmazione migliore. Dopo il ’75 la Rai con la riforma è passata dal controllo del governo a quello del Parlamento, cessando di essere una “televisione di stato”. Questo passaggio è stata sicuramente una buona cosa, anche se per onestà va detto che nei decenni della Rai “governativa” non si sono riscontrate le problematiche tipiche dei sistemi di comunicazione dei regimi autoritari …”

Negli anni ’60 c’era un pluralismo di fatto legato alla professionalità di figure come Enzo Biagi che portava al Tg1 o a Dicono di Lei ospiti piuttosto scomodi per i governi DC, uno per tutti, Pier Paolo Pasolini

Infatti. Ora, io sono stato per certi versi una vittima della televisione di Bernabei. La prima volta che sono stato allontanato dalla Rai è stato nel 1970, quando ero regista di “Per voi giovani”, trasmissione seguita da 7 milioni di ragazzi che andava in onda dalle 15.00 alle 17.00; una parte musicale condotta da Renzo Arbore, e una parte d’inchiesta sviluppata proprio dai giovani. Il programma fu chiuso perché, con i suoi toni diretti e per i temi affrontati, dava fastidio. Nel ’74 sono poi stato allontanato per aver fatto un servizio sulla sindacalizzazione della polizia … Ciò nonostante, guardando nel complesso alla Rai di quegli anni, posso assicurarle che quella televisione era a suo modo “pluralista” in quanto, come me, vi lavoravano molte persone non culturalmente affini a Bernabei, legatissimo al mondo cattolico e alla DC.

Passiamo ora allo specifico delle produzioni culturali e pedagogiche, La vocazione educational della programmazione della Rai degli anni ’50, ’60 e ’70, si è persa per strada, anche se il tentativo di rivitalizzarla alla fine degli anni ’90, grazie anche a lei, c’è stato e ha prodotto format molto interessanti, basti pensare a serie come La storia siamo noi. Come mai questi prodotti non sono stati offerti al pubblico dei canali generalisti e, ora come allora, languiscono confinati sui canali tematici “nicchia che lo share ha difficoltà persino a censire? Ciò è da ricondursi a una mancanza di risorse per il comparto, o piuttosto ad un disinteresse da parte dell’azienda?

“Le ripeto che a mio giudizio l’elemento determinante che ha portato all’abbassamento della qualità dell’offerta e al disimpegno sui piani pedagogico-culturale è stato l’affermarsi all’interno delle “teste” della dirigenza Rai del modello di business legato alla pubblicità, una prospettiva che ha inevitabilmente impattato sull’offerta dei programmi perché non ne considera la qualità intrinseca. L’unica qualità che questo sistema riconosce è la “capacità di catturare gli spettatori”. Succede quindi che sulle reti generaliste quei programmi che, per il livello culturale, richiedono un certo livello di cultura di base o di coscienza critica, non vengono proposti perché, “in quanto tali”, si ritiene non possano essere programmi di grande ascolto. C’è poi da considerare che la cultura non va concepita come un genere a sé. Cultura non sono solo i programmi d’arte o educativi; cultura è un determinato modo di concepire, produrre e anche condurre che può manifestarsi nei format più diversi, come faceva Zavoli per il ciclismo, o Dario Fo con il varietà…”

 Il paradosso è che dall’anno scorso abbiamo un intero dipartimento o della Rai che si chiama “Rai Cultura”…

“Che però è una riserva indiana. Una Direzione i cui programmi dovrebbero vedere spazi di programmazione anche in prima serata sulle tre reti generaliste, ma che non li trova quasi mai perché si dà per scontato che certi programmi, certe proposte, “non fanno ascolto”, mentre quelle di bassa lega hanno più successo. La pressione dell’audience si dimostra determinante, e questo rappresenta una vera e propria impostazione “politica”, che nulla ha a che vedere con la lottizzazione …”

Quindi, la lottizzazione non è stata e non è un pericolo per il Servizio Pubblico

