La maggior parte degli indicatori economici del nostro Paese hanno fatto registrare dall’inizio dell’anno segnali abbastanza positivi. Nel primo trimestre del 2017 il Pil è aumentato dell’1,2% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Si tratta del miglior risultato dal 2010.
Il +0,4% congiunturale e il +1,2% tendenziale permettono all’Italia di recuperare posizioni rispetto agli altri paesi europei (sebbene conservi un generale ritardo).
I primi 3 mesi dell’anno hanno fatto registrare inoltre una crescita della domanda e dei consumi interni rispetto al trimestre precedente. Le importazioni sono aumentate dell’1,6% e le esportazioni dello 0,7%.
La produzione industriale ha segnato nel maggio 2017 un’accelerazione della crescita, con un +2,8% rispetto al 2016
La ripresa, o “ripresina”, come preferiscono chiamarla i più prudenti, si presenta a macchia di leopardo, con alcuni settori che crescono anche a doppia cifra, mentre altri sono ancora in profonda crisi.
Il Mezzogiorno, ad esempio, sta partecipando in misura contenuta alla ripresa economica. Gli anni della crisi economica hanno accresciuto ulteriormente il divario tra Nord e Sud del Paese.
Il Mezzogiorno rimane quindi drammaticamente indietro, con un Pil pro capite di 17.886 euro, a fronte di una media nazionale di 26.946 euro, e con un tasso di disoccupazione superiore di 7-8 punti percentuali rispetto a quello dell’intero Paese.
Un altro aspetto poco incoraggiante è rappresentato dalla mancata ripresa del mondo del lavoro, fronte su cui si registra un aumento del lavoro precario ed il permanere di alti livelli di disoccupazione.
Sebbene l’Italia rimanga il secondo Paese manifatturiero d’Europa e possa contare su una robusta tradizione in numerosi comparti industriali e su eccellenze riconosciute nel mondo, appare evidente come molte di queste enormi potenzialità restino largamente inespresse.
Ciò appare con particolare evidenza nel campo delle infrastrutture e dei relativi investimenti e progetti a medio e lungo termine.
L’Italia non è stata finora in grado di realizzare, contrariamente alle altre grandi società industrializzate, quella spinta propulsiva allo sviluppo infrastrutturale che apre la strada ad una maggiore efficienza e modernità.
La ridotta capacità di trasporto, dovuta alla mancanza di infrastrutture adeguate e alla mancata realizzazione delle grandi opere ingegneristiche civili – quali viadotti, ponti, trafori, ferrovie, porti – costringe molti distretti industriali, soprattutto meridionali, a mantenere la produzione complessiva al di sotto delle reali possibilità poiché spesso si trovano di fronte ad un imbuto logistico che rallenta ogni possibile proiezione esterna.
L’Italia continua a soffrire di una infrastrutturazione particolarmente deficitaria o, meglio, del tutto sbilanciata sulla viabilità stradale “generalista”.
In Italia, infatti, la preferenza per la mobilità privata su gomma sembra un fenomeno culturale, dato che in un confronto con gli altri principali Stati della Ue (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) il nostro Paese svetta per tasso di motorizzazione privata, ovvero il numero di autovetture circolanti ogni 1.000 abitanti.
Tuttavia, a dispetto di un uso massiccio dell’automobile da parte dei nostri connazionali, il livello di infrastrutturazione stradale del nostro Paese è tutt’altro che adeguato in termini di km di rete autostradale presente nel territorio.
Ad aumentare il livello di congestione delle strade italiane interviene anche la carenza di aree di sosta, soprattutto quelle in sede protetta, che incoraggiano l’intermodalità dei trasporti e rappresentano un’importante valvola di sfogo per il traffico cittadino.
Se il panorama infrastrutturale stradale è desolante, ancora più impietosa è la situazione per quanto riguarda il settore dei trasporti pubblici urbani e interurbani.
Le carenze sono più evidenti nel trasporto ferroviario e di metropolitana, verificandosi, infatti, nel nostro Paese un pronunciato sbilanciamento tra ferro e gomma, in favore di quest’ultimo.
In termini di offerta di mobilità si ripete lo stesso scenario: il numero di viaggi l’anno e di treni-km messi a disposizione dagli operatori è molto ridotto rispetto ai principali paesi europei.
