Il turismo italiano è malato, non solo di Covid

L’Italia, con 58,3 milioni di arrivi internazionali, è il quinto paese più visitato al mondo. Davanti al nostro Paese si posizionano soltanto Cina, Usa, Spagna e Francia, la quale, con i suoi 86,9 milioni di arrivi internazionali si colloca al vertice di questa particolare classifica stilata annualmente dalla World Tourism Organization (UNWTO).

Apparentemente, la posizione italiana può far pensare che il settore sia performante, ma così non è. Nella Penisola, tra il 2010 e il 2019, il turismo è cresciuto mediamente del 4,5% annuo, a fronte del 6% dei principali concorrenti europei e di quelli del Mediterraneo.

Si tratta di una erosione significativa della quota di mercato che affonda le sue radici in alcune debolezze dell’industria turistica italiana, prima fra tutte l’assenza di una cabina di regia e di coordinamento del settore. L’abrogazione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo nel 1993 e la riforma costituzionale del 2001 (che ha reso il turismo materia di competenza “esclusiva” delle regioni) hanno complicato la missione dell’Enit, l’Agenzia Nazionale Italiana del Turismo. L’Agenzia è successivamente rimbalzata tra la Presidenza del Consiglio e vari dicasteri, come il Ministero delle Attività Produttive e il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, fino ad essere, oggi, sotto il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo. Già questa serie di cambi di direzione la dice lunga sull’attenzione che le viene dedicata. Un susseguirsi di eventi che hanno reso impossibile la governance in questa materia, un decentramento che ha prodotto un sistema scoordinato di attività, la duplicazione delle spese di promozione e organizzazione che hanno finito per debilitare un settore così importante per l’economia nazionale.

Tant’è vero che, stando alla classifica The Travel & Tourism Competitiveness Report 2019 stilata dal World Economic Forum per la qualità del marketing turistico, l’Italia risulta 104esima su 136 paesi analizzati. Un dato sconfortante, che evidenzia la timidezza con la quale l’Enit pubblicizza il “brand Italia” in Rete e nelle principali fiere del settore.

Soprattutto sul Web diventa evidente il divario con i principali paesi mèta del turismo internazionale. È a dir poco impietoso il confronto del sito dell’Enit con l’omologo Ente del turismo spagnolo, in quanto poco chiaro e povero di contenuti. Il sito spagnolo è leggibile in ben 12 lingue ‒ a differenza delle 2 lingue dell’Enit ‒, con una grafica accattivante e sviluppata in modo professionale. I contenuti sono numerosi, comprensivi di video e foto patinate, esperienze di viaggio, suggerimenti utili, opuscoli da leggere per organizzare il viaggio. Il fine del sito è quello di immergersi anima e corpo in Spagna. Ogni luogo mostrato, che sia una città d’arte, una località balneare, un parco naturale, è esposto e raccontato esaustivamente, ma soprattutto nella schermata non manca mai il tasto “prenota ora”. L’obiettivo è chiaro, così come è efficace lo storico simbolo dell’Ente del turismo spagnolo, il famoso “El Sol de Mirò”.

Altra grande debolezza è l’assenza, tra i player globali delle catene alberghiere, di società italiane. Nella classifica annuale stilata da Hotelsmag le uniche due catene italiane del settore ‒ GruppoUna e Starhotels Spa ‒ si posizionano, rispettivamente, al 243esimo e al 274esimo posto. Questi dati si riflettono anche nel mercato domestico: in base all’indagine “Hotels & Chains in Italy” ‒ realizzata da Horwath HTL ‒, sei dei primi dieci gruppi alberghieri nella Penisola sono stranieri.

Un Paese che fa del turismo una risorsa ‒ cui sono direttamente riconducibili oltre il 5% del Pil e oltre il 6% degli occupati[1] ‒ non può fare a meno di avere dei campioni nazionali nell’industria ricettiva. Anche nel recente “Piano Colao”, ci si sofferma sul tema, auspicando un sostegno pubblico per la creazione di reti di impresa e aggregazioni nel settore, nonché l’avvio di iniziative che aumentino l’uniformità e innalzino la qualità e l’offerta ricettiva. Infatti, nonostante la maggior parte delle camere sia riconducibile a gruppi nazionali, gli hotel da essi controllati sono mediamente più piccoli di quelli gestiti dalle catene straniere. Le strutture ricettive italiane sono perlopiù micro e piccole imprese la cui dimensione media è pari a 5,4 addetti per impresa.

Un ulteriore freno allo sviluppo turistico del nostro Paese è la mancanza o scarsità di infrastrutture ed esso collegate. Sempre nel “Piano Colao” si sottolinea la necessità di «migliorare l’accessibilità del turismo italiano, investendo nei collegamenti infrastrutturali chiave relativi alle aree/poli turistici ad alto potenziale e ad oggi mancanti, potenziando le dorsali dell’Alta Velocità, alcuni aeroporti turistici minori e la logistica intermodale per le città d’arte».

