Europa e diritto d’autore. Copy (and Paste) right. Con chi stiamo?

Per vedere, talvolta, occorre pazienza. Quando un meteorite cade sulla terra, solleva un gran polverone: guardiamo ma non vediamo nulla. Poi la polvere si posa. Allora e solo allora, qualcosa iniziamo a vedere (e, forse, a capire).

Il 12 settembre 2018 ‒ sono passate poche settimane ma sembrano già anni ‒ il Parlamento Europeo approva la direttiva “Il diritto d’autore nel mercato unico digitale”.
Il testo, frutto di due anni di lavoro, si propone di aggiornare un corpo normativo sostanzialmente fermo a un tempo, il 2001, in cui ancora la Rete non aveva esploso la propria potenza.
I presupposti della direttiva, richiamati all’inizio del Testo, chiariscono che il diritto d’autore non è una pietra marginale dell’edificio europeo: «contribuisce al buon funzionamento del mercato interno e stimola l’innovazione, la creatività, gli investimenti e la produzione di contenuti nuovi, anche in ambiente digitale». Non solo: «la protezione così garantita contribuisce inoltre all’obiettivo dell’Unione di rispettare e promuovere la diversità culturale, portando allo stesso tempo in primo piano il patrimonio culturale comune europeo».

Dei 24 articoli che compongono il Testo, quelli più rilevanti sembrano essere due: l’articolo 11 “Protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale” e il 13 “Utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione (…)”. In estrema sostanza, dal disposto di questi due articoli, in particolare, emerge una filosofia ispirata alla tutela dei contenuti sulla Rete. Si impongono forme di remunerazione (il cosiddetto equo compenso) fra produttori di contenuti – es. Corriere della Sera ‒ e soggetti distributivi – es. Google ‒ facendo cadere su questi ultimi un maggiore carico di responsabilità rispetto alla condizione attuale.

L’approvazione della Direttiva Ue sul copyright è piombata sul Vecchio Continente come un meteorite (annunciato): un gran polverone e tutti lì a correre e strillare. Finalmente un po’ di polvere, ora, si è posata e possiamo forse azzardare un’occhiata al meteorite, per vedere di che si tratta per davvero.

Alla chiusura della votazione, come sempre più spesso accade di questi tempi, le posizioni si sono polarizzate su due estremi contrapposti. Da una parte i Ghibellini, tifosi dell’Impero comunitario europeo e favorevoli alla Direttiva; dall’altra i Guelfi, adoratori del Verbo Internettiano e ferocemente contrari al provvedimento. I Ghibellini esultano, salutando l’affermarsi delle ragioni del diritto e la difesa dei fondamentali dell’economia capitalista. I Guelfi si stracciano le vesti, gridando alla dittatura 4.0 e alla soppressione della libertà di espressione individuale, finalmente concessa dalla Rete.
Posizioni polarizzate diventano sempre, inevitabilmente, lo scenario di una trama da film western: gli uni danno del cattivo agli altri.
La domanda nasce perciò spontanea: chi sono i buoni?

Scena 1: i buoni sono i Ghibellini. I Ghibellini hanno le loro buone ragioni per essere favorevoli alla Direttiva: le imprese produttrici di contenuti sono entrate in una crisi, probabilmente irreversibile. Ciò si deve, in parte, a loro proprie responsabilità manageriali, in parte alla disintermediazione fondata sulla gratuità ‒ introdotta e sostenuta dai cosiddetti “Giganti della Rete”. Le loro colpe gestionali si chiamano mancanza di visione e innovazione: i produttori di contenuti si sono comportati sostanzialmente come i produttori di candele che, all’arrivo delle lampadine elettriche, pensarono di battere la novità allungando stoppini e corpo dei loro prodotti. Un po’ di miopia e sordità, ovvero continuare a pensare che la pubblicità otto-novecentesca possa ancora sostenere strutture d’impresa rigide e integrate, hanno completato l’opera. Di contro, è un fatto che il paradigma della gratuità introdotto dal web 2.0 e cavalcato dalle grandi corporation digitali, ha progressivamente eroso le fonti e i flussi di valore su cui le loro imprese si reggevano. Fare prodotti è oneroso ‒ costa il lavoro, costa l’ingegno, costano le strutture, le persone, eccetera ‒ se il prezzo si azzera nulla consentirà mai il recupero di quei costi. È una ingiustizia, insomma: la Rete, e i suoi leader, sono i cattivi che spadroneggiano nel villaggio peone. Il nostro eroe Direttiva Ue, “dal lungo passo e dal pugno di acciaio”, rimetterà a posto le cose.

Scena 2: i buoni sono i Guelfi. I Guelfi hanno le loro buone ragioni per essere contrari alla Direttiva: la Rete consente una libertà di espressione, pensiero e relazione che loro considerano un inalienabile diritto dell’Uomo. La crisi delle imprese produttrici di contenuti è da imputarsi alla loro incapacità di rinnovarsi e all’avidità, alla collusione con il potere costituito e alla chiusura corporativistica al nuovo che avanza. Non è giusto, dicono i Guelfi, che per difendere l’interesse di alcuni proprietari d’impresa si tarpino le ali alle persone; che per difendere i profitti si impediscano gli scambi; che l’interesse di pochi vada sopra quello di molti. Oltretutto, i Guelfi sostengono che la libera circolazione dei contenuti in Rete, in fin dei conti, sia benefica per i produttori: pensano, infatti, che proprio grazie a questa qualità gli autori divengano popolari e amati, le testate visitate e considerate. Tutto ciò genera traffico e frequenza e, quindi, ricavi da pubblicità, per esempio.

Forse ci sentiamo di dare (un po’ di) ragione a entrambi.
La sensazione, allora, è che la polarizzazione sia una cattiva consigliera: buoni-cattivi, Ghibellini-Guelfi, sono semplificazioni che non aiutano a capire.
Quale che sia la scena del film western verso cui si propende, la questione importante a noi sembra essere, invece, la sostanza del meteorite, fatta di bazzecole, quali: i princìpi e i diritti giuridici sui quali si fonda il vivere civile occidentale, i fondamenti economico-finanziari del capitalismo, l’eterna lotta fra rivoluzione e conservazione che, da che mondo è mondo, muove l’umanità.
Dato che la valutazione finale sul provvedimento potrà darsi solo quando il processo di approvazione della Direttiva sarà stato perfezionato a livello europeo e nazionale, forse, allora, più che di giudizi, oggi è tempo di auspici.
E allora eccoli qua. Un tempo, lavorando sulle public policy in campo economico, si raccomandava che i provvedimenti curassero contemporaneamente i legittimi interessi dei consumatori, delle imprese, della collettività. Un compito arduo ma l’unico possibile e, in nome del quale, ciascuno deve essere disposto a lasciare qualcosa sul piatto. Al solito: in medio stat virtus.

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