Gregoretti e Diciotti: due casi a confronto

Si è aperto davanti al Giudice dell’udienza preliminare il procedimento a carico dell’ex-Ministro dell’Interno Matteo Salvini, imputato del reato di sequestro di persona per la mancata autorizzazione allo sbarco dei migranti a bordo della nave della Guardia Costiera Gregoretti. L’occasione appare opportuna per ricostruire, sia pure sommariamente, la vicenda politica e giudiziaria che tanto interessa l’opinione pubblica nazionale (e non solo), ponendola a confronto con altre del medesimo genere, in particolare di quella della nave Diciotti. In questo secondo caso, infatti, il Senato decise – in conformità al parere della Giunta per le autorizzazioni – di respingere la richiesta di autorizzazione proposta dal Tribunale. Determinante ai fini del rigetto fu il fatto che la decisione del divieto venne rivendicata anche dal Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dal Vicepresidente, Luigi Di Maio, e dal Ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, con un documento da essi consegnato alla Giunta per le immunità del Senato il 17 febbraio. In ambedue i casi fu il Tribunale dei Ministri di Catania ad occuparsi delle due vicende per molti versi analoghe, ma nello stesso tempo diverse anche per il mutato quadro normativo intervenuto tra l’una e l’altra.

La storia ha inizio nel luglio del 2019, quando l’unità della Guardia Costiera Gregoretti imbarca 50 migranti, che erano stati soccorsi dal peschereccio Accursio Giarratano, ai quali si aggiungevano altri 91 migranti soccorsi da un pattugliatore della Guardia di Finanza. Giunta al largo di Catania venivano sbarcate sei persone bisognose di cure, mentre per gli altri 135 arrivava il “no” allo sbarco da parte del Ministero dell’Interno. Il 29 luglio, la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Catania, disponeva lo sbarco di quindici minori. Il 31 luglio venne finalmente disposto lo sbarco, ma solo dopo un’ispezione sanitaria disposta dal Procuratore della Repubblica facente funzioni di Siracusa (ex-ufficiale della Marina) che accertò che 29 migranti erano affetti da scabbia e che le condizioni igieniche della nave non erano adeguate al numero degli occupanti – la nave non era attrezzata per operazioni di soccorso, disponeva di solo due bagni per 116 migranti (peraltro costretti per mancanza di spazio a stare notte e giorno in coperta, a soffrire il caldo di giorno e il freddo di notte, senza alcuna protezione) e 30 componenti dell’equipaggio. Dopo una breve permanenza nell’hotspot di Pozzallo, i migranti furono smistati in vari paesi europei, mentre i cinquanta rimasti in Italia furono presi in carico dalla Conferenza Episcopale Italiana.

Fatta questa premessa, era del tutto prevedibile l’inizio di un procedimento penale a carico del Ministro per il reato di sequestro di persona, come nel caso della Diciotti dell’anno precedente. Il Procuratore della Repubblica di Catania chiedeva l’archiviazione del procedimento per infondatezza della notizia di reato e, parimenti, come nel caso precedente, il Tribunale dei Ministri, con decreto del 16 luglio 2019, richiedeva al Senato di pronunciarsi circa l’esistenza della scriminante di cui all’art. 9, comma 1 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n.1, trasmettendo al Senato gli atti del procedimento penale n. 3/2019 RG – Sezione reati ministeriali (iscritto al n. 11286/19 R.G.N.R.). Per inciso, va precisato che nel caso in questione non si è in presenza di normale autorizzazione a procedere nei confronti di membri del Parlamento, ai sensi dell’art. 68 della Costituzione, dovendo invece l’Assemblea stabilire «se l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo».

L’imputazione a carico di Salvini, nella sua qualità di Ministro dell’Interno pro-tempore, era quella di «sequestro di persona aggravato ai sensi dell’articolo 605, commi primo, secondo, n. 2 e terzo del Codice penale, per avere nella sua qualità di Ministro dell’Interno, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale 131 migranti di varie nazionalità a bordo dell’unità navale B. Gregoretti della Guardia Costiera italiana dalle ore 00,35 del 27 luglio 2019 sino al pomeriggio del successivo 31 luglio 2019. Ciò in violazione delle Convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare e le correlate norme di attuazione nazionali (Convenzione SAR, Risoluzione MSC 167-78, Direttiva SOP 009/15), non consentendo senza giustificato motivo al competente Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione – costituente articolazione del Ministero dell’Interno – di esitare tempestivamente la richiesta di POS (Place of Safety) presentata formalmente da IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Center) il 27 luglio, bloccando la procedura di sbarco dei migranti, e così determinando consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale di questi ultimi, costretti a rimanere in condizioni psico-fisiche critiche a bordo della nave B. Gregoretti ormeggiata nel porto di Augusta fino al pomeriggio del 31 luglio, momento in cui veniva autorizzato lo sbarco. Fatto aggravato dall’essere stato commesso da un pubblico ufficiale e con abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età».