La situazione è altrettanto problematica riguardo al trasporto ferroviario suburbano, che sta acquisendo un ruolo sempre più cruciale, in virtù del progressivo concentrarsi delle attività economiche e della popolazione attorno ai grandi conglomerati urbani.
Con 627 km la rete ferroviaria suburbana italiana non è soltanto poco estesa, ma anche lenta.
In un’ottica complessiva, emerge un profondo gap infrastrutturale dell’Italia nei confronti dei propri competitors, in particolare la Germania.
Tuttavia, sarebbe fuorviante ricondurre questa manifesta inadeguatezza ad una carenza di fondi disponibili, ma si tratta principalmente di un’inefficiente gestione e allocazione delle risorse.
Uno scenario di potenzialità inespresse emerge anche sul fronte delle infrastrutture portuali e del trasporto marittimo.
Se consideriamo la collocazione geografica un valore, l’Italia è nel cuore del Mediterraneo un punto di riferimento obbligato. Il nostro Paese è come un grande porto d’Europa, proteso nel Mediterraneo con 8mila chilometri di coste.
Questa sua vocazione, percepita solo dalle città di mare, deve diventare una forza perché sia davvero una piattaforma di sviluppo e connessioni tra l’Europa e i paesi che guardano al Mediterraneo come a una via di scambi.
Il bacino del Mediterraneo concentra, infatti, il 19% del traffico marittimo mondiale, il 25% dei servizi di linea container e il 30% del traffico petrolifero.
Negli ultimi venti anni, i 30 maggiori porti del Mediterraneo hanno registrato una crescita del 425%, con un tasso medio del 21% all’anno, del numero dei containers movimentati.
Nonostante la concorrenza sul Mediterraneo, l’economia del mare è comunque una componente fondamentale dell’economia italiana, in grado di produrre ricchezza e opportunità, con il 2,6% di incidenza del cluster portuale sul Pil, 1.000.000 di addetti impiegati nel cluster logistico e portuale italiano e il 14% d’incidenza del cluster logistico sul Pil.
Un sistema che può ancora crescere, in primo luogo con proposte e progetti robusti e maturi. Il Ministero per le Infrastrutture e i Trasporti (MiT) ha messo in campo volutamente una riforma della logistica e della portualità.
Secondo tutte le analisi di settore la catena logistica in Italia è frammentata, e ciò produce una perdita di 50 miliardi annui in inefficienza. Il trasporto merci in primis soffre notevolmente di questa condizione.
La riforma non è solo quella della governance, ma riguarda la visione nazionale delle infrastrutture. L’obiettivo è quello di intervenire per la prima volta in modo organico, avendo in mente un’idea del Paese e una mappa precisa per “Connettere l’Italia” secondo linee strategiche coerenti.
Tuttavia strategie e programmi devono confrontarsi con una macchina amministrativa e normativa ferma da oltre vent’anni, il che equivale a smuovere un macigno. Da uno studio realizzato a Palazzo Chigi risulta che, in media, in Italia, per realizzare un’opera da 100 milioni di euro occorrono almeno 14 anni, di cui un terzo di tempi morti e il 60% circa di parte amministrativa.
Una delle possibilità di soluzione risiede nell’adozione del Nuovo Codice dei contratti pubblici e delle Concessioni che, quando sarà a regime, potrà intervenire, soprattutto sulla riduzione delle varianti in corso d’opera e con la messa a gara di progetti definitivi.
Il trasporto passeggeri, per esempio, davanti al sempre più marcato “desiderio di Italia” non può essere trascurato. La crocieristica italiana veicola una quota rilevante di passeggeri nel mercato europeo (uno su tre dei crocieristi sbarcati in Europa).
Così come sarà molto importante la messa a regime delle Ali, le Aree Logistiche Integrate, tra porti, aeroporti, interporti e infrastrutture.
Oggi, l’Italia è al 55esimo posto nel mondo per infrastrutturazione portuale. Le spetterebbe una posizione ben più onorevole e per riuscirci andrebbero velocizzati i tempi di realizzazione delle opere rimuovendo ostacoli burocratici e procedurali e andrebbero sviluppati programmi di investimento e di cooperazione imprenditoriale.
