*Da Vincenzo Macrì, autorevole ex magistrato, riceviamo e volentieri pubblichiamo.
In un articolo a firma di Luciano Violante, apparso su la Repubblica dell’8 luglio, pag. 28, dal titolo “I giudici e la politica debole”, si legge testualmente: «La magistratura deve esercitare i poteri che la politica le attribuisce per garantire la libertà e i diritti dei cittadini da ogni aggressione e il Parlamento deve definire con chiarezza i confini tra la sovranità della politica e l’indipendenza della giustizia». Questo, secondo l’Autore, sarebbe il modello “sulla carta”; nella pratica, invece, accade che una politica debole abbia consentito alla Magistratura penale di debordare dai propri limiti e attribuirsi compiti incongrui come vigilare sulla moralità di cittadini e Istituzioni, criminalizzare categorie economiche e amministrative e via dicendo, anche attraverso l’uso di comunicazioni giudiziarie che anticipano valutazioni di colpevolezza con danni enormi per la reputazione di cittadini e imprese. In conclusione, «solo il riassetto dei poteri può ricostruire una fase di normalità costituzionale».
Pur nel doveroso rispetto dell’autorevole rappresentante della Magistratura prima e della vita politica poi, è necessario senza timori reverenziali, sottolineare che le tesi esposte nell’articolo, si collocano decisamente fuori dal quadro costituzionale.
Non è, infatti, la Politica che attribuisce alla Magistratura i poteri che essa deve esercitare, ci mancherebbe altro. Non siamo in un Paese di democrazia illiberale, ma è la Costituzione che li stabilisce e non sono ammissibili deroghe. Analogamente, non è il Parlamento che deve definire i “confini” tra la sovranità della politica e l’indipendenza della giustizia. La “Politica” non può e non deve interferire nei poteri della Magistratura e, quando lo fa, si apre un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato che spetta alla Corte Costituzionale risolvere. I confini sono quelli stabiliti dalla Carta costituzionale e sono invalicabili anche per il Parlamento. Né può sostenersi che le Camere potrebbero modificare tali rapporti con la procedura di revisione, regolata dall’art. 138 Cost., visto che l’actio finium regundorum sarebbe, a sua volta, incostituzionale se venisse a intaccare il principio della separazione dei poteri, che costituisce uno dei pilastri dello stato di diritto.
Che poi la giustizia svolga, in particolari contingenze storiche, azione di supplenza in materia di tutela dei diritti, dell’ambiente, di contrasto alla corruzione, criminalità organizzata e terrorismo, lo fa pur sempre in presenza di ipotesi di reato, in ossequio all’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost). A loro volta, Parlamento e Governo dovrebbero assicurare il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica amministrazione, come prescritto dall’art. 97 della Costituzione, attraverso una rigorosa attività di vigilanza e dettando regole di trasparenza ed efficienza, atte a prevenire fenomeni degenerativi di corruzione, spreco delle risorse pubbliche, inefficienze.
L’auspicio di un “riassetto dei poteri” che riassicuri il ritorno alla “normalità costituzionale”, oltre ad assumere oggettivamente un vago tono intimidatorio, risulta generico e, come tale, rischia di aprire un varco a proposte di riforme costituzionali di tipo autoritario (la Repubblica presidenziale con l’elezione diretta del Capo dello Stato, la stessa riduzione del numero dei parlamentari, la separazione delle carriere tra Magistratura inquirente e quella giudicante con sottoposizione della prima al Potere Esecutivo), delle quali non si avverte la necessità. Su argomenti di questa importanza, ogni spostamento dell’equilibrio tra poteri potrebbe avere conseguenze disastrose per le sorti della democrazia. Il popolo italiano, quello cui spetta la sovranità (art. 1 Cost.), ha già pronunciato il suo netto rifiuto sui due progetti di riforme costituzionali, sottoposti a referendum confermativi e questo dovrebbe ammonire chi ancora ritiene di mettere nuovamente mano all’architettura dei poteri disegnata in Costituzione.
Le attuali vicende che hanno interessato Magistratura e CSM hanno sicuramente indebolito la credibilità dell’istituzione giudiziaria dando la stura a polemiche pesantissime circa la sua capacità di autogoverno, soprattutto nella selezione dei dirigenti degli uffici, le cui nomine appaiono il risultato di accordi correntizi che coinvolgono anche settori politici; quando invece dovrebbero avvenire secondo criteri ispirati unicamente a meritocrazia e trasparenza.
Violante segnala ancora “gli effetti criminalizzanti” connessi a comunicazioni giudiziarie teoricamente dirette a tutelare il cittadino. Non è chiaro a quale istituto processuale egli faccia riferimento, visto che nel nuovo Codice di procedura penale di comunicazione giudiziaria non v’è cenno. Esiste invece l’informazione di garanzia (art. 369 C.p.p.) che va inviata all’indagato e alla persona offesa, per posta, in plico chiuso, con raccomandata con ricevuta di ritorno (quindi senza alcuna forma di pubblicità), solo nei casi in cui il pubblico ministero debba compiere atti ai quali i difensori delle parti private hanno diritto di assistere, come l’interrogatorio dell’indiziato, sequestri, perquisizioni, ricognizioni di persone, luoghi e cose. Essa, inoltre, deve tassativamente indicare le norme di legge che si assumono violate, la data e il luogo del fatto, l’invito a nominare un difensore di fiducia. Nessun effetto criminalizzante può dunque temersi da attività di indagine assistite da tassative e così stringenti garanzie difensive, sempre che siano assicurate le esigenze di rispetto del segreto investigativo.