Etica e consapevolezza. Giovanni Lo Storto, Direttore Generale Luiss: “Ecco i motori del rilancio”

«Fino a qualche decennio fa, se avessimo chiesto a un passante, o a chiunque altro, se vedeva un collegamento tra etica ed economia ci avrebbe risposto, probabilmente, con un secco “no”. Poi, qualcosa è cambiato. Nel 2008, il fallimento di gruppi finanziari considerati “too big to fail” e l’esplosione di una bolla speculativa senza precedenti, hanno mostrato la fragilità di un sistema che aveva ribaltato le priorità. Le recenti vicissitudini finanziarie hanno ampiamente dimostrato l’insostenibilità di business che non tenevano conto di criteri a lungo termine, soprattutto dal punto di vista ambientale e delle risorse utilizzate. È questo uno dei messaggi chiave dell’Enciclica di Papa Francesco, Laudato si’. Il concetto di ecologia integrale, che il Santo Padre ha espresso ragionando sulle connessioni di cui il nostro mondo è sensibilmente intrecciato, è una lettura molto lucida del nostro tempo». Giovanni Lo Storto, Direttore Generale della Luiss, affronta in questa intervista il complesso intreccio che lega l’etica all’economia, individuando nella svolta indicata da Papa Francesco e dalla stesura della Carta Etica promossa dalla Pontificia Accademia per la Vita presieduta da Mons. Vincenzo Paglia, un viatico importante per dare significato concreto alla delicata fase del rilancio, che segnerà i mesi a venire.

L’etica è il “nome nuovo da dare al pensiero”, cito testualmente una nota affermazione del grande sociologo e filosofo francese, Edgar Morin, che in maniera icastica mette in evidenza l’incidenza che la sfera morale è destinata ad avere in ogni comportamento pubblico e privato. Direttore, l’emergenza Covid ha aperto un nuovo scenario anche sul fronte di questa antica disciplina filosofica che, come sappiamo, non sempre è stata al centro delle scelte della politica e dell’economia. Quali sono le conseguenze di questo “salto di prospettiva”?
L’emergenza Covid-19 ha portato con sé non solo un virus dal potenziale epidemico rilevante, ma anche, e soprattutto, una scia di sofferenza, dolore, paura, incertezza. In poche settimane abbiamo visto tutto il nostro mondo ribaltarsi, la routine spezzarsi, e ci siamo dovuti repentinamente abituare a nuovi ritmi, prima appena futuribili. Quando tutto il nostro lavoro, le nostre relazioni personali e, di fatto, la nostra vita si sono trasferiti sul piano digitale – impossibilitati come eravamo a gestire la vita come prima –, abbiamo capito quali erano i nostri limiti e le nostre potenzialità. Ma il vero “salto di prospettiva”, dal punto di vista etico, è stato fatto, a mio avviso, quando ognuno di noi è stato chiamato a fare il bene comune su scala così vasta. La più grande lezione che abbiamo appreso da questa esperienza è che il valore marginale del contributo di ciascuno può avere un peso fondamentale sul valore creato per l’intera comunità. Siamo stati chiamati al senso di responsabilità, limitando spostamenti e interazioni, affinché il contagio si riducesse fino quasi ad arrestarsi.

Il peggio sembra essere passato; adesso bisogna dare significato e concretezza al tanto auspicato “rilancio”. Che cosa ne pensa?
Da alcune settimane i dati sono confortanti, credo che possiamo essere fieri del fatto che questo risultato collettivo è stato ottenuto grazie al supporto di ogni singolo individuo. È in questo che possiamo vedere il legame, sempre esistito, tra etica, politica ed economia. Non può esistere una disciplina senza l’altra e l’etica deve, giustamente, essere alla base di qualunque fondamento sociale. Credo sia una grande lezione da trasmettere ai nostri ragazzi, che più degli adulti si sono sentiti spaesati durante il lockdown, ma che hanno dimostrato grande consapevolezza – in molti casi persino più degli adulti – proprio rispetto alle responsabilità cui eravamo tutti chiamati. La consapevolezza e l’integrità etica creano un valore che non si somma da individuo a individuo, ma si moltiplica in modo esponenziale. Senza questi due pilastri, si può dire che venga meno la base fondante dello Stato e della società tutta.

