Coronavirus e malasanità. La solitudine del medico tra etica e responsabilità giuridica

La pandemia di Sars-Cov-2 sta mettendo a dura prova la tenuta dei sistemi economici, sociali e giuridici su cui si fondano le democrazie occidentali, ora accomunate nella necessità di gestire il cosiddetto “Stato di eccezione”, capace di stressare il rapporto tra bene comune e diritti individuali fino ad un livello mai sperimentato prima.

Nel nostro Paese, tra le molteplici criticità da fronteggiare, emerge in maniera dirompente la questione della responsabilità giuridica degli operatori sanitari in tempo di emergenza.

Molte sono le polemiche sulle iniziative legali per i casi di malpractice in àmbito Covid-19 ed emergono sempre più evidenti le responsabilità nella pianificazione della politica sanitaria e nella gestione organizzativa concreta; ma, nello stesso tempo, si accendono dibattiti tra giuristi, medici, politici sulla possibilità (ed opportunità) di ricorrere ad una sorta di “scudo medico”, che consenta agli operatori sanitari (ma non solo a questi) di beneficiare della protezione da azioni di responsabilità (civile, penale, ecc.) a fronte della straordinarietà della situazione in essere.

È, tuttavia, evidente come gli sforzi attuali dei medici e degli operatori sanitari vadano ben oltre la retorica degli “eroi in corsia”, dovendosi invece misurare, da un lato, con un sistema sanitario colpevolmente inefficiente ed inadeguato e dall’altro, con il dovere ‒ morale prima che giuridico ‒ ed il dolore di prendere decisioni “tragiche”.

Tra queste scelte, la più difficile e “odiosa”, riguarda la gestione dell’accesso ai trattamenti intensivi dei pazienti, che, in presenza di un grande e perdurante squilibrio tra necessità di cura e risorse sanitarie disponibili, si potrebbe tradurre (o probabilmente si è già tradotta) nel decidere chi curare e chi no.

Se scegliere chi curare diventa inevitabile: diritto alla salute e risorse scarse

Ben prima dell’emergenza Covid-19 (che sicuramente costituisce un outlier), il tema delle risorse scarse (cd. “shortage”) era ampiamente emerso nel dibattito bioetico: accesso ai trapianti, gestione del pronto soccorso, medicina di guerra e delle catastrofi.

Tuttavia, la pandemia in atto è caratterizzata dalla compresenza di due fattori: la permanenza in un tempo considerevole della riduzione di risorse (definibile diacronica, non più sincronica) e l’estensione territoriale della situazione emergenziale.

Questi fattori rendono più difficile l’utilizzo automatico degli strumenti operativi e regolatori normalmente impiegati, dal triage ospedaliero alla mobilitazione sul territorio di pazienti e/o di personale sanitario.

Così, in tali gravi condizioni e in assenza di alternative, c’è chi si domanda se consentire l’accesso “indiscriminato” ad un determinato tipo di trattamenti sia effettivamente “giusto”, in quanto realizza un potenziale cattivo investimento di cure, riducendo risorse disponibili per eventuali pazienti successivi con maggiori probabilità di successo.

In tempi di grande incertezza sul tema per tutti gli operatori, la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), ha pubblicato, il 6 marzo scorso, le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili” [www.siaarti.it/SiteAssets/News/COVID19%20-%20documenti%20SIAARTI/SIAARTI%20-%20Covid19%20-%20Raccomandazioni%20di%20etica%20clinica.pdf].

Si tratta di un documento tecnico, costituito da 15 raccomandazioni fornite a tutti quegli operatori sanitari (in particolare anestesisti e rianimatori) che costituiscono la “prima linea medica” nella lotta contro una maxi emergenza senza precedenti.

Pur sottolineando che eventuali criteri di razionamento delle risorse rappresentano l’extrema ratio, in caso di necessità il documento propone di valutare, per tutti i pazienti con necessità cliniche di terapia intensiva (non solo i Covid-19), criteri di ammissione che, sebbene straordinari e flessibili in base ai vari contesti locali, tengano innanzitutto in conto della necessità di introdurre un limite di età nell’accesso alla terapia intensiva.

Definita come una scelta “non meramente di valore”, essa ha lo scopo di considerare in primis le probabilità di sopravvivenza e, in secundis, gli “anni di vita salvata”, per massimizzare il rapporto tra benefici e numero di persone che ne possano godere: secondo la SIAARTI, infatti, nello scenario peggiore, definito di “saturazione totale”, ricorrere al criterio di “first come, first served” equivarrebbe comunque a scegliere di non curare in terapia intensiva eventuali pazienti successivi, che ne rimarrebbero esclusi.
Accanto a questo, secondo il documento, devono essere altrettanto valutati la presenza di comorbidità e lo status funzionale del paziente.

