La cattiva notizia è che dovremo conviverci a lungo. Le conseguenze del Covid-19 sul tessuto sociale potrebbero andare oltre un’emergenza di per sé lunga. È allora l’occasione per fare scelte oculate. E questa, forse, è la piccola, buona notizia. Nell’imprevedibilità che attraversiamo, una certezza almeno: abbiamo la possibilità di orientare il futuro nella direzione più adeguata. Rimane la sfida di sconfiggere il virus, si apre un’opportunità.
Sappiamo qual è il punto di svolta. Perché il quadro cambi e si possa essere fuori, occorre un vaccino, o almeno una terapia efficace. Un esito di cui è impossibile calcolare la tempistica. Si parla di mesi, di anni, ma tutto è subordinato a fattori incerti, la sperimentazione, la verifica di risultati attendibili.
Quando saremo usciti dalla pandemia, potrebbe essere già tardi per guidare il futuro, nel frattempo saranno intervenuti cambiamenti radicali dovuti al virus e alle nostre reazioni. Un quadro più duraturo del prevedibile. Intanto, per i costi che si prevedono oggi, talmente alti da sconsigliare modifiche successive. Poi, perché il nostro modo di fare potrebbe subire trasformazioni troppo consistenti. È importante capire se i cambiamenti possano avere un segno positivo, migliorando almeno in parte le condizioni di vita.
La regola più condivisa ed efficace per contrastare il virus al momento è una sola, il distanziamento sociale. Parola d’ordine valida sempre e comunque. È l’unica circostanza sulla quale si possa contare, perché non disponiamo d’altro. Un enunciato comprensibile, di semplice ed immediata applicazione, ma solo a prima vista. I problemi, rilevanti, vengono dopo e sono tanti.
La distanza è una regola per qualsiasi attività, lavorativa o di svago, declinata in tutte le forme possibili. Blande, complesse, estreme. Manteniamo le distanze sempre e ovunque, quando parliamo con qualcuno, quando lavoriamo, quando prendiamo i mezzi pubblici, quando ci muoviamo all’aperto. Magari anche nel privato, e in casa.
Mantenere le distanze è un principio che si può affidare alla volontà dei singoli, ma basta alzare lo sguardo, per comprendere quanto sia complicato e costoso. Difficile da realizzare senza investimenti e trasformazioni. Alternare i posti nei treni o sugli aerei per mantenere le distanze tra i passeggeri significa aumentare i mezzi e il numero dei viaggi; far entrare le persone a scaglioni al lavoro o nei negozi comporta il sovvertimento degli orari di entrata/uscita e di durata delle occupazioni, quindi modifiche degli spazi e assunzione di altro personale.
Lo stesso criterio della distanza può richiedere interventi di carattere fisico, non solo organizzativo-normativo. È la più drastica delle applicazioni: la creazione di barriere materiali tra le persone, in contrasto con la tendenza naturale all’avvicinamento fisico. In termini ideologici, è una sorta di risposta “sovranista” al virus, persino pericolosa per la democrazia. Separiamo fisicamente gli spazi, dividiamoci, alziamo muri, stavolta reali non metaforici; chiudiamo gli ombrelloni in spiaggia dentro capsule di plexigas; alziamo paratie tra i tavolini dei bar, tra cliente e impiegato.
L’altra risposta al virus, oltre la distanza, è il potenziamento del digitale. Può essere sostitutiva della distanza, sublimazione della prima regola mediante aggiramento del problema, oppure solo integrativa, aggiungendosi al rispetto delle misure interpersonali, a seconda dei compiti svolti. Il digitale è uno scenario generalizzato quanto il distanziamento. Applicabile in qualsiasi campo, sino alle conseguenze più radicali e totalizzanti. In Cina ha dato origine al controllo parcellizzato degli individui, sino all’annullamento dei diritti più elementari. Ma è stato brutalmente efficace.
Era inevitabile il digitale, data l’impossibilità di muoversi, di recarsi in fabbrica, nelle scuole, in ufficio. Come altro lavorare, comunicare, magari persino divertirci, nell’impossibilità di avere contatti con gli altri? E meno male che esiste il tanto criticato web: davvero provvidenziale in questa fase, possiamo persino dilungarci a videochiamare parenti ed amici, oppure perderci nei musei in qualche tour virtuale.
