Fenomeno Tarantino “pulp e cool”. “Ma la sua violenza è etica e il suo cinema scomodo”

Quentin Tarantino torna nelle sale italiane con C’era una volta…a Hollywood (Once Upon a Time…in Hollywood). Attesa altissima per il nono film del regista che, fin dal suo folgorante esordio, ha “scritto” un nuovo modo di fare cinema. Qual è, quindi, l’impatto che il cinema di Tarantino ha avuto dagli anni Novanta ad oggi? Ne parliamo con Gianluca Pelleschi, redattore della rivista di cinema online Gli Spietati.

Tarantino sembra essere uno dei pochissimi registi i cui film, indipendentemente dal soggetto, costituiscono di per sé un “genere”, qualcosa di unico, tanto che è stato coniato il termine “tarantinismo”.
Credo che Tarantino sia uno di quegli artisti la cui personalità contamina sempre e comunque l’opera e, in un certo senso, diventa l’opera. Quando guardi un film di Tarantino, hai l’impressione di interfacciarti con Tarantino, piuttosto che con un suo film. Certo, ci sono elementi forti che ritornano, più o meno esplicitamente, in tutti i suoi lavori: citazionismo, cinefilia esibita, dialoghi apparentemente vuoti ma divertenti, le spiazzanti esplosioni di violenza, solo per citarne alcuni. Ma non c’è solo quello. C’è qualcos’altro di “onnipresente ma più o meno illocalizzabile” per citare quello che dice Metz a proposito dello stile. Il Tarantinismo è insieme evidente e inafferrabile. E, come dice giustamente, ci sono pochissimi altri registi che diventano essi stessi un genere. Il primo che mi viene in mente è sicuramente David Lynch. In letteratura, un esempio recente potrebbe essere David Foster Wallace. E forse non è un caso che lo stesso Wallace fosse interessato sia a Lynch che a Tarantino. E al rapporto tra i due. In particolare, è sua la miglior definizione possibile dell’aggettivo “lynchiano”: «un tipo particolare di ironia dove il molto macabro e il molto banale si combinano in maniera da rivelare la corrispondenza continua dell’uno dentro l’altro». E ancora: «Un delitto domestico tradizionale non è lynchiano. Ma se la polizia arriva sul luogo del delitto e vede il marito in piedi sopra il corpo senza vita della moglie e successivamente l’uomo e i poliziotti hanno una conversazione sul fatto che lui l’abbia uccisa perché lei si rifiutava di comprare una determinata marca di burro d’arachidi piuttosto che un’altra – sottolineando quanto questo sia di estrema importanza – trovando assenso tra i poliziotti i quali aggiungeranno che una moglie che non vede la differenza di qualità tra le due marche viene meno ai suoi doveri coniugali, quello è lynchiano». Quest’immagine, evocata da Wallace, non è anche, assolutamente, tarantiniana? E infatti, il compianto DFW ha le idee chiare anche sul rapporto tra i due, individuando il forte debito che Tarantino ha nei confronti di Lynch, arrivando a dire che il Fenomeno Tarantino non esisterebbe senza Lynch. E chiarendo i termini della questione: «Tarantino ha fatto con Lynch quello che Pat Boone ha fatto con Little Richard e Fats Domino: ha trovato (piuttosto ingegnosamente) un modo di prendere quello che c’è di caratteristico, ruvido e minaccioso nel suo lavoro e l’ha omogeneizzato, sbattuto fino a farlo diventare liscio, piacevole e igienico a sufficienza per il consumo di massa».

All’uscita de Le iene nel 1992 e, ancor più, di Pulp fiction, due anni dopo, abbiamo assistito ad una vera e propria esplosione del “fenomeno” Tarantino. Un entusiasmo popolare che solitamente si osserva per le saghe di particolare successo, ma anche la passione dei veri cinefili. A suo avviso per quale ragione?
I motivi potrebbero essere molti. Io credo che, fondamentalmente, Tarantino abbia saputo cogliere e insieme plasmare lo Zeitgeist. I primi anni Novanta sono quelli in cui l’atteggiamento postmoderno, cinico, disincantato, ironico e autoconsapevole, penetra negli anfratti più insospettabili della società. In televisione esplode il fenomeno dei Simpson. I Nirvana vendono milioni di dischi e impongono “alle masse” temi e stilemi musicali fino a quel momento relegati a una nicchia. Al cinema, Tarantino ci fa sentire tutti più moderni, più alternativi, più cool. Sembra un ossimoro ma è il grande fascino dell’Underground che diventa Mainstream e che spesso sfocia, appunto, nell’entusiasmo più o meno collettivo. E nel successo.