Il documento ha acceso il dibattito bioetico in materia di allocazione delle risorse, rispetto a cui i vari “modelli etici” di riferimento risentono della tradizione storica e filosofica di un determinato contesto.

In generale, la riflessione in materia si sviluppa su un duplice àmbito: la “macro-allocazione”, relativa al bilancio annuale dello Stato e all’assegnazione delle risorse in sede regionale o statale; la “micro-allocazione” (cd. “bedside”) che riguarda, invece, il problema dell’impiego delle risorse al momento e nel luogo disponibili, nei confronti dello specifico individuo bisognoso.

Secondo i principali studiosi e commentatori, le proposte della SIAARTI volgono, in maniera più o meno esplicita, ad un modello cosiddetto “utilitarista” (che in altri paesi, invece, rappresenta la regola), dove il diritto alla salute individuale potrebbe assumere carattere di recessività di fronte al bene comune di salvare quanti più individui possibile, a fronte di mezzi che non consentono di curare tutti.

Nel nostro modello costituzionale, tuttavia, la salute è un diritto fondamentale e rappresenta un àmbito inviolabile della dignità umana; per questo motivo, né la Costituzione né le norme deontologiche potrebbero giustificare in astratto il ricorso a criteri che esulino dall’appropriatezza clinica; in caso contrario, si incorrerebbe in una forma di discriminazione.

Nonostante questo apparente contrasto, la straordinarietà della situazione in essere richiede di valutare se sia o meno ammissibile una “deviazione” dal modello etico e giuridico storicamente adottato. E ciò in presenza di (e limitatamente a) situazioni eccezionali e di emergenza come quella in atto.

Di recente, il Comitato Bioetico Internazionale (IBC) e la Commissione Mondiale per l’Etica della Conoscenza Scientifica e delle Tecnologie (COMEST) dell’Unesco hanno statuito che «la macro e la micro allocazione delle risorse sanitarie sono eticamente giustificabili solo quando siano basate sui princìpi di giustizia, beneficenza ed equità» e che la selezione dei pazienti in caso di shortage debba essere valutata in primis in base a «clinical need and effective treatement».

Ad ogni modo, ciò su cui i commentatori e gli studiosi concordano è la necessità di una valutazione “caso per caso”, che si fondi innanzitutto sui principali criteri di obiettività clinica e scientifica per valutare efficacia e proporzionalità del trattamento.

Tuttavia, gli stessi ravvisano la necessità di coltivare una discussione bioetica collegiale, così come di favorire «l’istituzione di organi specifici, multidisciplinari, dotati delle necessarie conoscenze, competenze e capacità», come sottolineato dal Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, Prof. Lorenzo D’Avack.

Pochi giorni addietro, anche lo stesso Comitato ha fornito il proprio parere sulla questione, seppur in presenza di una “posizione di minoranza” [bioetica.governo.it/media/3987/p136_2020_covid-19-la-decisione-clinica-in-condizioni-di-carenza-di-risorse-e-il-criterio-del-triage-in-emergenza-pandemica.pdf], con il quale ha ribadito la propria contrarietà all’applicazione di criteri aprioristici, evidenziando l’opportunità di privilegiare la valutazione del caso concreto e, in generale, l’applicazione delle regole di triage nelle maxi emergenze. Inoltre, ritiene di includere l’età tra i valori da prendere in considerazione per valutare le probabilità di successo delle cure, piuttosto che la possibilità di accesso alle stesse.

La dissenting opinion in seno al Comitato, espressa dal Prof. Mori, al contrario, è orientata in favore delle raccomandazioni SIAARTI, criticando al Comitato di aver reso l’età un criterio clinico, anziché un fattore di natura extra-clinica e, soprattutto, di non aver di fatto preso una posizione sull’emergenza concreta, rimettendo il peso della scelta al giudizio clinico del singolo operatore.

Se scegliere chi curare diventa inevitabile: la responsabilità penale del medico

Nella comprensibile assenza di risposte certe dal fronte bioetico, è lecito interrogarsi su quale sia la sorte del singolo medico che si trovi nella condizione di dover assumere scelte così responsabilizzanti.

Infatti, a causa dell’emergenza in atto il singolo medico potrebbe trovarsi di fronte ad eventi avversi, come la morte o le lesioni in danno di uno o più pazienti. In quali casi la sua condotta diventa penalmente rilevante?