Ad una località, infatti, non basta avere un bel paesaggio per diventare una mèta turistica. Le bellezze naturali e il patrimonio artistico devono essere fruibili dai visitatori. Sono necessarie infrastrutture che permettano al turista di soggiornarvi, di frequentare i siti che interessano, di trascorrervi il tempo desiderato svolgendovi più attività, di ristorarsi a qualunque ora, di fare acquisti, di intrattenersi in vario modo. Si tratta di strade, ferrovie, porti, aeroporti, hotel, ristoranti, bar, parchi, impianti sportivi e ricreativi, musei. L’obiettivo è far sentire il turista ben accolto, in un ambiente confortevole e fornito di servizi, che lo stimoli a tornare più volte o, meglio ancora, lo stimoli a trasferirvisi; come accade in Spagna – ancora una volta, paese preso come esempio – dove, lungo le coste mediterranee si sono sviluppate vere e proprie comunità di nord-europei lì residenti. Il motivo? Gli ottimi servizi pubblici: strade, scuole, pulizia, ordine e sicurezza. Si tratta di centinaia di migliaia di residenti benestanti, pensionati e professionisti che trasferiscono ricchezza dai paesi di origine a quello di residenza per tutto l’anno o parte di esso. Tanto è vero che, secondo un’inchiesta di El Pais, la Spagna è il primo Paese in Europa in cui gli stranieri comprano più proprietà immobiliari. Nei primi sei mesi del 2018 tedeschi, inglesi, francesi e altri hanno comprato quasi 54mila abitazioni: si tratta di seconde case dove vivere parte dell’anno o una casa per le vacanze in un luogo di villeggiatura al caldo clima mediterraneo.

Infine la “questione meridionale”. Anche in materia di turismo, purtroppo, è evidente il divario tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud. Nonostante il Mezzogiorno vanti siti archeologici di prim’ordine, un cospicuo numero di città d’arte e soprattutto un mare e un clima caldo per gran parte dell’anno, il giro d’affari che lo interessa è di appena il 15% del turismo italiano. Tale performance negativa è legata allo scarso sfruttamento del territorio e al mancato sviluppo dei servizi.

Dati Eurostat confermano come i turisti preferiscano soggiornare nel Nord Italia. Il Veneto si conferma essere la prima regione turistica italiana scelta dagli stranieri; seguono la Toscana, l’Emilia-Romagna, il Trentino Alto-Adige e il Lazio. Sono queste le uniche 5 regioni italiane comprese nella lista stilata dall’Ufficio statistico dell’Unione europea delle trenta regioni europee preferite dai turisti e, come si legge, non risulta alcuna regione del Sud.

In un recente rapporto, Legambiente sostiene che il successo delle regioni del Nord sia legato ad una superiore capacità di ricavare il meglio attraverso i servizi e la collaborazione tra pubblico e privato. La promozione del territorio è un’arma che il Mezzogiorno non sfrutta adeguatamente, e questo si deve soprattutto alle politiche inadeguate degli Enti locali. Le regioni non promuovono in maniera efficiente il territorio, come accade invece al Centro-Nord, relegando il tema “turismo” solo ai mesi di alta stagione e lasciando le strutture vuote durante il resto dell’anno.

L’estate si sta per concludere, e a breve si farà il bilancio della stagione: si è parlato di tracollo economico per tutto il settore turistico a causa della pandemia da Covid. Confcommercio stima che le strutture ricettive nelle città d’arte sono rimaste chiuse per il 70%, mentre lo sono state del 20% nelle località balneari e di montagna. La permanenza media si è attestata a meno di una settimana, mentre Coldiretti stima meno di 500 euro per persona nel 50% dei casi: si tratta di cifre decisamente inferiori rispetto agli anni precedenti. L’indice di propensione degli italiani a viaggiare, misurato da Swg, è sceso a 63 punti (su una scala da 0 a 100, mentre di solito si attesta al di sopra dei 70 punti). Alberto Corti, responsabile turismo di Confcommercio, in un’intervista al quotidiano la Repubblica afferma che: «In condizioni normali abbiamo un valore annuo di produzione pari a 230 miliardi di euro, che diventano 132 in termini di apporto al Pil nazionale: ebbene, nel 2020 lasceremo a terra oltre 100 miliardi e dunque ci vorranno almeno tre anni per recuperare il terreno perso».

Nonostante l’attuale crisi del settore e la cronica inefficienza nel mettere a sistema l’intero comparto turistico, l’Italia resta un colosso a livello internazionale. È necessario ripartire dalle potenzialità inespresse, magari prendendo a riferimento i modelli spagnolo e francese, di gran lunga più efficienti del nostro. Spesso si dice sciovinisticamente che l’Italia detenga più del 50% del patrimonio artistico del mondo o che il mare della Penisola sia più bello che altrove. Se così fosse, perché gran parte dei flussi turistici internazionali finiscono altrove?

 

[1] Il peso del turismo in Italia, le caratteristiche della domanda e la capacità ricettiva 2018, report annuale Banca d’Italia. https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/collana-seminari-convegni/2018-0023/Petrella_11dic.pdf

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