I padroni delle nostre vite

Le misure che hanno paralizzato il Paese, lo spettro della crisi, il ritardo del Governo nell’applicare gli strumenti per arginare il dramma economico e sociale, hanno evidenziato, ancora una volta, le “storture” della Pubblica Amministrazione, scatenando l’ennesima polemica sulla burocrazia. Ci inseriamo, allora, nel dibattito, andando a curiosare tra le pagine del nuovo libro del Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, L’Italia del “nì” (Edizioni Minerva, 2019). Il Prof. Fara ha espresso e sottolineato più volte, nel passato, come la burocrazia si sia «ramificata avviluppando in una rete a maglie fitte l’intero Paese e diventando, di fatto, la vera padrona delle nostre vite». Ecco a seguire una sua riflessione sul tema.

«La burocrazia arriva dappertutto, influisce su tutto, tocca e regola in pratica ogni livello di attività sociale, soprattutto nel mondo contemporaneo. E su di essa, naturalmente, si scaricano le tensioni e l’astio di coloro, cioè tutti noi, che di volta in volta se ne sentono vittime.
In buona sostanza essa, almeno sino a qualche decennio fa, ha fatto da scudo al sistema politico caricandosi di responsabilità e colpe che, oggettivamente, appartenevano ai suoi datori di lavoro: i governi e i parlamenti i quali, dopo aver emanato le leggi, avevano bisogno di chi le applicasse e le facesse rispettare, soprattutto se sgradite. Insomma, un ruolo tecnico-specialistico neutro, di garanzia, del cittadino ma al servizio dei governi e comunque sottoposto al controllo politico. Tuttavia, col passare degli anni, complice l’incredibile incremento della produzione legislativa necessaria a regolare la nuova complessità sociale ed economica, la burocrazia si è via via specializzata nella ideazione, preparazione, somministrazione e gestione delle norme e dei regolamenti; e da esecutore si è trasformata prima in attore, poi in protagonista indispensabile, poi ancora in casta e, infine, in vero e proprio decisivo potere al pari, se non al di sopra, di quello politico, economico, giudiziario, legislativo, esecutivo, dell’informazione. La tradizione ci aveva consegnato due tipi di burocrazia: quella statale centrale e quella locale delle Amministrazioni territoriali.
Poi, con la nascita delle Regioni, con il moltiplicarsi di Enti e Istituzioni, con la creazione di nuove “autorità” e servizi, promossa da un processo di privatizzazioni surrettizie, essa si è ramificata avviluppando in una rete a maglie fitte l’intero Paese e diventando, di fatto, la vera padrona delle nostre vite.
Totalmente autoreferenziale, essa si riproduce in tutte le forme possibili senza più nessun effettivo controllo. Anzi, si può ben dire che è il suo “antico padrone” – il governo nazionale o regionale che sia – a dover soggiacere ai suoi diktat, pena il blocco della stessa attività legislativa e operativa. La riprova che questa teoria non sia del tutto infondata può essere ricavata dall’osservazione di quanto avviene anche all’interno delle Istituzioni europee, dove si è sviluppato un apparato burocratico non mastodontico sul piano numerico ma subdolo per l’intelligenza complicativa che lo caratterizza che è, insieme, motore e guida della Ue.
I dipendenti di Bruxelles sono circa 31mila, poco più di quelli del Comune di Roma: a rendere difficili le cose è la complessità crescente delle procedure. Un apparato che ha contribuito al progressivo svuotamento dei contenuti ideologici, politici ed economici dell’Unione e dei suoi organismi, a vantaggio di una iperproduzione di minuziose misure regolative che sembrerebbero rispondere più ai desiderata e agli interessi delle grandi lobby che non alle esigenze e alle attese dei cittadini europei. Ma non potrebbe essere altrimenti, considerando la pletoricità delle diverse Istituzioni europee e i diversi piani politici che si confrontano finendo per produrre vuoti decisionali automaticamente riempiti e gestiti dall’apparato.
Nello stesso tempo, una burocrazia che ingloba in sé il momento progettuale (la preparazione di leggi, misure, regolamenti); organizza i percorsi di approvazione, di emanazione e di applicazione; determina sanzioni; gestisce e distribuisce le risorse, non ha bisogno della politica se non come simulacro, come involucro che serve a salvare la forma. Nella sostanza, essa stessa si è fatta politica. Con la non piccola differenza che, mentre gli eletti dovrebbero lavorare per l’interesse dei cittadini, la burocrazia lavora soprattutto per se stessa e per la propria progressiva estensione, preoccupandosi comunque di costruirsi delle situazioni crescenti di immunità, organizzando barriere efficaci alle implicazioni connesse con l’esercizio diretto delle responsabilità.
Allora, i “padroni”, governi e parlamenti, vengono asserviti – esautorati dagli “specialisti” ovvero da coloro che dovrebbero esserne il sostegno. Ne sono un esempio gli scandalosi rimpalli di responsabilità – tra rappresentanti politici e delle Istituzioni pubbliche elettive e i dirigenti delle strutture amministrative di gestione del territorio – registrati puntualmente in occasione di calamità naturali. In generale, è proprio la parola “responsabilità” che sembra essere stata progressivamente cancellata dal vocabolario di gran parte dell’alta dirigenza pubblica. Nessuno è mai responsabile per le inadempienze, gli errori e le omissioni. Capita anche, talvolta, che i grand commis si lascino prendere la mano e, uscendo dal riparo dell’ombra nella quale solitamente preferiscono operare, decidano di offrirsi al lavoro in prima linea, assumendosi la responsabilità anche della guida di qualche governo più o meno tecnico, con i risultati che a tutti sono noti. Almeno per quanto riguarda l’Italia» (Aforisma 59, 2015).

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