La consapevolezza dei bambini ha stupito il mondo

Il virus ha cambiato il mondo, imponendo una diversa visione dell’essere. Dobbiamo pensare che ci siamo abituati ad abitare il vuoto come molti sociologi sostengono?
Solo parzialmente, a mio giudizio. Non credo, infatti, che ci siamo abituati ad abitare il vuoto quanto, piuttosto, che abbiamo imparato a conoscere meglio gli aspetti della nostra vita che prima giudicavamo vuoti, ma che ora sappiamo non essere più tali. Mi spiego meglio. Quando ci è stato imposto di fermarci abbiamo iniziato a guardarci attorno con occhi nuovi. Senza l’accelerazione della nostra routine abituale, abbiamo capito che la lentezza era un valore e abbiamo iniziato ad assaporarla, riscoprendo le relazioni familiari, la tranquillità del tempo che sembrava scorrere più regolare, gli hobbies che avevamo lasciato da parte perché presi da altre priorità. Tutto questo non è vuoto, era semplicemente materia che avevamo depositato nella soffitta delle nostre giornate. Abbiamo capito che molte delle nostre attività quotidiane si potevano fare diversamente e ottenere, comunque, lo stesso risultato – se non addirittura di più. Basti pensare a quanto tempo (e anidride carbonica) abbiamo risparmiato facendo videoconferenze e webinar anziché riunioni, trasferte e convegni. Una delle cose che ho trovato più interessanti del periodo di quarantena, pur drammatico, è il racconto che ne hanno fatto i bambini. Cosa hanno provato, quali emozioni hanno generato in loro queste settimane di inattesa e inaudita solitudine.

Le viene in mente qualche storia da raccontarci?
Il sito thekidswrite.com raccoglie le storie che inviano, da tutto il mondo, bambini e ragazzi, con le loro impressioni e i loro pensieri. Ad esempio, LesleyAnn, 10 anni dal Senegal, scrive che quello che ha apprezzato di più della pandemia è stata la possibilità di conoscere meglio i propri genitori e familiari, per cui ora esprime molta più gratitudine di prima. Leon, 9 anni dal Canada, racconta, invece, che ha usato questo tempo per imparare cose nuove, tra cui il coding (che ha insegnato anche alla sorellina più piccola). Per la ripartenza mi auguro che si possa fare tesoro di quello che abbiamo scoperto nel periodo in cui siamo stati costretti a cambiare il metro con cui misuravamo le nostre vite. Non ci sarà ritorno alla normalità, perché quella di prima, in fin dei conti, era una normalità alterata, fatta di accelerazioni cui eravamo impreparati e lentezze che sono necessarie, tutt’altro che spaventose. Senza ricadere nell’estremo, confido che la ripartenza di ognuno di noi sappia bilanciare correttamente questi due aspetti e integrare l’una e l’altra nella nuova normalità.

Durante il lockdown abbiamo scoperto un volto nuovo delle tecnologie: nel confino forzato è rifluito un senso di comunità, che è andato al di là dell’autismo che caratterizza la “società dei selfie”. Forse stiamo passando, per citare lo psicanalista Massimo Recalcati, dalla perversione dei social che portavano a un ritiro autistico dei legami a un recupero, attraverso la connettività, del mondo che sta fuori. Per negazione abbiamo così riscoperto il valore del dialogo, dell’ascolto, del rispetto delle “ragioni dell’altro”, per usare un titolo di Maffettone. La prospettiva etica deve ripartire da questa radicale accettazione della diversità?
Penso che la “società dei selfie”, se consideriamo soprattutto le fasce più giovani, sia una visione limitata di quello che è realmente. A volte tendiamo a giudicare gli altri con il nostro metro. Lo facciamo inconsciamente e su qualunque aspetto, sia come individui sia come società. Posso giudicare il vestiario di una persona partendo da quello che è il mio concetto di eleganza, ma questo troverà, necessariamente, una applicazione limitata e parziale del mio giudizio. Allo stesso modo, vedendo ogni giorno centinaia, migliaia di studenti che popolano il nostro campus, ho capito che il metro con cui li giudichiamo è spesso troppo adulto, miope e limitato. Consideriamo i giovani sulla base di quello che noi eravamo alla loro età, senza conoscerne i linguaggi, le emozioni, gli stimoli, gli orizzonti. Ma, soprattutto, senza considerare il tempo. L’accelerazione spaventosa che ha portato più cambiamenti negli ultimi venti anni rispetto ai precedenti quattro secoli è la prova che questo metro non è sufficiente. I social, e il digitale più in generale, sono un linguaggio diverso che io stesso a volte fatico a comprendere a pieno. Ma è questo il codice di comunicazione che usano i più giovani oggi e bisogna farsene una ragione.