La proiezione attrattiva del sistema portuale italiano nel Mediterraneo deve necessariamente crescere. L’Italia può candidarsi ad essere la porta marittima per l’Asia in un Mediterraneo che non è più periferico, vista l’enorme crescita delle merci asiatiche destinate al continente europeo.
Lo sviluppo esponenziale del mercato container ha aperto spazi di posizionamento competitivo a molti sistemi portuali italiani che attendono di essere rafforzati, rinnovati e messi in sistema con il resto del Paese.
Uno scenario agevolato dal raddoppio del Canale di Suez che rimette al centro del traffico commerciale internazionale l’intero Mediterraneo rendendo più fluidi i traffici e sollecitando nuove scelte di rotta da parte dei vettori navali.
Per l’Italia si tratta di una grande opportunità ma anche di una sfida urgente: dare attuazione alla riforma portuale voluta dal Governo, investire su logistica e intermodalità, sviluppare capitale umano nel settore, semplificare le procedure.
Industria, export, logistica e portualità sono, quindi, le diverse facce di un unico sistema che, puntando sul mare, deve muoversi in modo integrato per sfruttare appieno la nostra strategica posizione geografica.
Di fronte alle sfide che creano tante incertezze e tensioni e che sempre più sono destinate a crearle nel prossimo futuro, lo Stato deve recuperare il ruolo fondamentale di programmatore e di regolatore dello sviluppo, sulla base della elaborazione di una visione condivisa del nostro possibile progresso.
«Programmare – affermava uno dei padri riconosciuti dei moderni sistemi di programmazione, lo scienziato turco americano Hasan Ozbekhan [1968], tra i fondatori del Club di Roma e per anni suo direttore – non è proiettare il presente nel futuro, ma l’inverso: avere una idea di un futuro possibile da innestare nella situazione presente».
Quale futuro vogliamo costruire? Quale orizzonte comune è possibile costruire, oggi, viste le condizioni del sistema italiano?
Il recupero e il rilancio di una effettiva “programmazione pubblica per risultati” potrebbero essere l’occasione per la costruzione di una idea di futuro, di un orizzonte comune condiviso.
Non mancano certo, nel nostro Paese, le capacità per agire in questa direzione. È prima di tutto una questione di volontà politica.
Infine, non possiamo non menzionare le “politiche di programmazione economica”, basilari se si vuole operare in favore della riduzione delle differenze sociali tra soggetti individuali e collettivi.
Bisogna però fare attenzione e distinguere due tipi di politiche dello sviluppo, una sola delle quali – secondo noi – è veramente efficace sul piano della produzione delle capacità di scelta.
Il primo tipo (la cui epoca è, per fortuna, definitivamente chiusa), ha a che fare con le grandi “programmazioni nazionali”, le cui azioni hanno sempre misconosciuto le competenze culturali dei contesti verso cui quelle politiche erano rivolte (le possiamo chiamare le “politiche dall’alto”).
Il secondo tipo di politiche dello sviluppo – e qui è opportuno richiamare alla mente un grande esperto dell’argomento come Albert O. Hirschman – sono quelle che non sono volte a trovare combinazioni ottimali di risorse e fattori produttivi dati, quanto piuttosto a suscitare e a mobilitare per lo sviluppo risorse e capacità nascoste, disperse, o malamente utilizzate.
Non sono però, per contrapposizione alle altre, delle “politiche dal basso”, perché l’azione istituzionale dall’alto comunque conta. Ma conta solo se è in grado di stimolare capacità dei soggetti locali di collaborare per produrre beni collettivi che arricchiscono le economie esterne e per valorizzare beni comuni.
Sono politiche che “riconoscono” l’esistenza di particolari condizioni locali e verso le quali sono ben disposte, specie nel sostenere il protagonismo e le capacità di strategia dei soggetti che vi abitano e ci lavorano.
Infine, se davvero vogliamo imprimere una vera spinta alla nostra economia, dobbiamo investire nei consumi pubblici e smetterla di pensare che questa possa crescere sollecitando i consumi privati.
Il lavoro che attraverso la CISE ci proponiamo è quello di stimolare l’azione del Governo e di tutti i soggetti pubblici e privati con l’obiettivo di dare una mano a trasformare la potenza della quale il nostro Paese dispone in energia.