“Viviamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non tutti abbiamo lo stesso orizzonte”: è uno dei miei aforismi preferiti; lo pronunciò (si ignora chi lo scrisse) Konrad Adenauer, uno dei padri fondatori dell’Europa.
È stato un giapponese, per la precisione un consulente aziendale, nato in Giappone ma probabilmente talmente sballottato per il mondo da un aereo all’altro da considerarsi ormai un apolide, a mettere a fuoco l’orizzonte nuovo che la globalizzazione si apprestava a plasmare. All’inizio degli anni Novanta, quel giapponese, Kenichi Ohmae, vide, mentre gli altri stavano lì sotto un cielo che non capivano più, il panorama della globalizzazione: la fine dello Stato-Nazione.
Fine della Nazione? Ma come? E i sovranisti allora? Riavvolgiamo il nastro: fine del Seicento.
Riuscite a immaginare l’Europa dell’epoca? Gli esseri umani si dividono in due schiere. Da una parte chi conta – e chi conta, all’epoca, è chiaro ed evidente: è ritratto nei dipinti dei vari Goya, Rembrandt; porta baffi lunghi e laboriosi, veste abiti inutilmente elaborati, inadatti a svolgere qualsivoglia attività pratica (e, infatti, l’intento simbolico dell’abito risiedeva proprio nel renderne evidente questo carattere); passa, poi, del tempo a svolgere mansioni slegate da utilità reale (vedi sopra), salvo farsi la guerra – che però, sono altri a combattere, perché lì ci si sporca. Dall’altra parte siede chi non conta: la maggioranza degli uomini; quelli che, se si affacciano nei quadri dei vari fiamminghi, post-caravaggeschi e compagnia, fanno scandalo perché lì, nei quadri, il posto è riservato a quegli altri. Bene; al termine di una di quelle lunghe, sanguinose e costose (perché, al tempo, si usavano i mercenari per combattere) scie di guerra, che all’epoca monopolizzavano la Storia, ci si mette d’accordo per farla finita.
Succede in un posto che si chiama, all’italiana, Vestfalia. Lì si disegna un nuovo ordine mondiale – sì, mondiale, perché, nel Seicento, Europa e mondo coincidevano ancora quasi perfettamente – e si definisce il concetto di “Stato assoluto”: una porzione di territorio, con un nome, un capo (solitamente un re) e, per far girare il tutto, la pressione fiscale a raccogliere denari e una burocrazia professionista a gestirli – in nome e per conto di Sua Maestà/Santità. Gli storici appaiono concordi nel dire che l’idea di Stato-Nazione moderno, sostanzialmente, germina lì. Senza Vestfalia, insomma, niente Stato-Nazione.
Veniamo, dunque, all’oggi e a un’indagine Eurispes che due ricercatrici russe – Svetlana Varlamova e Anna Doroshina – hanno condotto su un campione statistico di circa 1.300 giovani fra i 18 e i 30 anni. Leggendone le risultanze, la sensazione di fondo che ne traiamo è che, forse, il Sovranismo è un valore (valore?) già vecchio, a dispetto della sua recente apparizione sul palcoscenico mediatico-politico nostrano. Le due studiose hanno scandagliato la struttura valoriale di riferimento dei giovani adulti che vivono in quattro Stati-Nazione europei: Germania, Italia, Polonia e Russia.
La prima questione concerne il perché abbiano messo assieme proprio questi paesi e non altri. Come aggregato, sostengono le ricercatrici, questi Stati-Nazione rappresentano un oggetto di osservazione di un certo interesse: hanno vissuto il cristianesimo –“radice comune” dicono loro – ma nelle tre interpretazioni principali che l’uomo ne ha prodotto (cattolicesimo, ortodossia, protestantesimo); la loro struttura politica ed economica, poi, è frutto di diverse dinamiche evolutive (dalla sostanziale continuità italiana, alla riunificazione di assetti diversi propria della Germania, fino all’oscillazione fra modelli differenti vissuta, con i debiti distinguo, da Polonia e Russia).
Che siano, poi, delle Nazioni meno distanti di quanto le vicende di fine Novecento ci abbiano abituati a considerare, ce lo dice la musica classica: una manciata di decenni pre-novecenteschi, ha visto convivere il polacco Chopin, il russo Tchaikovsky, il tedesco Liszt e il nostro Rossini. Insomma, siamo gente che, nel profondo della propria struttura antropica, molto si somiglia e molto condivide.
Che forma ha l’orizzonte futuro che i giovani intervistati in questi paesi vedono di fronte a loro? Tre aggettivi sembrano esprimerlo, in sintesi: simile, ristretto, individualista. Simile, perché i sistemi dei valori dei giovani intervistati appaiono molto affini, per esempio: non sono religiosi; ritengono importante avere amici, affrancarsi dai genitori; hanno desiderio di famiglia ma non di figli.
Ristretto, perché il futuro non ha un campo lungo ma, letto come tempo di pianificazione sociale (ovvero il periodo deciso per la elaborazione dei piani di vita) tende a non superare gli 8 anni – un tempo decisamente più di breve che di lungo respiro.
Individualista, perché i valori dell’io registrano un consenso letteralmente schiacciante: l’io, inteso come autorealizzazione economico-professionale, è anche da tutti i giovani intervistati inteso come il solo artefice della costruzione sociale personale. Il sostanziale disinteresse della democrazia come valore, sembra completare il quadro come segno del disinteresse per la faccia pubblica della vita.
La globalizzazione ha già iniziato, insomma, a maturare i propri frutti culturali, allineando i sistemi di valori nazionali che – questa la tesi della ricerca – contribuiscono in maniera decisiva a definire la visione del futuro dei giovani.
Naturalmente emergono anche differenze nazionali nel grado di assimilazione di certi valori – ad esempio, la propensione al volontariato è molto superiore in Italia e Germania; il consenso alla democrazia bassissimo in Russia; l’interesse per la vita materiale bassissimo in Germania e via dicendo – ma esse hanno una forza maieutica ampiamente più debole di quella manifestata dai valori omogeneizzanti prima descritti. Ma questi appaiono, alla luce delle evidenze principali, poco più che dettagli. E così, come spesso capita quando si maneggia una buona ricerca, le domande stimolate sono più profonde e pregnanti delle risposte offerte.
Su tutte, una: quando questi giovani avranno lasciato il posto ad altri giovani e avranno preso quello delle attuali “pantere grigie” e della “generazione silente” – quindi, fra circa trent’anni – che fine avrà fatto lo Stato-Nazione figlio di Vestfalia?
L’afflato omogeneizzante della globalizzazione lo avrà diluito in una più ampia federazione politica, più forte a livello planetario nella difesa dei macro-interessi economici dei contraenti? Oppure lo Stato-Nazione, dopo una parentesi trentennale di apparente omogeneizzazione valoriale (e di costumi giovanili), avrà saputo riconsolidarsi, recuperando i distinguo antropici (micro)territoriali, così da risorgere ancora più consapevole della propria unicità storica di quanto non sia oggi?
Ci vediamo nel 2048 (…caspita, fra trent’anni arriva un quarantotto!).