Uomo e tecnologie: un binomio complesso

La sua riflessione apre la complessa trama di rapporti tra l’individuo e gli strumenti della tecnologia. Un binomio su cui non potrà mai esserci una posizione certa e definitiva, non crede?
Negli ultimi mesi abbiamo dibattuto a lungo sui temi del rapporto tra accelerazione tecnologica – digitale in particolare – ed esigenza di focalizzare la centralità umana. Abbiamo, a più riprese, concentrato attenzione e discussioni sull’esigenza di proteggere l’umanità dall’inarrestabile crescita della presenza dell’Intelligenza Artificiale tre le nostre vite. E, ciò che molto ci ha preoccupato, è la caratteristica del machine learning che, intimo alle cose e nelle cose (il cosiddetto “Internet delle cose”), avrebbe in poco tempo trasferito alle macchine la nostra capacità di azione, preceduta e sostituita dalla potenza autonoma di una macchina a suo modo “intelligente”. Pur senza ammetterlo direttamente, abbiamo guardato al digitale come a una subdola minaccia, in grado di sottrarre all’uomo la sua stessa umanità, eviscerandolo delle sue peculiarità per un fine più alto, effimero, nebuloso, fatto di bit e in cloud. Ci siamo, quindi, impegnati a trovare strade nuove per sottolineare l’urgenza di un consapevole, nuovo ed indispensabile “umanesimo digitale”. Se il digitale è inevitabile, a questo punto facciamocelo amico. Ma la verità è che non ci siamo più fidati dello sviluppo che noi stessi stavamo accelerando. Abbiamo ritenuto che l’umanità, ormai dominatrice assoluta dell’ambiente in cui operava al punto da attivare meccanismi di preoccupata difesa nei movimenti neo green, fosse minacciata più che dalle tematiche del cambiamento climatico – sufficientemente distanti nella loro pericolosità da chi prende decisioni oggi – dalla capacità che le macchine potessero, d’un tratto, imparare da sole a muoversi, camminare, pensare, giudicare, decidere, amare, odiare, premiare, punire. Insomma, abbiamo chiaramente provato una mancanza di fiducia nello sviluppo tecnologico e digitale.

La natura, nel frattempo, ha reagito. Il risveglio è stato brusco per classi dirigenti “distratte” da altri interessi. Quali saranno le conseguenze?
La natura ci ha ricordato che esiste. E non solo perché il cambiamento climatico, a breve, ci costringerà a pagare il prezzo di uno sviluppo sfrenatamente insostenibile. La natura ci ha ricordato che esiste a prescindere da noi e dalle nostre priorità. Che esiste prima e molto più precisamente nel rischio del cambiamento climatico. La sua storia, ancestrale e viva nei più piccoli microrganismi e nella loro plurimilionaria memoria di preesistenza all’umanità, ha bussato pesantemente alla nostra cieca e presuntuosa ignoranza. Con un virus – di per sé microscopico ma pericoloso se sommato alla sua novità sconosciuta e alla nostra incapacità di arrestarlo con una cura – ci ha messo di fronte alla nostra debolezza sociale. Ci ha posto un nuovo ed inatteso tema di fiducia. Ci ha imposto addirittura di guardare con sospetto, prima che all’intelligenza artificiale di una macchina, ai nostri stessi simili. Siamo stati messi spalle al muro dalla nostra stessa incapacità di leggere le priorità della nostra coesistenza. Il rischio maggiore è giunto non dalla nostra azione sulla natura con i cattivi comportamenti e nemmeno dalla nostra azione nella natura con l’immissione di macchine intelligenti. Il rischio maggiore è giunto dalla nostra incapacità di prevedere che la natura esiste prima e a prescindere dall’umanità. Ecco, quindi, che etica, umanità, natura e tecnologia si riscoprono come concetti intrinsecamente correlati, tutt’altro che nemici. L’accettazione della diversità è, prima di tutto, accettazione del nostro posto nel mondo, di ciò che siamo in grado di fare e degli strumenti che abbiamo a disposizione. Senza giudizi morali, ma con la lucidità di chi sa ottimizzare le risorse per raggiungere i propri obiettivi.