Ecco lo smart working. L’inverso del coworking. Il lavoro agile a distanza, piuttosto che la condivisione di spazi comuni, aperti e disponibili a tutti. Uniche risorse necessarie: un computer e la connessione. Elementare, alla portata di tutti. O quasi. Le famiglie disagiate, prive di apparecchi e connessioni, come possono farcela? L’emergenza ci ha fatto scoprire che esiste un modo intelligente per evitare spostamenti inutili, ridurre gli inquinamenti ambientali, e magari persino evitare litigi sgradevoli con i colleghi d’ufficio.
Oppure, ecco le lezioni tenute da remoto, studenti e insegnanti che riescono ad interagire attraverso il video, senza contatti diretti e senza recarsi a scuola. Un escamotage in questa fase, che però permette anche di sperimentare un tipo differente di apprendimento. Ancora, i processi celebrati a distanza, ogni soggetto (giudice, pubblico ministero, difensore, imputato) in un luogo diverso, ma in contatto diretto e simultaneo con gli altri interessati.
O molto altro ancora, sino all’impensabile, poco fa: le funzioni religiose celebrate in streaming senza fedeli, ora che le chiese sono chiuse (e pare che siano più seguite di prima, audience in crescita); persino le sedute di psicoterapia, che erano così intime e ovattate, ora senza incontro diretto, solo via telefono o per videochiamata (aumentate le richieste di sostegno per fronteggiare la solitudine).
Le novità in materia di distanze e di digitale sono un’anticipazione del futuro possibile, non soltanto risposta emergenziale alla pandemia. Introducono innovazioni così radicali da prefigurare nuovi modelli di relazioni umane. Ne siamo consapevoli? Varrà la pena mantenerle anche dopo? Non sono necessariamente peggiori, neanche sicuramente migliori.
Questo è il punto. Sarà importante esplorarle a fondo, valutarne portata e incidenza, senza pregiudizi, ma con senso critico. Probabilmente non ci sarà una risposta unica che valga sempre, e si dovrà scegliere caso per caso, situazione per situazione. Saper mettere da parte le cose piccole ed inutili, valorizzare l’essenziale, questo il compito che ci attende.
Che differenza c’è tra il lavoro svolto a distanza e quello a contatto di gomito? Tra la frequentazione scolastica e le lezioni via chat? Tra il processo da remoto e quello con la presenza fisica ravvicinata di tutti? Tra la seduta terapeutica via web e quella “normale”? Non c’è dubbio che il ricorso al digitale scardina il pilastro sul quale sono costruite tante attività umane, si direbbe il “setting”, la “cornice” entro cui si svolgono e che alla fine la caratterizzano: ambienti, orari, appuntamenti, modalità di comportamento, regole di interazione personale.
Non c’è più l’ufficio nel quale sono disposte le scrivanie degli impiegati, e dove costoro lavorano insieme scambiandosi sul posto informazioni. Si fa a meno dell’aula scolastica dove gli studenti hanno contatti diretti con gli insegnanti. L’udienza processuale assume una dimensione virtuale, diventa un luogo funzionale piuttosto che (soltanto) fisico.
Nel mondo digitale, manca la dimensione collettiva del lavoro, la percezione del senso di appartenenza ad una comunità, basata principalmente sul contatto diretto, ma poi su tanti altri elementi. Non ci sono spostamenti (auto, bici, metro) per recarsi al lavoro, incombenze materiali di varia natura (orari, cartellini di ingresso), neppure abitudini e rituali (saluto al portiere, caffè alla macchinetta, un saluto prima di cominciare: ciao a tutti, come va?).
La domanda cruciale è: quanto la mancanza di questo contesto incide sul lavoro? O in generale influisce sul modo di svolgerlo, sul grado di soddisfazione e di riconoscimento da parte dell’individuo, in una parola sulla “motivazione” propria del contributo individuale?
La parola “cornice”, a ben vedere, suona impropria, limitativa, sia per definire il lavoro sia per qualificare altre attività come lo svago, il divertimento, dove il contesto è rappresentato dalla visita al museo, dall’iscrizione alla palestra, e così via. Possiamo farne a meno a cuor leggero, senza che il risultato sia pregiudicato? Impossibile, sembra, una risposta che valga in tutti i casi, che ci soddisfi a prescindere.
