Nei precedenti articoli sullo spinoso argomento della prescrizione penale, ho espresso piena adesione alla riforma introdotta dalla legge – entrata in vigore il primo gennaio di quest’anno – che blocca il decorso della prescrizione al momento dell’emissione della sentenza di primo grado, motivandola, tra le altre cose, con la considerazione che la precedente disciplina rappresentava un caso unico rispetto agli altri paesi europei.
Un recente articolo apparso su L’Espresso (n. 8 del 16 febbraio) espone un quadro comparativo tra la nostra pre-vigente disciplina e quella di altri paesi europei. In Germania il rinvio a giudizio determina l’interruzione della prescrizione e la sentenza di primo grado il blocco definitivo. Analoga è quella vigente negli Stati Uniti – arresto o richiesta di giudizio comportano l’interruzione, mentre la condanna di primo grado lo stop definitivo. In Francia il blocco definitivo viene anticipato con il primo interrogatorio, arresto o richiesta di giudizio; analogamente succede in Spagna e in Inghilterra.
Si era illustrato, nei precedenti articoli, come il ventilato pericolo del “processo infinito” fosse solo un efficace argomento dialettico. Lontano, tuttavia, dalla realtà, sia per l’effetto deflattivo della riforma su appelli e ricorsi sia per l’ampio margine che la riforma assicurava al legislatore per una incisiva revisione del codice di procedura penale che non si fermasse alla sola fissazione di termini rigidi di svolgimento del processo nei tre gradi di giudizio, ma introducesse misure idonee a velocizzare il corso del processo, liberandolo dalle lungaggini dei rinvii, della ripetizione orale di ogni singolo atto delle indagini preliminari svolte dalla polizia giudiziaria, riducendo le ipotesi di impugnazione e altro ancora.
Nel rapporto sull’Italia approvato recentemente da Bruxelles, la riforma Bonafede (sulla prescrizione) viene definita «Una riforma benvenuta, che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, cosa che è in linea con una raccomandazione specifica per il Paese formulata da tempo». E, ancora, si esprime consenso alle linee di riforma proposte dal Governo «per la semplificazione dei processi, come una revisione del sistema di notifica, un ricorso più ampio alle procedure semplificate, la limitazione della possibilità di impugnare una sentenza attraverso l’imposizione di un nuovo mandato specifico per gli avvocati, l’introduzione della composizione monocratica (giudice unico) in secondo grado per la citazione diretta, un più ampio ricorso agli strumenti elettronici per la presentazione dei documenti e norme semplificate in materia di elementi probatori».
In precedenza, una severa censura alla disciplina della prescrizione contenuta nel nostro Codice penale era stata applicata dalla Corte di Giustizia Europea Grande Sezione nel caso Taricco ed altri – 8 settembre 2015. In sintesi, la Corte ha ritenuto che la normativa italiana in tema di prescrizione impedendo l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni, nei casi di frode grave in materia di IVA – a causa di un termine complessivo di prescrizione troppo breve – potrebbe ledere gli interessi finanziari dell’Unione. La sentenza rammentava che «secondo l’articolo 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), gli Stati membri devono lottare, con misure dissuasive ed effettive, contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione». Pertanto «il giudice italiano dovrà verificare se il diritto italiano consente di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Così, il diritto italiano sarebbe contrario all’articolo 325 TFUE qualora il giudice italiano dovesse concludere che un numero considerevole di casi di frode grave non può essere punito a causa del fatto che le norme sulla prescrizione generalmente impediscono l’adozione di decisioni giudiziarie definitive». In conclusione «Qualora il giudice italiano dovesse ravvisare una violazione dell’articolo 325, egli sarà allora tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, le norme sulla prescrizione controverse. Infatti, l’articolo 325 TFUE ha per effetto, in base al principio del primato del diritto dell’Unione, di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della sua entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente».
La terza sezione penale della Corte di Cassazione applicò immediatamente la sentenza della Corte di giustizia, mentre la Corte di Appello di Milano investì della questione la Corte Costituzionale, la quale, a sua volta, con l’ordinanza 26 gennaio 2017 n. 24, richiese alla Corte di Giustizia, in via interlocutoria, una nuova pronuncia che desse una lettura costituzionalmente corretta (e correttiva) di quella precedente, rispetto ai problemi di applicazione retroattiva della stessa ai reati commessi prima della pubblicazione della stessa e all’esigenza di determinatezza della norma penale – ambedue princìpi inalienabili a difesa della legalità costituzionale. La Grande Sezione della Corte di Giustizia emetteva, quindi, la seconda sentenza Taricco in data 5 dicembre 2017 la quale, accettando in buona sostanza il rilievo mosso dalla Corte nazionale, ammetteva che «i giudici nazionali competenti, quando devono decidere, nei procedimenti pendenti, di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, sono tenuti ad assicurarsi che i diritti fondamentali delle persone accusate di avere commesso un reato siano rispettati». Riconosceva altresì, il principio di legalità sovranazionale «nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile (§ 51), di cui agli artt. 49 e 51 della Carta, alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e all’art. 7, § 1 CEDU».
La disputa – o, se si preferisce, il dialogo – tra le Corti si concludeva definitivamente con la sentenza della Corte Costituzionale n. 115 del 31 maggio 2018 nella quale, ribadito il principio di non retroattività – già riconosciuto dalla seconda sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo –, sanciva che «la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro ordinamento».
Dall’excursus giudiziario descritto risulta evidente che il principio stabilito dalla Corte di Giustizia ebbe vita difficile e al termine del suo complesso iter si giunse alla sua sostanziale disapplicazione. Il suo valore trascende, tuttavia, il fallimento dei suoi effetti applicativi, nella parte in cui ribadisce l’esigenza primaria secondo cui le norme penali abbiano la possibilità concreta, e non teorica, di sanzionare in modo «effettivo e dissuasivo» le violazioni delle più gravi ipotesi di reato non solo, quindi, quelli di natura fiscale di interesse comunitario; effetto, questo, che non può essere raggiunto in presenza di norme sulla prescrizione che «impediscano di raggiungere decisioni giudiziarie definitive».