Al contrario. Io considero la lottizzazione una delle degenerazioni più gravi che ha subito la Rai ma, per completare la risposta, non ritengo che abbia particolari responsabilità nel processo che ha visto decadere la qualità e appassire la funzione del Servizio Pubblico. Le cause della scomparsa dei programmi così detti culturali vanno ricercate altrove anche quando intersecano tematiche politiche. La decisione tutta politica di creare e mantenere il duopolio televisivo ha orientato la Rai verso l’obbiettivo del mantenimento di ascolti molto alti, un “grande risultato” per il Servizio Pubblico pagato però con la perdita della mission. Una Rai squalificata proprio perché vittoriosa negli ascolti è stato il prezzo pagato per garantire il reale monopolio nell’area pubblicitaria e della tv commerciale privata a Fininvest prima, poi a Mediaset. Se la Rai fosse scesa al 20%, 25% di share medio, offrendo programmi della stessa qualità o migliorandoli, lo strapotere di un unico gruppo privato sarebbe risultato troppo evidente. Con il maquillage della Rai dai forti ascolti si è in realtà giustificato lo strapotere Mediaset. Il risultato è che entrambe, Mediaset per vocazione, la Rai per induzione, si sono disinteressate della qualità dell’offerta.

Quindi, la perdita della leadership degli ascolti avrebbe giovato al Servizio Pubblico e ai suoi utenti.. La BBC degli anni 60 con la fine del monopolio si è trovata nella stessa situazione della Rai degli anni ‘80, ma accettò di perdere per 10 anni il primato degli ascolti a vantaggio della tv commerciale, Un primato che però, fatta “sfogare e contrastata l’offerta di profilo medio basso, ha saputo recuperare nel 1971 non modificando ma solo aggiornando la sua offerta di programmi culturali, che è rimasta costante al 34% del totale delle sue produzioni

“Non conoscevo questi dati, e li trovo molto interessanti. Da noi è avvenuto l’opposto: il Servizio Pubblico ha cambiato pelle di fronte alla sfida della tv commerciale, divenendone culturalmente succube. L’unico elemento di resistenza che la Rai ha avuto nei confronti di Mediaset è stato il Tg1. La Rai ha nei fatti costretto Mediaset ad investire negli anni ‘90, senza nessun immediato ricavo, nel Tg5. Mantenendosi accettabilmente alto il livello del Tg1, Mediaset si è vista costretta per competizione ad andare dietro alla Rai facendo un prodotto diverso, certo lontano da format come Tg4 e Studio Aperto, i tg minori del Gruppo che, visto il rapporto costi-ricavi, sono più consoni alle logiche di una tv commerciale. Ma la sfida con la Rai sull’informazione, con il Tg1 e anche con le altre testate che hanno mantenuto un approccio da servizio pubblico, l’ha costretta a inseguire. Per tutti gli altri generi, però, è la Rai che è andata a rimorchio della televisione commerciale.

Venendo alle sue dirette esperienze, quali sono le iniziative, i programmi, gli anni che ricorda con maggiore piacere nella sua lunga attività all’interno del Servizio Pubblico?

 “Io ho sempre cercato di interpretare il Servizio Pubblico anche come uno spazio di sperimentazione. Un atteggiamento che una televisione commerciale, legata a obiettivi di profitto, sicuramente non si può permettere …”

Difatti lei venti anni fa ha realizzato Mediamente, un programma sulle potenzialità del web che, nel contesto italiano, anche 10 anni fa sarebbe stato considerato d’avanguardia

“E’ vero. Penso che, per paradosso, Mediamente potrebbe esser definito ancora oggi all’interno della Rai un programma d’avanguardia.”

Probabilmente è così. La Rai infatti sul web appare ancora in fasce, anche se la rete ha oramai 30 anni di storia. Nelle statistiche italiane Alexa segnala che il portale della Rai occupa l’86° posizione, ben lontana da molte altre iniziative editoriali quali Repubblica.it, i siti degli altri maggiori quotidiani e la stessa Mediaset. Una situazione di arretratezza che non sembra in via di superamento, malgrado recenti investimenti. In questo ambito diventa addirittura improponibile il confronto con la BBC, che è stata il soggetto determinante per transitare Il Regno Unito e parte del mondo anglofono verso le piattaforme digitali.