La responsabilità penale del medico è un tema vasto e sfaccettato, difficile da sintetizzare in risposte certe a domande puramente astratte. Sicuramente, si dovrà valutare il caso concreto, per poter determinare il tipo di responsabilità colposa in astratto attribuibile (colpa generica, colpa specifica, colpa per negligenza, imprudenza, imperizia, ecc.).

Ciò che si può dire è che gli strumenti legislativi esistenti non forniscono rassicurazioni certe all’operatore, nonostante gli interventi di riforma degli ultimi anni abbiano tentato di rasserenare il medico che persegue il miglior operato, anche per scongiurare l’ascesa della “medicina difensiva”. E se quest’ultima era già un aspetto critico in tempi ante pandemia, una “medicina difensiva dell’emergenza” sarebbe sicuramente ancor più preoccupante e dannosa.

In tal senso, basti citare la causa di esclusione della punibilità del medico (all’art. 590 sexies, comma 2 c.p.) per i reati di lesioni colpose ed omicidio colposo: quest’ultima, in sintesi, scrimina il medico che abbia agito con imperizia, laddove abbia rispettato le linee guida o le buone pratiche clinico-assistenziali, purché adeguatamente valutate come riferibili al caso concreto.

Purtroppo, da un lato la recente esplosione dell’emergenza Covid-19 impedisce di rinvenire specifiche linee guida approvate e buone pratiche relative ai casi specifici, col rischio di non fornire adeguata copertura rispetto al numero di variabili da considerare nella situazione pandemica.

Allo stesso modo, i limiti stringenti dell’art. 590 sexies c.p. in ordine al grado ed al tipo di colpa (come definiti dalle Sezioni Unite con la sentenza Mariotti), riducono ulteriormente l’ambito di applicazione della norma citata.

Con riferimento ai casi-limite di scelta di chi curare in eguali condizioni di necessità di intervento, si potrebbe invece ipotizzare un’esclusione dell’antigiuridicità della condotta dell’operatore, non potendosi chiedere ad un medico di “fare l’impossibile”, come ad esempio intubare due pazienti in presenza di un solo respiratore.

Egli si verrebbe a trovare di fronte a due obblighi di cura, ugualmente vincolanti, ma non potrebbe assolvere ad entrambi: si tratterebbe di un “conflitto di doveri”, da valutare in relazione ad un vero e proprio “stato di necessità”.

Infine, bisogna considerare che l’emergenza e l’eccezionalità, in cui si svolge la situazione considerata, potrebbero comportare anche l’impossibilità di valutare, in concreto ed ex post se la condotta tenuta sia quella corretta.

Ciononostante, è evidente che valutazioni in concreto sono rimesse alla sensibilità degli interpreti e, quindi, ad approfondimenti giudiziari, sovente inevitabili.

Vista la situazione, sono intervenute delle proposte di legge, che tuttavia non si sono fin qui tradotte in un ingresso nel corpo legislativo. Infatti, si pensava di introdurre il cosiddetto “scudo penale” per i medici, all’interno degli emendamenti al d.l. 17 marzo 2020, n.18, il “Cura Italia”, in fase di conversione in legge. Nessuno degli emendamenti presentati al Senato è confluito nel testo approvato e poi trasmesso alla Camera, dove un solo emendamento sul tema è giunto al dibattimento in Aula.

In conclusione, il quadro delle norme attualmente vigenti si pone come poco idoneo per collocare correttamente la posizione del medico descritta. L’ordinamento non prevede una tutela chiara ed univoca nei confronti di chi si trovi ad operare in condizioni di difficoltà se non addirittura di impossibilità. Di conseguenza, sarebbe necessario un intervento normativo che sia capace, se non di indicare il comportamento corretto da tenere per il medico (sempre dipendente innanzitutto dal caso pratico), almeno di tutelarlo da un’ingiusta ricaduta in termini di responsabilità penale.

E ciò appare ancor più necessario nella situazione attuale, dove l’impossibilità di operare al meglio per tutti non è solo conseguenza di una inattesa pandemia, ma anche diretto effetto di precedenti politiche sanitarie di macro-allocazione e di gestione macro-organizzativa, carenti, miopi e talvolta clientelari. In tal senso, appaiono inaccettabili le scelte di “esonero” di responsabilità tout court anche a questi livelli, che renderebbero il Covid-19 non una legittima esimente per il medico, ma un alibi per altri.

Il presente articolo è una sintesi divulgativa del contributo “La solitudine del medico tra etica e responsabilità giuridica”, disponibile al link
https://www.devita.law/la-solitudine-del-medico-tra-etica-e-responsabilita-giuridica/

 

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