La lezione di Papa Francesco

“Algoretica”, o etica degli algoritmi, è la parola chiave che ha orientato il dibattito e che, sicuramente, dominerà la discussione sullo sviluppo del digitale. Mons. Paglia è stato tra i promotori della stesura di un documento proposto dalla Pontificia Accademia per la Vita che vincola a una visione equilibrata nell’uso dell’Intelligenza Artificiale. L’iniziativa della Carta Etica è solo il tassello di un capovolgimento di prospettiva che trova riscontro nella pastorale dello stesso Papa Francesco: basti prendere in esame l’Enciclica Laudato si’ – un trattato sull’ecologia integrale che non ha precedenti nella storia del pensiero non solo ecclesiastico – per rendersi pienamente conto del forte collegamento che sussiste tra lo sviluppo della scienza, l’etica e la qualità dell’eco sistema. Ho cercato di riassumere quelli che sono i tanti segnali che riconoscono la Chiesa di Papa Francesco come uno degli attori principali nell’ambito della ricerca di un nuovo paradigma che rivoluzionerà il modello capitalistico. Qual è il Suo parere in merito? Capitalismo e globalizzazione stanno mostrando la corda?
Fino a qualche decennio fa, se avessimo chiesto a un passante, o a chiunque altro, se vedeva un collegamento tra etica ed economia ci avrebbe risposto, probabilmente, con un secco “no”. Ed, effettivamente, avrebbe avuto le sue ragioni. Per anni, dal dopoguerra, si è affermata una visione dell’economia utilitaristica, avviluppata in una logica di profitto che metteva gli interessi economici e finanziari sopra ogni altra cosa. In questo quadro, c’era poco spazio per l’etica, che appariva un elemento piuttosto secondario. Poi qualcosa è cambiato. Nel 2008, il fallimento di gruppi finanziari considerati “too big to fail” e l’esplosione di una bolla speculativa senza precedenti, hanno mostrato la fragilità di un sistema che aveva ribaltato le priorità. Inoltre, poco teneva in considerazione l’insostenibilità a lungo termine di alcuni business tradizionali. Ora, poco più di un decennio più tardi, la prospettiva è cambiata e l’etica è tornata al centro cambiando, in parte, il volto della finanza e dell’economia in generale. Sono tornati al centro la sostenibilità del business, la persona e la sostenibilità. Ne è un esempio il fatto che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, parlando all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università degli Studi di Teramo il 10 febbraio scorso, ha concluso il suo intervento con il monito di non dimenticare l’etica nell’economia. Il bene comune non è più una entità astratta, ma una realtà oramai abbastanza solida per costruirci sopra un futuro duraturo. Il recupero di etica nell’economia è quindi, oggi, fattore abilitante della creatività collettiva. Essa è un aspetto determinante nella “nuova economia”. Le recenti vicissitudini finanziarie hanno ampiamente dimostrato l’insostenibilità di business che non tenevano conto di criteri di lungo termine, soprattutto dal punto di vista ambientale e delle risorse utilizzate. È questo uno dei messaggi chiave dell’Enciclica di Papa Francesco, Laudato si’. Il concetto di ecologia integrale che Papa Francesco esprime, ragionando sulle connessioni di cui il nostro mondo è sensibilmente intrecciato, è una lettura molto lucida del nostro tempo.

Pensiero forte quello di Papa Francesco. Riuscirà a fare breccia nelle coscienze dei governanti?
Dobbiamo sperare di sì. Il contesto ci fa vedere che tutto è intimamente relazionato e che gli attuali problemi richiedono uno sguardo che tenga conto di tutti gli aspetti della crisi mondiale. Applicare i princìpi di un’ecologia integrale può essere decisivo in quanto strumento adatto a comprendere e inglobare le dimensioni economiche e politiche, ma anche umane e sociali. Il mondo in cui ci apprestiamo a vivere, e in cui i nostri figli prospereranno, avrà geometrie estremamente variabili e dinamiche, ben oltre ciò che possiamo immaginare oggi. Formarsi oggi significa prepararsi a un futuro ignoto e imprevedibile, fatto di accelerazioni esponenziali e di un progresso che trasformerà ogni cosa. Questo può destare comprensibili preoccupazioni in chi oggi è chiamato a compiere la scelta di quale percorso di studi intraprendere, senza conoscere i reali sbocchi lavorativi che potrà avere questa decisione. La verità è che non c’è mai stato giorno migliore in tutta la storia del mondo per inventare qualcosa di nuovo; non ci sono mai stati momenti migliori di oggi, con tali opportunità, grandi aperture, bassi rapporti rischi/benefici, elevati ritorni economici e grandi vantaggi. Proprio adesso, in questo istante, questo è il momento al quale la gente del futuro ripenserà esclamando: «Se solo fossi stato presente!». Gli ultimi trenta anni hanno costituito un meraviglioso punto di partenza, una base solida su cui poter costruire davvero un grande cambiamento, ma quello che verrà sarà differente, oltre e di più. Ciò che verrà creato diventerà costantemente e senza posa qualcos’altro, mentre le invenzioni migliori saranno ancora da ideare. L’oggi è davvero senza confini, in esso siamo tutti in divenire.