“Questo è uno dei frutti dell’assenza di una visione politica e dello sviluppo, assenza che è stata causa anche della perdita di funzione del Servizio Pubblico. In un Paese tanto arretrato sul fronte dei digital media, dove ci sono ancora 17 milioni di italiani che hanno soltanto la quinta elementare, e con l’80% degli italiani che si informa prevalentemente solo attraverso la televisione, che ha visto la vendita dei giornali letteralmente crollare negli ultimi 5 anni; in un Paese come questo dove più del 70% degli italiani vede o Rai o Mediaset, o null’altro, chi avrebbe dovuto e potuto stimolare la transizione alla piattaforma digitale ed un utilizzo efficace del web, se non il Servizio Pubblico? La politica, invece di indicare questo importante obiettivo, si è occupata principalmente di lottizzarlo e di metterlo sotto scacco facendovi gravare il conflitto d’interessi. Il mancato sviluppo del web è poi legato al fatto che fino a qualche anno fa la rete interessava poco al mondo della pubblicità “di casa”, ovvero Publitalia. Così l’auditel ha continuato a proporre un panel che inquadra un pubblico con basso indice di scolarizzazione e poco stimolato dai new media. Il target più ghiotto è infatti la popolazione degli over 65, quella femminile e gli adulti non nativi digitali. Questo tipo di cittadini produce inconsapevolmente e incolpevolmente una sorta di “tirannia” sull’offerta televisiva perché sostanzialmente monopolizza lo share. Per queste ragioni vengono imposti solo programmi “all’altezza” di un pubblico che ha poca dimestichezza con il web”.

Quindi se in Italia la percentuale dei laureati superasse quella dei detentori di sola licenza elementare, forse la qualità dei programmi sarebbe ripensata

Sì, ma lo stato dell’arte produce un circolo vizioso: l’assenza di un’efficace agenzia pedagogica fa sì che il livello culturale generale rimanga basso, e basso è il livello del pubblico inquadrato dall’auditel e corteggiato dalla pubblicità. E’ proprio per questo che, oggi più che mai, si sente il bisogno di un grande Servizio Pubblico, l’unico in grado di moderare e contrastare gli effetti negativi della televisione commerciale. Se non ci fosse una televisione commerciale così pervasiva il ruolo del servizio pubblico sarebbe meno essenziale. La caratteristica della televisione commerciale e che si presenta come gratuita (in quanto finanziata dalla pubblicità), ma i suoi effetti si pagano, sia individualmente che collettivamente. In realtà l’obiettivo della tv commerciale non è produrre programmi, ma produrre telespettatori, stock di telespettatori che vengono venduti alle agenzie di pubblicità che li bombardano di messaggi commerciali. Il suo utente finale non è il cittadino, con le sue problematiche, sensibilità ed esigenze, ma l’inserzionista che, legittimamente, non ha una visione sociale, ma solo commerciale.

Passando ad altro, in tv politica e pubblicità condividono lo stesso target. La seconda usa l’auditel, la prima i sondaggi. Tutte e due bombardano il teleutente della televisione commerciale come di quella pubblica, Lo studio televisivo dei Tg, dei talk e dei programmi d’intrattenimento e assai ambito e oramai inflazionato dalla presenza dei politici, fino al paradosso che la politica è divenuta un “genere della tv, e la tv, il luogo quasi esclusivo della politica. L’equiparazione del potenziale elettore al potenziale consumatore è evidente, e conseguentemente il livello dell’offerta politica si è adeguato, abbassandosi. Anche in questo non sembrano esservi sostanziali differenze tra tv commerciale e Rai.

Ma, vede, se il politico trovasse un habitat dignitoso all’interno della Rai, questo calo della qualità anche nell’offerta politica non sarebbe ineluttabile. So che la mia può apparire come eccessiva benevolenza verso la politica, ma continuare ad attribuirle tutte le colpe può diventare un pericoloso alibi. Ognuno deve prendersi le proprie responsabilità. La Rai gode dal ’75 di una certa quota d’indipendenza. Non è una indipendenza totale, ma sufficiente. Il motivo per cui il fenomeno della lottizzazione ha potuto dilagare trova origine più che nelle prevedibili pressioni della politica, nella scarsa resistenza da parte del Servizio Pubblico. Le assicuro che nei primi anni dopo la riforma, dal ’75 all’85, il fenomeno della lottizzazione esisteva ma non produceva effetti particolarmente negativi. Che l’opposizione avesse per la prima volta una sua rappresentanza all’interno degli organi direttivi della Rai era un fatto di democrazia. Il Partito Comunista era stato tenuto fuori dalla Rai per 30 anni …

Ma, lottizzazione a parte, se il ruolo della politica deve essere quello di Indirizzare il Servizio Pubblico, avviene poi quello che vediamo in queste settimane, ovvero che non si parla affatto di mission ma solo di governance, un tema “tutto politico