Di certo, vanno rimosse le sedimentazioni. Le tendenze conservatrici, presenti nelle attività di lunga tradizione. Le resistenze, che impediscono di aprirsi al nuovo, e che non fanno accogliere esperienze diverse da quelle abituali, che non permettono di puntare sulla funzionalità eliminando il superfluo, che non consentono di eliminare le scorie, mantenendo del passato solo l’irrinunciabile.
Le forme del lavoro e delle attività sociali in genere vanno valutate per la loro efficacia concreta ma anche per la capacità di preservare aspetti identitari e di appartenenza ugualmente importanti per il soggetto. Non è forse vero che sino a ieri nel coworking, espressione dell’abbattimento di ogni barriera fisica e psicologica, si è cercato di conciliare la condivisione degli spazi con la loro personalizzazione? Alla ricerca di un punto di incontro tra praticità del lavoro e personalità delle mansioni.
Così, solo per fare degli esempi, non potremmo immaginare la “Scuola di Barbiana” creata da don Lorenzo Milani a prescindere dalla partecipazione personale diretta di alunni e maestro, né possiamo dimenticare un principio generale: la scuola è sempre formazione dell’individuo e non solo apprendimento, dunque in qualche modo esperienza di vita che necessita della presenza fisica e del contatto diretto.
Tuttavia, è altrettanto vero che, nello stesso lavoro scolastico, ci sono momenti di studio assolutamente individuali (un tema, un testo scritto, la spiegazione di un argomento) che ben possono svolgersi altrove o che possono utilizzare strumenti di lavoro alternativi a quelli classici.
Al contrario, per indicare un orientamento opposto, prevalgono rigidità e schematismi quando si critica il digitale nei processi penali, invocando la lesione del principio di immediatezza che regola lo svolgimento delle udienze. Sono critiche prive di aderenza alla realtà, e ripetitive. Formulate oggi a proposito dei casi che per motivi sanitari vengono trattati da remoto (come allora?) e ieri agli altri in cui i collaboratori di giustizia, soggetti a stretta protezione, venivano sentiti a distanza per evitare costi elevati di trasferimento, disservizi e ritardi nella trattazione dei processi.
Ebbene, basterebbe riflettere che quel principio ha un significato di natura temporale, garantito pienamente dal digitale. Allude infatti alla relazione tra un soggetto (gli operatori di giustizia) e un oggetto (le prove che si formano) e richiede che le attività si svolgano nello stesso tempo (non necessariamente nel medesimo luogo fisico) con la possibilità di interagire immediatamente e in modo completo. L’esigenza da garantire, e qui rispettata con l’audio e il video, è che ogni circostanza della comunicazione, verbale o meno, sia rilevabile integralmente e sia subito esaminabile e contestabile.
Sono soltanto esempi, questi nella scuola e nella giustizia, che riflettono il medesimo problema, la necessità di un approccio scevro da sovrastrutture ideologiche, spesso intrecciate a consuetudini rassicuranti, per sperimentare nuove strade, e valutarne criticamente i risultati.
L’emergenza ci ha costretti a ripensare le forme tradizionali di lavoro, e persino gli stili di vita, le abitudini. Con esiti che rimangono problematici e aperti ad ogni soluzione. A condizione di affrontare il presente lasciando da parte il vecchio che ha perso valore per dare spazio a ciò che può essere più efficace e adatto ai tempi. Non basta dire: nulla sarà più come prima, bisogna interrogarci: come sarà allora? L’isolamento ci offre strumenti senza i quali la nuova normalità non sarà forse possibile, dovremo fare scelte sapienti, approfittare di queste possibilità. E portare con noi nel futuro il meglio del passato.
* Angelo Perrone, giurista, è stato pubblico ministero e giudice. Cura percorsi professionali formativi, si interessa prevalentemente di diritto penale, politiche per la giustizia, diritti civili e gestione delle istituzioni. Autore di saggi, articoli e monografie. Ha collaborato e collabora con testate cartacee (La Nazione, Il Tirreno) e on line (La Voce di New York, Critica Liberale). Ha fondato e dirige Pagine letterarie, rivista on line di cultura, arte, fotografia.