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Amos Oz: “Per la pace in Medio Oriente i leader non sono pronti”

di
Massimiliano Cannata

«Non voglio fare il profeta, c’è troppa concorrenza nell’industria dei profeti in terra d’Israele, che è uno stato più piccolo della Sicilia in cui 7 milioni di abitanti pensano di essere tutti primi ministri, messia e gran sacerdoti. So solo che verrà un giorno in cui bisognerà accettare il compromesso, e vi sarà un’ambasciata palestinese in Israele, e un’ambasciata Israeliana in Palestina. Gerusalemme Est e Gerusalemme Ovest saranno le capitali di due popoli che, certo non saranno felici, ma che dovranno imparare a convivere». Straordinariamente attuali le parole di Amos Oz, una delle voci più importanti della letteratura mondiale, di cui il mondo in questo fine anno piange la scomparsa. Autore di circa 18 libri in ebraico, 450 articoli e saggi, si è collocato al vertice di una speciale classifica in cui ha preceduto altri due colossi: Paul Auster e Carlos Fuentes. Morto a 79 anni il 28 dicembre, è stato uno degli scrittori fondamentali del nostro tempo. E’ dunque una sorta di suo testamento spirituale l’intervista che segue, realizzata alcuni mesi fa a Torino, occasione in cui il grande intellettuale ha ricevuto il Premio Salone Internazionale del libro.

Proviamo a partire dal difficile presente che Lei vive in una terra di frontiera. Ha scelto un cognome, Oz, che in ebraico significa forza, quella forza che Le ha dato il coraggio di ribellarsi alla sua famiglia, di lasciare il vecchio mondo della diaspora, per alimentare il sogno di una nuova Israele, capace di dialogare con la Palestina. Per far questo occorre abbattere il fanatismo. Da dove bisogna partire per arrivare a una svolta?
Israele non è una nazione, è un coacervo di anime e di fuochi di artificio, capite adesso perché mi sento a casa mia anche in Italia. Al di là della battuta, dobbiamo pensare che nella terra ebraica sono affluite popolazioni da 136 paesi diversi, costituendo una mescolanza, una polifonia che non ha eguale in nessun angolo del globo. Basta rimanere a Tel Aviv per dieci minuti per capire che la razza ebraica è qualcosa di indefinibile. Il fanatismo si alimenta dei contrasti, è un punto esclamativo che cammina. Il fanatico vuole avere ragione al cento per cento, non gli basta di avere un consenso ragionevole. Uccide gli altri per una strana forma di altruismo, perché deve convincerli della sua tesi, vuole far crescere il prossimo negandolo. Insegna sempre, non ha voglia di imparare nulla, ha la verità in tasca. Di fronte a un fenomeno così complesso, bisogna ridare fiato alla cultura, nutrirsi di libri, ripartire dalla scrittura e dalla conoscenza che possono abbattere questo virus che è dentro ciascuno di noi. Senza accettare la diversità, lavorando sulla differenza, la pace non può trionfare.
Lei ha utilizzato la lingua biblica, più antica del greco e del latino. La scrittura può essere un antidolo alla violenza?
Per diciassette secoli l’ebraico è stata una lingua morta. È tornato alla vita da circa un secolo e mezzo. Oggi la scienza e la tecnologia parlano l’ebraico, alcune parole che sono mie invenzioni letterarie sono entrate nel vocabolario ufficiale. Mi sembra un miracolo, quel miracolo che se, da un lato avvicina uno scrittore all’immortalità, dall’altro lo carica di un impegno importante. La curiosità è la molla che spinge a creare i personaggi e a descriverli. È questo il primo grande antidoto contro il fanatismo. La curiosità è infatti una virtù morale che ci fa immaginare l’altro da sé, ci fa entrare nella pelle degli altri allargando gli orizzonti del mondo, rendendolo più profondo.
Qual è la differenza tra la curiosità e il gossip, genere che influenza non solo il racconto giornalistico ma sempre di più la letteratura?
Il gossip e la curiosità letteraria sono cugini di quarto grado che non si salutano. Il gossip, infatti, ci porta a conclusioni banali, spingendoci all’indifferenza quando non all’odio. La letteratura va invece a indagare sfere sempre nuove dell’essere, scandagliando parti di noi che non conoscevamo.
La radicalizzazione dei sentimenti è una connotazione profonda di Israele. Senza questi contrasti che rendono più affascinanti alcuni suoi personaggi, basta pensare al protagonista di La scatola nera fantastico nella sua ortodossia ipocrita, ai protagonisti di Fima o di Michael mio, la sua scrittura non rischierebbe di perdere fascino e gravità?
Amo ascoltare, osservare quello che succede attorno, analizzare i particolari, persino le scarpe della gente che mi narrano storie bellissime. I miei personaggi nascono così. L’ebraico è l’universo delle interpretazioni, delle reinterpretazioni, delle controinterpretazioni. Israele è la terra della discussione senza fine, forse per questo la amo, anche quando ci sarebbero tanti motivi per odiarla, cosa che le assicuro è avvenuta anche molto di recente. Non si possono dunque ignorare i forti contrasti, vanno semmai superati utilizzando un altro importante antidoto al fanatismo: il senso dell’umorismo. Se potessi ridurre in pillole l’umorismo e distribuirlo ai capi di Stato lo farei volentieri, sono sicuro che la terapia darebbe i suoi effetti.
Tra Israele e Palestina quale soluzione politica Le appare praticabile?
Mi permetta qualche brevissimo cenno storico. Nel 1967 una coalizione di stati arabi decisero di eliminare Israele. Lo stato ebraico, come è noto, vinse quella guerra (che gli storici hanno iscritto nei manuali come guerra dei sei giorni) occupando Gaza, la Cisgiordania e altri territori. Immediatamente i governi costituirono gli insediamenti. Penso che quello sia stato un errore. Occorre smantellare tutto questo in nome della pace. Il compromesso è l’unica soluzione, bisogna dividere la “piccola casa”, in due condomini. Non si raggiungerà la felicita tra due popoli così diversi per storia e tradizione, ma è l’unico modo per vivere in pace. Infine, le dico che ho l’impressione che i popoli interessati sono come i pazienti, già pronti all’operazione, purtroppo sono i medici vigliacchi, cioè i leader che non sono ancora pronti.

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