“Questo è vero, ma si deve comunque stare attenti a non cadere in una deriva qualunquista. Quando si grida, come ha recentemente fatto il presidente del Consiglio, “Fuori i partiti dalla Rai”, c’è da chiedersi: “tolti i partiti, cosa resta?” Non c’è nulla: fuori dal Parlamento, che è il luogo dove agiscono le forze politiche, ci sono solo il governo ed i gruppi economici, istituzioni e soggetti pienamente legittimi ma di parte. Pertanto dire “fuori i partiti, fuori la politica” dalla Rai, è una posizione per me grave e qualunquista. Il fatto che la Rai dipenda dal Parlamento è una conquista, perché vuol dire che non dipende né dal governo, né dai poteri economici”

Nel sistema italiano è quindi impossibile pensare ad una Rai “intrinsecamente più indipendente, magari come lo è la BBC, che dal 2007 per rimarcare la sua autonomia è stata dotata del Trust, un organo di indirizzo addirittura separato da quello di gestione aziendale?

“Purtroppo temo sia così. Il problema è che nel sistema anglosassone le autorità funzionano, mentre le nostre autorità sembra siano state create proprio per essere lottizzate. Funzionano esattamente come una Commissione parlamentare, con i medesimi equilibri che si trovano in Aula. Non c’è il costume, non c’è la mentalità, non c’è la cultura di una democrazia “come dovrebbe essere”; e quindi la possibile soluzione, più che tenere fuori dal Servizio Pubblico i partiti, sta nel creare una efficace “cintura sanitaria” all’interno della Rai in maniera tale che non ci sia un rapporto diretto tra il Consiglio d’amministrazione e chi ha il potere di nominarlo. Ci vorrebbe, come ha detto lei, una struttura intermedia (che sia una fondazione, un comitato di garanzia) che rompa il rapporto diretto. Ma questo non basterebbe: risolto il problema “a monte”, ovvero l’organo di governo, rimane quello “a valle” rappresentato dai dirigenti della Rai e dai suoi giornalisti che negli ultimi 20 anni si sono assuefatti e adeguati al clima generale. Molti di loro hanno fatto una carriera legata piuttosto all’affidabilità ed all’appartenenza politica che alle competenze. Capisce? Mentre una volta la lottizzazione produceva accettabili risultati, perché ciascun partito che metteva in campo il meglio, i migliori tra quelli che appartenevano alla propria area politico-culturale, da un certo punto in poi la qualità delle persone è stata messa in secondo piano rispetto all’affidabilità, politica, non professionale. E questa affidabilità porta con sé la fedeltà perché se si nomina un giornalista mediocre ma “affidabile” alla direzione di un telegiornale, questi sa che, se sta lì, è solo per una gentile concessione, e pertanto sarà ciecamente fedele…

Al di là dei meriti professionali pregressi nella carta stampata, Minzolini al Tg1 insegna

“Appunto. Se lei invece fosse un bravissimo giornalista, ed io la mettessi a dirigere un telegiornale, lei non mi dovrebbe nulla perché era nei miei poteri e nelle mie funzioni: trovare un buon giornalista che si occupasse della direzione. Non mi dovrebbe nulla, e farebbe valere la sua autonomia e la sua professionalità”

In questo quadro a tinte alquanto fosche, che senso ha un’iniziativa come quella che anche lei sta portando avanti, per definire la mission del Servizio Pubblico? E una pura testimonianza o un impegno che mira ad ottenere risultati concreti?

“Io penso che se si riesce in maniera chiara e precisa – in 10 righe – a indicare qual è la missione che la Rai deve svolgere, a quali criteri deve ispirarsi, successivamente poi qualunque decisione che verrà presa a livello amministrativo, gestionale o produttivo dovrà necessariamente mostrarsi coerente con quelle 10 righe; in caso contrario si potrà intervenire per correggere il tiro”.

Quindi la Rai ha bisogno di una “Costituzione , ma conseguentemente, di una Corte costituzionale ?

“Sì, esatto. E questa Corte potrebbe essere un comitato di garanti, di persone realmente indipendenti. Si badi bene: l’indipendenza si conquista, viene riconosciuta dall’esterno, ma non la si può imporre a chi è riluttante. Speriamo che La Rai, che pure negli anni ha, sempre a parole, chiesto maggiore indipendenza, sia ancora in grado di vestirla con dignità e non ne abbia smarrito il significato”.

Torniamo a parlare della qualità. Sembra una legge ferrea: gli ascolti e la qualità dell’offerta sono destinati a non incontrarsi mai

Paradossalmente la qualità è oggi derubricata ad ancella della quantità”.