Qual è stato e qual è l’impatto del “tarantinismo” sul cinema contemporaneo?
Enorme e a diversi livelli, alcuni più espliciti, altri meno, altri ancora, per così dire, eterodiretti. Ci sono stati registi che hanno girato film chiaramente tarantiniani fino al plagio, basti pensare a Lock&Stock e Snatch di Guy Ritchie. Poi ci sono i parenti stretti, i figli per così dire legittimi, come Natural Born Killers di Stone e True Romance di Tony Scott, scritti da Tarantino, o Killing Zoe di Avary, co-sceneggiatore di Pulp Fiction. Ma ancora più significativa era la tendenza dell’epoca di vedere Tarantino un po’ ovunque. Bastava un po’ di violenza o uno sviluppo dell’intreccio poco lineare per scomodare, spesso a sproposito, Tarantino, come nel caso de I soliti Sospetti. Diventò subito una presenza molto ingombrante che ha generato emuli dichiarati, come Rodriguez e Roth, e che non ha smesso di esercitare il proprio fascino nemmeno negli anni zero e oltre (Shoot’em Up, di Davis e Cani Sciolti di Kormákur). Anche se, è bene precisare, si tratta sempre di semplificazioni e banalizzazioni di un cinema, quello di Tarantino, che invece è molto più denso e profondo di quello che sembra.

Molti hanno accusato, negli anni, il cinema di Tarantino di essere sostanzialmente vuoto. Pellicole “cool”, pensate per esserlo, capaci di accendere l’entusiasmo del pubblico con una furba mistura a base di pulp, situazioni estreme, personaggi iconici. Da ricordare più per occhi strappati, katana, tute gialle e schizzi di sangue che per altro. Che cosa ne pensa?
Come accennavo prima, il cinema di Tarantino è vuoto solo in apparenza. Io trovo che ci sia una specie di dichiarazione di poetica, e insieme di auto-esegesi, se così si può dire, in Pulp Fiction: il famoso monologo “Ezechiele 25:17”. Jules lo declama due volte. La seconda volta, però, si chiede quale sia il vero significato di quelle parole. Prima pensava che fosse una cosa da dire a sangue freddo a “un figlio di puttana” (sic) prima di ammazzarlo, dice. Poi si domanda se invece non abbia un significato più profondo e ipotizza un paio di interpretazioni, la più convincente delle quali lo avrebbe spinto a cambiare vita e a smetterla di fare il gangster per diventare un pastore. Ecco, secondo me la riflessione che fa Jules ripropone quella che facciamo noi davanti ai dialoghi del cinema di Tarantino e davanti al cinema di Tarantino più in generale. Questo monologo, il percorso che compie questo monologo all’interno del film, è una specie di metafora di tutto il cinema di Tarantino: non è vuoto, gratuitamente cool e divertente come sembra, merita una lettura ulteriore. Ma ci sono almeno altri due elementi che scoraggiano la derubricazione di Tarantino ad autore “vuoto”. Il primo è il suo lavoro sul posizionamento dello spettatore. Non si sta “comodi”, di fronte ai film di Tarantino. In Kill Bill, ad esempio, quando si arriva alla resa dei conti, allo scontro tra La Sposa e Bill, il film sembra disinnescarsi. Il monologo di Bill su Superman ci ricorda che Beatrix Kiddo è stata un’assassina priva di scrupoli, che è Superman anche se cerca di travestirsi da qualcos’altro, anche se il film stesso, Tarantino stesso hanno fatto di tutto per rendercela simpatica e per farcela vedere sotto un’altra luce. Prima crisi. Poi arriva il momento chiave, quello in cui Bill dice “ho reagito male” mentre cerca di spiegare perché aveva sparato in testa alla futura moglie incinta di lui. Allora il film diventa una specie di commedia rosa coi battibecchi tra Lui e Lei e Bill sembra davvero un semplice amante tradito che “ha reagito male”… e quando arriva la sua morte, consumata in relativa tranquillità (non c’è lo scontro epico che ci aspettavamo, i due sono seduti a un tavolo) per una ovviamente simbolica “esplosione del cuore”, rimaniamo delusi. Il retrogusto è amaro, siamo costretti a rivedere, ripercorrere tutto il film con occhi diversi, ci siamo dovuti quindi riposizionare forzatamente come spettatori e siamo stati costretti a rivedere le nostre posizioni anche etiche, morali, di fronte al film. Non è una cosa da poco. Il secondo elemento è l’impegno esplicito di Tarantino, emerso nei suoi ultimi lavori. Inglorious Basterds è un film antinazista, che arriva a cambiare la Storia facendo emergere una sorta di potere salvifico del Cinema, Django Unchained è un film antirazzista e The Hateful Eight è un film esplicitamente politico, sull’America di ieri e di oggi.

