Tutta la storia politica e sociale dell’umanità può essere letta come un processo irrefrenabile e costante di riduzione della paura e di ricerca della sicurezza.
Ci siamo messi insieme per questo, pensando che bastasse un atto, la istituzione dello Stato, per passare dalla condizione di homo homini lupus all’epoca in cui l’uomo diventasse finalmente un amico per l’uomo, nella speranza poetica di Bertold Brecht.
Nella sua evoluzione logica, tecnologica e cronologica, dentro mutamenti e mutazioni, tra azioni e innovazioni, tra conflitti e sconfitte, la società non ha eliminato la paura e non ha ridotto l’insicurezza.
L’ha trasferita, in qualche altro luogo, l’ha frazionata, l’ha parcellizzata in segmenti e comparti, senza poterla debellare.
Finché non abbiamo capito che paura e insicurezza non sono concetti delimitabili, ma percezioni totali che prolificano negli interstizi di qualsivoglia società, comunità o gruppo etnico, nel limbo della nostra coscienza: un po’ di più delle sensazioni, un po’ meno della logica razionale.
Attraverso tutta la storia, l’uomo ha cercato di ridurre l’insicurezza di sé nelle forme che, di volta in volta, egli era in grado di percepire.
L’uomo ha governato la sua insicurezza relativa cambiando la geografia e chiudendosi dentro rifugi più o meno protettivi.
Così, l’organizzazione sociale è diventata il contenitore della sicurezza individuale e l’organizzazione politica il tutore della sicurezza collettiva.
Il semplice e tragico tentativo di sopravvivere è stata, dunque, la condizione prevalente dell’essere umano ed ancora lo è nella maggior parte del mondo, dove vivono individui costantemente piegati sotto il peso della complessità ontologica.
Sulla insicurezza dell’altro, l’uomo ha edificato il suo potere.
Ma l’insicurezza dell’altro è anche la mia insicurezza, quando divento un altro e sulla propria insicurezza l’uomo ha istituito lo Stato democratico.
Soltanto con il passaggio dalla comunità alla società, gli uomini hanno gradualmente – molto gradualmente – risolto il problema della sopravvivenza dalla fame, con la produzione industriale, e dalla forza, con l’istituzione della democrazia.
La modernizzazione è stata il passaggio dallo status al contratto, è stata la divisione del lavoro, l’introduzione e la cristallizzazione delle Istituzioni democratiche.
È stato il totalitarismo, è stata la proliferazione delle relazioni sociali di tipo legale/razionale, i movimenti collettivi, il capitalismo e il socialismo, è stata l’industrializzazione e l’ecologia, crescita e sviluppo, il potenziale tecnologico e il potenziamento multimediale, habitat e sostenibilità, la localizzazione e la globalizzazione, creatività e solitudine.
Il sistema sociale, con tutti i suoi limiti e con tutte le sue inefficienze, ha trasformato il pericolo in rischio, la precarietà quotidiana della sopravvivenza in eccezione circoscritta a casi individuali o a categorie delimitate.
Ma non è scomparsa la paura: attraversare una città moderna, di notte, in metropolitana; non è facile per nessuno.
Per noi la modernizzazione, dunque, è stata il passaggio dalla complessità ontologica alla complessità epistemologica; per noi la modernizzazione è stata la riduzione dell’insicurezza fisica, empirica, organica, e l’avvento di un’insicurezza sensitiva e psicologica.
L’insicurezza dei nostri padri era un’insicurezza del presente, del risveglio, di ogni giorno da affrontare, di ciò che oggi avrò e di ciò che farò.
La nostra insicurezza è nelle cose con cui ci dobbiamo confrontare, è una insicurezza del futuro, del tempo che vedrò.
Soltanto che l’insicurezza rispetto al futuro, si chiama rischio.
Il cittadino occidentale moderno apprende una disciplina sociale di accrescimento di sicurezza oggettiva fin dalla sua infanzia, che «aumenta continuamente di intensità».
Ciascuno, senza accorgersene è conformato per la maggior parte della sua vita a convenzioni e regole, a norme e regolamenti, al Codice civile e penale, quello della strada, della salute pubblica e della sicurezza sociale.
Che poi l’individuo paghi l’accrescimento di sicurezza oggettiva con una maggiore insicurezza soggettiva, è un altro discorso.
L’Occidente, e l’Europa nell’Occidente, ha gestito la paura con il Welfare State, appunto con il sistema di sicurezza sociale, «il tentativo più ammirevole e più rischioso di promuovere sia la giustizia che la prosperità in una società».
Non si è trattato soltanto di buone intenzioni. Si è trattato di obiettivi precisi che hanno avuto sostanzialmente l’esito della riproduzione spontanea della popolazione e della riproduzione calcolata della società.
Più uomini per la società e più società per gli uomini.
Tuttavia, insieme al consumo di massa, l’uomo non ha conquistato una maggiore tranquillità.
È la crisi delle aspettative crescenti, il passaggio dalla «soddisfazione litigiosa» del Welfare State alla «insoddisfazione rissosa» di una «una società esigente e indocile che periodicamente entra in una fase di eccitazione».