Però se prendiamo ad esempio il quiz dei “pacchi”, da anni in onda in prima serata su Rai 1, e lo confrontiamo con un illustre antenato, uno di tanti quiz condotti da Mike Buongiorno, dove la logica era quella di intrattenere stimolando il pubblico verso lo studio e l’apprendimento, vediamo che in quanto a successo il vecchio batterebbe il nuovo alla grande.

Sì, è vero. Pensi che i cinema chiudevano durante quelle serate e proiettavano la televisione in diretta …”

Quella era una televisione di contenuti, una televisione di qualità che pensava al suo pubblico. I concorrenti di quegli show diventavano personaggi rilevanti e famosi per la loro conoscenze: modelli se possibile da imitare

“Sì, ma quella era un’Italia completamente diversa, che poteva vedere un solo canale, per di più in bianco e nero. Ma programmi simili sopravvivono in parte anche ad oggi. Lei ha veduto la ghigliottina?”

Qualche volta

“Bene, questo programma non è male proprio perché ricalca quello di cui lei parla, sebbene sia un format straniero che abbiamo dovuto acquistare …”

Ma anche i quiz di Mike erano format stranieri da lui rivisitati.

“Vero, ma dopo abbiamo continuato a comprare format stranieri senza inventare niente, ed è arrivata la deriva commerciale con show come “Ok, il prezzo è giusto”. Pensi che nell’86, quando lavoravo insieme ad altri colleghi all’Enciclopedia Filosofica, il programma più in voga del momento era quello di Raffaella Carrà che aveva, come momento clou, i tentativi d’indovinare quanti fagioli ci fossero dentro un grosso barattolo di vetro … L’enciclopedia Filosofica ed ii fagioli. Questa era la situazione. C’era comunque ancora battaglia. Qualche anno prima mi ero attivato per produrre qualcosa in controtendenza. Pur non avendo alcun incarico particolare, avevo messo a frutto la mia esperienza decennale di giornalista d’inchiesta, e mi occupai di una rubrica che aveva tra i suoi pregi l’interattività: inchieste che andavano in prima serata su carceri, manicomi, sulle fabbriche e sulle scuole, realizzate direttamente con i protagonisti reali. Questa trasmissione si chiamava Cronaca (1974-84), e condivideva con le persone coinvolte l’organizzazione dell’inchiesta; così l’utente finale diventava produttore. Questo, per rispondere ad una sua precedente domanda, è forse il periodo della mia lunga permanenza in Rai cui mi sento più legato. Con lo stesso spirito, anche oggi mi batto per un Servizio Pubblico che metta al centro i problemi reali e i bisogni, le aspirazioni e le sensibilità dei cittadini”.

 

 

Il focus de L’Eurispes.it in vista della riforma della Rai

All’interno dei caotici flussi delle notizie e delle “non notizie” che accompagnano le diverse emergenze – reali o presunte – che il Paese attraversa, (rom, immigrazione, disoccupazione, polemiche sulla scuola, ecc.), i temi dell’imminente riforma del Servizio Pubblico rimangono quasi sempre sotto il tappeto e il mondo della comunicazione si dimostra colpevolmente disattento, riluttante ad “esporsi” su di una questione che lo investe direttamente. Unica eccezione lo spazio riservato agli scontri sul tema (molto, troppo, politico) della governance. Nella sostanza manca un dibattito di spessore sulla mission della Rai che riprenda e analizzi i lati oscuri della sua storia, i suoi rilevanti punti di forza e la cornice dei nuovi obbiettivi che dovrebbero indicare nei prossimi decenni la rotta a quella che è stata a lungo la più importante agenzia culturale del Paese, ma che invece da troppo tempo naviga a vista. L’Eurispes.it ha deciso di stimolare questo dibattito, liberandolo dalle miserie e dalle contrapposizioni della politica con la “p” minuscola, dando spazio ad interventi ed interviste di personalità della cultura e di operatori che hanno lasciato tracce importanti nella storia della Rai e della comunicazione, e di altri che potrebbero interpretare adeguatamente la nuova-rinnovata mission (sempre che il sistema sia in grado di elaborarla, di proporla e di assicurarsi che venga perseguita). Nelle prossime settimane L’Eurispes.it proporrà con cadenza ravvicinata diversi materiali di riflessione che arricchiranno un vero e proprio forum aperto ai contributi più vari, ma comunque caratterizzato dalla consapevolezza della centralità del ruolo del servizio pubblico nella comunicazione mainstream, nei canali specializzati e nel web.

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