Umanesimo integrale e formazione

La sua visione incoraggia molto, scuotendo il declinismo di maniera. Bisognerà investire molto per creare una mente globale soprattutto nelle nuove generazioni, capace di costruire un cambiamento reale per l’umanità. Una sfida nella sfida quella lanciata da Papa Francesco. Riusciremo ad essere all’altezza?
Credo che sia realmente il momento migliore nella storia dell’uomo per iniziare, non siamo in ritardo. Il mondo in cui viviamo cambierà così tanto da essere irriconoscibile e a tratti quasi impensabile. L’approccio “integralmente ecologico” suggerito da Papa Francesco è la risposta al senso di spiazzamento che questo inevitabilmente creerà. Occorre ecologia ambientale, per imparare a rispettare e tutelare un Pianeta fin troppo martoriato dalla corsa forsennata a un capitalismo insostenibile; occorre ecologia economica, recuperando appunto l’etica nell’economia; occorre, poi, anche un’ecologia sociale, mantenendo saldo il legame con le persone accanto a noi. Mantenere il livello di empatia e connessione umana ci aiuterà a sopravvivere all’avvento dell’automazione, la quale vedrà le macchine assomigliare sempre di più agli uomini. In questo senso, la chiave sarà una formazione esperienziale, che integri competenze teoriche e opportunità di conoscenza pratica, che alleni i ragazzi a osservare, non solo a vedere. Guardare negli occhi l’altro di persona, recuperando il contatto con i nostri colleghi, amici, conoscenti, senza il filtro di uno schermo. La formazione della nuova umanità passa anche, e soprattutto, da questo. Una formazione pronta a comprendere il cambiamento è ciò che garantirà la nostra sorte in un futuro straordinario. Le abilità che dovranno possedere i nostri figli non saranno più solo di tipo nozionistico, ma dovranno abbracciare teoria e pratica, conoscenza e relazioni, pensiero critico e processi decisionali, negoziazione e intelligenza emotiva. In questo senso, e dando per scontato che dovremo formarci per tutta la vita, gli studenti di oggi non sono più (solo) tali, ma sono ciò che ho definito come “apprenditori”. Essere studente, fino a pochi anni fa, presupponeva avere una relazione verticale con il docente depositario della conoscenza, il quale la erogava ad alunni che dovevano poi dimostrare di avere appreso bene la lezione. Oggi, l’apprendimento avviene da molte fonti trasversali, non solo verticalmente grazie ai docenti che, in questo processo, diventano più dei facilitatori di una formazione dinamica ed estesa che i depositari della conoscenza. Formazione, progresso, tecnologia e sostenibilità sono, dunque, profondamente intrecciati tra di loro, legati a doppio filo anche al concetto di uguaglianza sociale di cui parla anche Papa Francesco nella sua Enciclica.

A proposito di formazione. La Luiss Business School, nello scorso mese di ottobre, ha fondato Ethos (l’Osservatorio sull’Etica Pubblica) a dimostrazione dell’urgenza del tema. Quali iniziative intendete mettere in campo? L’Università, quale agenzia di senso e di formazione essenziale per la crescita del capitale umano e sociale di una nazione, che ruolo dovrà svolgere in questa fase post-Covid?
La risposta della nostra Università alla crisi, grave e repentina, è stata straordinaria. Trasferire su piattaforma digitale centinaia di lezioni, fruite da migliaia di studenti, non è stato un lavoro banale. Ciononostante, la prontezza del nostro personale e la capacità degli studenti di adattarsi rapidamente ci ha consentito di portare avanti la vita universitaria (quasi) esattamente come prima. Gli studenti hanno continuato a studiare, a frequentare lezioni, a laurearsi, a interagire, persino di più di come facevano in aula. Certamente, questa è una lezione di cui dovremo fare tesoro. Come già detto precedentemente, l’Università ha il compito fondamentale di preparare gli studenti di oggi al mondo di domani, ignoto e imprevedibile. Dobbiamo formare cartografi, esploratori, professionisti e persone che non si accontentano di risposte, ma continuano a fare domande. Solo così riusciranno ad avere successo in un mondo a geometrie tanto variabili. Molti di loro, nel giro di pochi anni, faranno lavori che non esistono. Già oggi una larga fetta di occupazione è riservata a settori che appena venti o trenta anni fa avremmo considerato quasi fantascienza. Se questo passo accelererà ulteriormente, come già accade, non possiamo far altro che creare oggi delle competenze senza tempo: relazionali, di metodo, di pensiero critico. Le nozioni, pur fondamentali, devono essere strumenti per creare un sistema, così da dare valore anche quando diventano obsolete. Ritengo che in questo momento storico non possa esserci compito più importante e fondante della nostra società, perché è proprio da questo che dipenderanno il nostro assetto sociale e l’economia del Paese per i prossimi anni.

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