Raramente si sente parlare del cinema di Tarantino senza un riferimento alla violenza presente nei suoi film. Molti la definiscono compiaciuta, esasperata, impropriamente minimizzata dall’ironia. Qual è a suo giudizio la chiave di lettura più corretta per interpretare la componente violenta nella produzione del regista?
Ho sempre trovato che la violenza, nel cinema di Tarantino, sia stata un po’ travisata. Le cose che scrive, ben riassumendo i giudizi che vengono solitamente formulati riguardo alla violenza nel cinema di Tarantino, lo confermano. Trovo che Tarantino, in realtà, faccia un uso molto “etico” della violenza. Quando esagera, perché a volte esagera, è innegabile, lo fa perché se lo può permettere. In quel caso opta per un parossismo insieme provocatorio e ludico della violenza, che in qualche modo coinvolge “i cattivi”. In quel caso la violenza diventa comica e insieme liberatoria. Beatrix che trucida e mutila gli 88 folli a colpi di katana in Kill Bill, Hitler crivellato di colpi nel finale di Inglorious Basterds, sono due esempi di “eccessi” giustificati – e consentiti – dal racconto. Altrove, invece, Tarantino diventa quasi pudico: il taglio dell’orecchio del povero poliziotto de Le Iene, ad esempio, il ragazzo al quale Vincent Vega fa involontariamente saltare la testa in Pulp Fiction, sono momenti forti che però vengono confinati fuori campo, come se Tarantino mostrasse una forma di rispetto, per le vittime, di fronte alle terribili sventure delle quali non è lecito ridere ma solo sorridere, magari sotto i baffi, assaliti dai sensi di colpa spettatoriali.

Quello di Tarantino, non a caso, è prima di tutto cinema di dialoghi. Tarantino è in primo luogo uno sceneggiatore (i due Oscar da lui vinti sono andati, appunto, alla sceneggiatura). Quali sono, secondo lei, le peculiarità e la forza dei dialoghi dei suoi film?
Il modo in cui Tarantino esordisce al Cinema è emblematico: Le Iene inizia con uno schermo nero e un dialogo. La prima cosa che si nota è che la parola viene prima delle immagini. Il noto dialogo iniziale parte non solo in medias res, e qui forse c’è la passione per lo scrittore Elmore Leonard, ma parte a film non ancora iniziato. Come a dire: “sono soprattutto uno sceneggiatore”. Le chiacchiere sono uno dei tratti distintivi del regista, forse il tratto distintivo. E qual è il contenuto di questo monologo/dialogo? È un dialogo ricchissimo: intanto è un bignami del postmoderno, col suo frullato di immaginari pop/musicali/cinematografici (Madonna, Charles Bronson, ecc.). Poi, è il primo esempio di dialogo squisitamente tarantiniano, nel senso di comico, assurdo, vuoto ma insieme obliquamente sensato e non così vuoto come sembra. Le chiacchiere, nei film di Tarantino, sembrano sempre gratuite ma poi hanno sempre una seconda chiave di lettura che invita comunque a riflettere, sono sempre stupidaggini che poi si rivelano non così stupide. Perché in effetti, la tirata di Tarantino sul Like a virgin come “metafora della fava grossa” (sic), dopo le risate iniziali, stupisce perché fa davvero ripensare a Like a virgin e spinge a interrogarsi se il testo non sia effettivamente interpretabile come metafora della fava grossa. E questa sarà una costante di tutti i meravigliosi dialoghi del suo cinema. A partire dal successivo monologo di Buscemi sulle cameriere, sicuramente comico, ma non così vuoto o così insensato nella sua critica al sistema delle mance. Sono dialoghi che aiutano anche a inquadrare i personaggi, quindi che hanno un senso all’interno dell’economia del film: il Boss che si sente superiore e si fa gli affari suoi, Keitel maturo e più assennato degli altri, Buscemi riflessivo e, a modo suo, razionale, Roth che se ne sta in disparte ad ascoltare perché è la talpa e forse non vuole scoprirsi ed esporsi troppo, Madsen che sembra “altrove” e mima il gesto di sparare perché è un violento psicopatico. C’è già tutto, o quasi.

