Il tema della qualità dell’informazione e della diffusione “democratica” delle notizie è una delle grandi questioni del nostro tempo, che non può essere sottovalutata o derubricata nei titoli di coda di qualche notiziario, magari programmato negli orari del palinsesto notturno. Come dimostrano i puntuali rilevamenti dell’Osservatorio sui Tg dell’Eurispes che si riferiscono alle elezioni europee, è risultato molto basso, se non addirittura trascurabile, lo spazio dedicato a programmi e ai progetti politici da cui dipenderà il futuro del Continente, mentre si perdono spazi e tempi preziosi che vengono dedicati ad affrontare superficiali gossip, finalizzati alla disinformazione di massa.
Evidentemente un vulnus esiste nel mondo dell’informazione, come viene ben delineato da un agile e illuminante saggio di Antonio Martusciello Commissario dell’Autorità Garante delle Comunicazioni, già parlamentare con una importante esperienza nel settore dei media, realizzato con la collaborazione del Consigliere Giuridico Rosaria Petti (Il caos dell’informazione, ed. Società Dante Alighieri). Se, infatti, «la rivoluzione tecnologica con i suoi linguaggi e i suoi codici ha assunto un ruolo sempre più determinante», come viene fatto correttamente notare dagli autori nell’introduzione, il prepotente sviluppo di strumenti e apparati hi-tech non ha, purtroppo, trovato corrispondenza nell’eguale maturazione di un assetto di sistema dei media, che attualmente non appare in grado di tutelare né gli utenti, che si muovono nel mare aperto dell’informazione pervasiva, né tanto meno le aziende editoriali, che dovrebbero sentire la responsabilità di confezionare notizie attendibili, utilizzando sempre con rigore e serietà di metodo le fonti.
Nel breve excursus che apre la trattazione vengono richiamate alcune tappe essenziali che hanno segnato il progresso dell’umanità e che hanno avuto un epicentro significativo proprio nelle modalità di elaborazione, costruzione e trasmissione del sapere. Nel XV secolo l’Europa passa dalla tradizione orale alla stampa, il salto di paradigma non poteva essere più radicale: cambiano equilibri e convinzioni diffuse, muta l’assetto stesso dell’uomo rispetto al mondo che lo circonda, sino a trasformare convinzioni religiose e filosofiche, che sembravano immutabili. Quello che si consuma nella modernità è una rivoluzione epistemologica destinata a pesare per sempre sul ruolo stesso dell’uomo nel cosmo.
Altro salto di paradigma importante è segnato dalla comunicazione elettronica e dall’avvento della Tv. Il politologo Giovanni Sartori parlerà di passaggio dall’homo sapiens, all’homo videns; al di là della brillante definizione, occorre porre attenzione al capovolgimento del punto di vista, causato dal nuovo elettrodomestico, che entra nelle case di tutti. Una rivoluzione di codici e linguaggi, anche in questo caso, imperniata non più sul segno-significante della parola e della proposizione articolata, quanto sull’immagine. Nazareno Taddei, teologo di Civiltà Cattolica tra i massimi esperti di cultura cinematografica, aveva definito la civiltà della Tv come fondata sul “linguaggio contornuale”, cioè su una specifica sintassi dell’immagine che ha le sue regole, i suoi tempi, il suo particolare modo di arrivare nella mente e nel cuore dell’utente. Il legislatore lo aveva capito in tempo, come dimostra la direttiva CEE correttamente richiamata nella trattazione, che si preoccupava di fissare logiche e obiettivi cui le emittenti televisive, che dalla fine degli anni Settanta stavano proliferando in tutta Europa, erano obbligate ad attenersi: fornire programmi ai cittadini col «fine di informare, intrattenere, istruire».
Tre verbi pesanti, che dovrebbero almeno in teoria riassumere il senso della deontologia professionale per gli operatori dell’informazione. Oggi, purtroppo, viene quasi da sorridere se, anche per un attimo, ci si sofferma a pensare l’uso che viene fatto di un mezzo straordinario e potente come la televisione, che ha determinato storicamente ‒ basti pensare all’opera di pionieri come Alberto Manzi con il suo Non è mai troppo tardi ‒ la prima grande alfabetizzazione di un popolo, quello italiano, che negli anni Cinquanta era ancora in larga parte ignorante, che viveva tra mille incertezze il contesto di una nazione ancora prostrata dalle atrocità della guerra.
Il passato non ritorna, per fortuna, ma la forza dei principi non dovrebbe mai essere rimossa. Con l’avvento della Rete ‒ arriviamo così al cuore dello studio di Martusciello ‒ la sintassi della comunicazione muta ancora. Il consumatore diventa un attore, nasce il citizen journalism, tutti possono partecipare alla costruzione delle notizie. La libertà di accesso esalta potenzialmente tutti, come osserva l’autore, peccato però che non coincida con l’articolazione di un’offerta armoniosa, né tanto meno con adeguate garanzie per gli utenti e nemmeno per le aziende editoriali, spiazzate da un mercato dell’informazione che, in poco tempo, ha cambiato profondamente le sue dinamiche.