I nostri contemporanei temono di essere soltanto “parti subordinate” di strategie altre, razionali o irrazionali, comunque incontrollabili.
Ne avvertiamo il rischio.
Tra le infinite possibilità proiettiamo su noi stessi quelle che ci sono state trasmesse dai mezzi di comunicazione di massa, quelle che abbiamo visto in televisione, che abbiamo letto nella cronaca di un giornale, che ascoltiamo dalla radio o dalle confidenze di un conoscente.
Sono una serie innumerevole di minacce, apparentemente minori, a cui siamo sottoposti ogni giorno come individui perché le subiamo o perché le vediamo rappresentate all’interno del nostro gruppo di pari e ci riflettiamo in esse.
Le vediamo rappresentate nel sistema di comunicazione globale e le proiettiamo nella nostra esperienza di vita e diventano nostre, diventano le tegole minacciose della nostra quotidianità, anche se poi, nella realtà, quell’evento ha una possibilità ridotta di accadere.
Tutti insieme, invece, subiamo un altro tipo di minacce, molto più concrete anche se molto meno percepite. Sono minacce globali che attengono al sistema di mantenimento e di autorganizzazione della società contemporanea.
Sono minacce ambientali totali, nell’approvvigionamento di energia, nella riduzione del velo di protezione planetaria, nel sistema della riproduzione della specie o nella deflagrazione di un conflitto bellico di nuovo tipo.
Viviamo costantemente il pericolo delle radiazioni nucleari, il pericolo dell’inquinamento ambientale, il pericolo infettivo nello scambio d’amore, il pericolo di un missile nucleare o di una bomba terroristica.
Sono minacce a cui dedichiamo solo parti ridotte del nostro pensiero, perché sono molto più grandi noi, perché non le possiamo fronteggiare da soli, perché sono collettive e globali e ci chiedono, talvolta, una drastica riduzione dei nostri privilegi.
Nella società in cui viviamo non c’è, in realtà, un deficit di sicurezza. Se ci guardiamo attorno, abbiamo costruito una consistente casistica di protezioni e di tutele, abbiamo notevoli occasioni ed opportunità di benessere.
Il Pericolo per noi deriva soltanto da noi.
Non c’è deficit di sicurezza nelle nostre società complesse, c’è un surplus d’insicurezza prodotta dal senso di pericolo sociale che i nostri decisori trasmettono nel fronteggiare minacce epocali.
Nella nuova modernizzazione autoreferenziale, siamo ancora preda di quotidiane paure, di angosce endemiche e indotte, coinvolti in ansie ed allarmismi eccessivi.
Quando i ragazzi prendono i motorini per andare a scuola, quando ritardano, abbiamo paura che il pericolo sia proprio in quella scuola che dovrebbe formarli a non aver paura, o su quella strada costruita allo scopo di ridurre i rischi di trasporto.
E abbiamo paura per noi stessi quando attraversiamo un vicolo in ombra, un parco buio, nella folla o nella solitudine, quando assumiamo un debito, quando votiamo.
Abbiamo paura delle procedure quando lavorano come procedure, delle funzioni e delle prestazioni quando svolgono il loro ruolo di funzione e/o di prestazione, abbiamo paura delle cose quando fanno le cose a cui sono destinate.
L’insicurezza si annida negli apparati della nostra stessa protezione, negli approdi che dovrebbero invece accoglierci.
E questo surplus di insicurezza si autoproduce proprio perché la società non ci considera come persone, ma come soggetti sociali.
Siamo stati abituati a fronteggiare, a gestire una paura associativa, la paura che il Leviatano, il sistema politico, ha coperto e circoscritto con il processo di legittimazione delle Istituzioni pubbliche, oltre che collettive.
Ora quello stesso Leviatano rischia di crollare sotto il peso di una paura dissociativa, singolare, mia o tua, generata da un tabù, da una interpretazione, in generale, dalla attitudine più o meno emancipata ad agire nella complessità del mondo.
Il tonfo di morte degli aerei killer e delle Twin Towers di New York ha materializzato l’insicurezza esistenziale.
Una minaccia che ti cade addosso all’improvviso, che ti colpisce in quanto essere vivente.
La televisione trasmette la sua ansia e la sua angoscia di protagonista, la preoccupazione dei testimoni, i toni e le sensazioni dei giornalisti o degli anchormen.
Il sistema comunicativo è il labirinto multimediale degli specchi e «gli specchi dovrebbero riflettere un momentino prima di riflettere le immagini» diceva Jean Cocteau.
Non c’è pubblico: il tema della sicurezza riguarda tutti.
Appunto, è il problema complessivo della sicurezza complessiva.
Un problema che forse non esiste, perché la sicurezza non esiste.
Esiste una insicurezza relativa, cioè relativamente ampia, con una sua propria storicità.
“Dalla complessità ontologica alla complessità epistemologica” intervento a margine del convegno “La globalizzazione e le nuove frontiere della (in)sicurezza” (Roma, 2 dicembre 2019) promosso dall’Eurispes, dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e dalla Scuola Ufficiali Carabinieri https://eurispes.eu/news/giornata-di-studio-la-globalizzazione-e-le-nuove-frontiere-della-insicurezza/
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