Quanto sono importanti i personaggi nel cinema del regista, con la loro straordinaria capacità di divenire icone amatissime – anche quelli più amorali e quelli più violenti? E quanto gli attori che li hanno interpretati?
Sono importantissimi. Credo che il successo di pubblico dei film di Tarantino sia in gran parte imputabile alla sua capacità di creare personaggi indimenticabili, che evocano e insieme creano un immaginario tutto loro. Sono proprio i personaggi che vengono citati e ricordati, più che le storie. Prendiamo il suo film più, giustamente, famoso, Pulp Fiction. Non credo che siano molti quelli che sarebbero capaci di riassumerne la trama, se non a grandissime linee. Ma tutti si ricordano bene di Jules, Vincent, Marsellus, Butch, Mia e Mr. Wolf… ma anche di personaggi minori o appena accennati come Fabienne e Zed. Riguardo agli attori, Tarantino ha questa capacità di scegliere gli attori perfetti per i ruoli, talmente perfetti che il rischio è quello di legare indissolubilmente, permanentemente, quell’attore a quel personaggio. Diciamo che fa un uso definitivo degli attori, non dissimile a quello che fa delle musiche.

Qual è a suo giudizio il ruolo della musica nelle pellicole di Tarantino?
Come accennavo prima, Tarantino fagocita e assimila le musiche che utilizza nei suoi film fino a renderle “sue”. Di fatto, è diventato sostanzialmente impossibile ascoltare You never can tell, Girl you’ll be a woman soon, Stuck in the middle with you o il motivetto di Bernard Hermann Twisted Nerve senza pensare alle rispettive sequenze nei film di Tarantino.

A suo avviso, è possibile individuare un’evoluzione nel cinema di Tarantino? Rispetto a film come Le Iene, Pulp fiction e Kill Bill, le pellicole successive segnano una discontinuità?
Assolutamente. O meglio: un’evoluzione con un paio di anomalie. C’è senz’altro un filo rosso che unisce Le Iene, Pulp Fiction e Kill Bill, con Jackie Brown a fare da elemento dissonante, essendo più classico, meno pulp e meno citazionista. Poi c’è l’intermezzo di Death Proof, bellissimo divertissement d’autore che prosegue il dialogo irrequieto con lo spettatore iniziato con Kill Bill, dopo il quale Tarantino ha girato quella che potremmo definire la “trilogia dell’impegno”, della quale abbiamo già accennato. Inglorious Basterds, Django Unchained e The Hateful Eight sono, infatti, quasi dei film a tema. Molto obliqui, divergenti, tarantiniani, ma a tema. C’è da chiedersi perché. La risposta, forse, ce la dà, di nuovo, David Foster Wallace. Si tratta probabilmente di una semplificazione ma, traslando il discorso al cinema di Tarantino, potrebbe non discostarsi troppo dalla realtà. Parlando di Postmodernismo, lo scrittore americano disse: «Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine…». E ancora: «il lavoro patricida dei maestri postmoderni è stato fondamentale, ma il parricidio produce orfani, e la cosa più difficile di tutte è accettare che questi padri non torneranno, il che significa che per noi è diventato il momento di diventare padri». Ecco, forse Tarantino ha deciso di diventare padre.

Quentin Tarantino, cinefilo e citazionista, ha sempre dimostrato di avere un legame particolare col cinema italiano, dagli spaghetti western, all’horror nostrano fino al poliziottesco. Secondo lei, questo legame emerge nella sua produzione? Anche il pubblico italiano si sente particolarmente legato al regista?
Tarantino non ha mai fatto mistero della sua passione per il cinema italiano, soprattutto quello di genere degli anni Sessanta e Settanta, senza fare distinzione tra alto e basso, colto e pop. La cosa che trovo curiosa, però, è proprio il modo, un po’ ambiguo, in cui questo legame dichiarato emerge nei suoi film. Nessuno mette in discussione la sincerità delle sue affermazioni, la passione per Castellari, Lenzi o Corbucci, ma di fatto, il rimando a quel cinema, quando c’è, è solo nominale, cinefilo. Emblematici sono i due remake consecutivi girati da Tarantino. Inglorious Basterds e Django Unchained, rispettivamente ispirati a Quel maledetto treno blindato, di Castellari, e a Django, di Corbucci. Si tratta di due remake solo sulla carta. Nel primo caso, l’omaggio a Castellari & C. si ferma al titolo, c’è un cameo, ci sono i basterds che si fingono italiani e si danno nomi di registi come Girolami, ecc., ma è tutto molto leggero e ludico. Del secondo, rimane l’idea di omaggiare il minore dei due Sergio del western all’italiana, ma il Django di Tarantino ha davvero poco o nulla da spartire col Django di Corbucci. Abbiamo qualche altra citazione corbucciana (Navajo Joe, Il Grande Silenzio, le musiche de I Crudeli), qualche tic linguistico, come le soggettive un po’ sgrammaticate del cocchiere che rimandano a quelle di Corbucci ma, di nuovo, tutto è molto leggero, ludico, disimpegnato. Insomma, il legame con un certo cinema italiano c’è ma sembra quasi che Tarantino, più o meno volontariamente, gli renda omaggio in modo piuttosto superficiale.

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