C’è a questo punto da chiedersi: il modello industriale che si sta facendo strada sarà in grado di garantire quel diritto all’informazione iscritto nella nostra Costituzione, senza intaccare la sfera della riservatezza e della privacy? La domanda è destinata a rimanere senza risposta, mentre un nuovo potere si fa strada: quello dell’algoritmo che, come ha argomentato molto bene Michele Mezza, in un suo recente lavoro, esprime «la potenza del calcolo tra dominio e conflitto» (cfr. Algoritmi di libertà ed. Donzelli).
Per capire lo scenario che abbiamo davanti basti pensare che ogni giorno reti e sistemi di connettività raccolgono alcuni exabyte di informazioni per un valore pari alla sesta potenza di mille, un miliardo di miliardi. Sono numeri che farebbero impallidire anche la Biblioteca di Alessandria. In un intero anno, la raccolta di dati in termini di durata potrebbe equivalere a 36mila anni di video in HD, come se avessimo a disposizione una pila composta da 250 miliardi di Dvd. In una realtà datificata ridotta a stringhe e a bit, orientarsi non è certo semplice, immersi come siamo nella dimensione dell’“infosfera”. Su una popolazione di circa sette miliardi di persone, sono più di 4 miliardi gli utenti connessi, mentre la data economy è stata attualmente valutata in Europa per un valore annuo di 60 miliardi di euro. È il mito del calcolo che prende sempre più corpo.
Algoritmo è, infatti, la parola chiave di questa delicata fase dello sviluppo scientifico e tecnologico, perché entra nella politica, nell’economia, nell’informazione, nell’impresa. Un algoritmo, oggi, è in grado di valutare gli insegnanti, gli investimenti in Borsa, se e quando ci ammaleremo, quale profilo assumere o licenziare, condizionando il corso delle nostre vite. Tutto appare misurabile, nella visione di una pericolosa utopia che sta espropriando gli individui della facoltà di scelta e di decisione, processi che non appaiono più frutto di valutazioni culturali, maturate con l’esercizio dello studio e della riflessione.
Siamo tutti propensi a prendere, sempre più fiduciosi, il mare aperto della Rete per consultare una “Sibilla” che però non sarà poi così sincera come ci aspetteremmo. Il medium digitale alimentato da una particolare ermeneutica applicata ai big data, tende a fornire risposte che rispondono a logiche economiche e di mercato non sempre trasparenti. La potenza di strumenti in grado di autocorreggersi, di migliorare la performance, di replicare (pensiamo all’IA e al Machine Learning) modalità di ragionamento della “mente” umana, apre un fronte delicatissimo di riflessione sul rapporto uomo-macchina, etica e sviluppo della scienza.
Va detto che nella società dell’informazione il dato si è tramutato ormai in un asset sociale. L’algoritmo assume e licenzia (si potrebbero richiamare tanti casi eclatanti), la blockchain automatizza le organizzazioni e può fare a meno di sindacati, partiti, istituzioni. Se applichiamo tutto questo al mondo dell’informazione, come fa molto opportunamente Antonio Martusciello in questo scritto, ci accorgiamo di quanto gravi siano le implicazioni sul terreno della qualità democratica. Pochi grandi player sono in grado di gestire l’enorme patrimonio di dati; la “macchina” della notizia, non è più quella dei giornali, con il risultato che i cosiddetti over the top che operano in Rete monopolizzano pesantemente gli utenti, condizionando il mercato.
Il palinsesto informativo è nelle mani di pochi, i social network aggregano news, i giornali sono divenuti soggetti passivi, intermediari dagli algoritmi. Il mondo, insomma, appare capovolto. Il 54% degli italiani acquisisce il grosso delle notizie attraverso strumenti governati da algoritmi, con l’aggravante che, come rivela uno studio britannico, l’utente che frequenta i social per acquisire notizie, non ricorda quasi mai il news brand titolare delle informazioni (Rapporto Agcom 2018).
Il ruolo delle Authority e delle politiche pubbliche sarà molto importante. Va ricordato che il saggio, qui illustrato, proviene dallo studio di un Commissario dell’Agcom ed è, appunto, un segnale importante ed estremamente positivo. Serviranno sempre di più d’ora in avanti appropriate iniziative legislative volte a tutelare i diritti fondamentali e le libertà conquistate in anni di sofferenza e di conflitti. Nello stesso tempo, bisognerà rafforzare la qualità delle classi dirigenti e la cultura di cui devono farsi portatrici. Una cosa va sempre ribadita: lo straordinario sviluppo della scienza e della tecnologia non deve essere imbrigliato certo, ma non può neanche cogliere impreparati i cittadini e gli Stati.
La buona informazione è il sale di ogni democrazia liberale, i diritti sono le palafitte su cui si regge la civile convivenza; la scuola e l’istruzione sono il carburante attraverso cui far crescere cittadini adulti e consapevoli, in grado di tramutare il caos dell’informazione nell’ordinata architettura di un sapere condiviso, che potrà finalmente aprire, al di là di ogni falsa retorica, la strada di un autentico progresso.