Fin qui il caso Gregoretti sembrerebbe ricalcare quello della nave Diciotti, ma non è così. Vi sono certamente degli elementi di identità. Eguali sono le normative nazionali, comunitarie e internazionali violate, eguale il titolo del reato e le aggravanti contestate. Eguale, infine, la tipologia delle due navi, ambedue appartenenti alla Guardia Costiera della Marina Militare. Vi sono però differenze sostanziali, come di seguito esposte.

Il Tribunale dei Ministri – nel corso degli ulteriori accertamenti eseguiti dopo avere ricevuto i fascicoli provenienti dalle procure di Siracusa e Catania – aveva richiesto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di fornire informazioni sull’esistenza di ordini del giorno relativi al caso Gregoretti trattati nelle riunioni del Consiglio eventualmente tenutesi tra il 25 ed il 31 luglio 2019. La risposta fu che, nell’unica riunione tenutasi in data 31 luglio 2019, la questione relativa alla vicenda non figurava all’ordine del giorno, né fu oggetto di trattazione nell’ambito delle questioni “varie ed eventuali”.

Pertanto, contrariamente a quanto avvenne nel caso Diciotti, allorché il Presidente del Consiglio Conte, il Vicepresidente Di Maio e il Ministro Toninelli si assunsero la responsabilità collegiale della decisione, tale collegialità risulta smentita nel caso Gregoretti dalle acquisizioni documentali del Tribunale sopra specificate, oltre che dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

La vicenda Gregoretti avviene quando, rispetto al caso Diciotti, era mutato il quadro normativo di riferimento. Era stato infatti approvato il Decreto Sicurezza bis, n. 53/2019, del 16 luglio 2019, convertito in legge 8 agosto 2019, n.77, fortemente voluto dal Ministro dell’Interno, pertanto già in vigore al momento della vicenda Gregoretti. L’art. 1 si apriva, infatti, con la modifica dell’art. 11 del D.Lgs 25 luglio 1986 n.286, nel quale si introduceva il comma 1-ter del seguente tenore: «Il Ministro dell’Interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n.121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale». Si stabiliva così la competenza esclusiva del Ministro dell’Interno a «limitare e vietare ingresso, transito o sosta nel mare territoriale».

Il Decreto prevedeva, tuttavia, un’eccezione ai poteri (auto)attribuiti al Ministro di vietare l’ingresso in aree portuali e lo sbarco di navi, nel caso si tratti di «naviglio militare o navi in servizio governativo non commerciale».

Paradossalmente, è avvenuto che il Ministro dell’Interno abbia violato, consapevolmente, la norma della quale era l’autore, visto che il Decreto a sua firma nel luglio del 2019 era già stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale (n. 138 del 14/06/2019) ed entrato in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione, come stabilito dall’art. 18. Perché un fatto è certo: le navi della Guardia Costiera sono navi militari, che hanno il compito di pattugliare i mari e controllare la pesca entro le acque territoriali. Dunque, è ancora più paradossale che una nave militare battente bandiera italiana non possa entrare in un porto nazionale al fine di sbarcare i migranti raccolti da varie operazioni di soccorso, anch’esse eseguite da naviglio italiano (il peschereccio Accursio Giarratano e un pattugliatore della Guardia di Finanza). In precedenza il Ministro dell’Interno aveva sostenuto che le navi delle ONG battenti bandiera di altri Stati dovessero sbarcare nei porti di rispettiva appartenenza nazionale. E allora non si comprende dove mai dovesse attraccare una nave militare italiana se non nel porto del proprio Paese!

Se poi il vero obiettivo del divieto fosse stato, come appare più che verosimile, non tanto la difesa dei sacri confini della Patria, ma una forma malcelata di pressione nei confronti dell’Ue perché disponesse la immediata redistribuzione dei migranti, come condizione preliminare per l’autorizzazione allo sbarco, si ricadrebbe nella ben più grave ipotesi di reato prevista dall’art. 289-ter del Codice penale, secondo il quale: «Chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli 289-bis e 630, sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica o una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni. Si applicano i commi secondo, terzo, quarto e quinto dell’articolo 289-bis. Se il fatto è di lieve entità si applicano le pene previste dall’articolo 605 aumentate dalla metà a due terzi».

Come era prevedibile, la polemica si è spostata rapidamente dal piano politico al piano giudiziario. Dopo la definizione della Corte Costituzionale, che aveva deciso per l’inammissibilità del referendum sulla legge elettorale, «una delle ultime sacche di resistenza del vecchio sistema», seguiva l’attacco ai giudici italiani che «invece di arrestare e condannare spacciatori, stupratori e mafiosi» mettevano sotto processo lo strenuo difensore dei confini nazionali. In attesa di più specifiche indicazioni sui soggetti da perseguire e quelli da esentare da responsabilità penale, è il caso di ricordare, sommessamente, che l’azione penale è obbligatoria e che la legge è uguale per tutti, come sancito dalla Costituzione, anch’essa “una sacca di resistenza del vecchio sistema”?

 

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