L’escalation della tensione in Medio Oriente ha toccato uno dei livelli più allarmanti degli ultimi anni con l’uccisione del generale iraniano Qassem Suleimani. Il fulmineo raid in Iraq ha sicuramente sorpreso la comunità internazionale.
L’uccisione di Suleimani potrebbe cambiare in modo irreversibile i rapporti tra Stati Uniti e Iran, anche perché il governo iraniano l’ha definita «un atto di guerra». Gli Stati Uniti avevano, però, da mesi intensificato la pressione politico-diplomatica e mediatica sul dossier iraniano dando vita, nel convulso svolgimento globale degli affari militari internazionali, ad una campagna propagandistica diretta a screditare in Occidente l’Iran ed allertare gli alleati della Nato a dismettere ulteriori tolleranze, per opportunismi commerciali, verso il regime di Teheran. Il Presidente Trump aveva più volte tuonato contro gli Ayatollah con quella forma di comunicazione diretta rappresentata dai suoi tweet. Usando Twitter come grimaldello disintermediatore per scardinare l’accortezza e l’eleganza dello stile comunicativo della diplomazia del Novecento, Trump ha sempre inteso differenziarsi dal predecessore Obama che, invece, aveva evitato di stravolgere senso e misura del lessico politico, adeguandolo solo ai tempi di Internet.
Ma perché l’amministrazione Trump ha scelto di eliminare così clamorosamente il generale più in vista dell’apparato militare iraniano?
In primis, la superpotenza americana ha voluto ricordare al mondo che il disimpegno militare degli Stati Uniti sugli scenari internazionali, più volte evocato da Donald Trump, non potrà mai giungere al punto di destrutturare il controllo e l’impatto statunitense su territori considerati geostrategici da tutte le potenze globali in campo.
In secondo luogo, i consiglieri strategici e militari di Trump, sin dall’insediamento del tycoon alla Casa Bianca, vedono come fumo negli occhi l’attivismo dell’Iran in Medio Oriente e, come noto, meditano da tempo di dare una “lezione” al regime degli Ayatollah, considerato un avamposto illiberale e minaccioso sia per Israele sia per gli Stati del blocco sunnita capeggiato dall’Arabia Saudita, paese da decenni legato a filo doppio con l’establishment militare e finanziario statunitense.
In terzo luogo, l’attacco all’Iran riflette la necessità degli Stati Uniti di arginare le mire della Russia sul Medio Oriente, dopo la vincente riaffermazione dell’influenza di Mosca sulla Siria, ormai praticamente riconsegnata ad Assad dopo anni di guerra civile. La guerra in Siria si è rivelata un “cavallo di troia” per le ambizioni americane stante l’incapacità di affidare ad un regime più amico le leve di potere allentate da un Assad indebolito.
Chi era il generale ucciso
Suleimani aveva 62 anni e dal 1998 era il capo delle forze Quds, corpo speciale delle Guardie Rivoluzionarie, specializzato in operazioni all’estero. “Quds” significa in arabo “Gerusalemme”, che i combattenti di questa unità hanno promesso di liberare. Personaggio per anni quasi misterioso, Suleimani era influente, dal carattere schivo ma carismatico. Con i suoi interventi nella guerra in Siria e più di recente in Iraq, Suleimani era diventato noto nel mondo e molto potente in patria. Essendo uno degli uomini più vicini alla Guida suprema Ali Khamenei, si prefigurava per lui un possibile ruolo da futuro leader politico del paese.
Militare non ostile agli americani nella guerra in Afghanistan, nel 2002, passò ad essere, complice l’inclusione di Bush figlio dell’Iran tra i paesi dell’“Asse del male”, uno dei più acerrimi nemici di qualsiasi ulteriore accordo con gli Stati Uniti. E infatti, da allora, il rapporto tra Iran e Stati Uniti è risultato, a dir poco, compromesso.
L’anno successivo gli iraniani e quindi Suleimani si opposero all’intervento degli Stati Unit in Iraq. Una volta sconfitto Saddam Hussein, e formato il primo governo provvisorio iracheno, Suleimani capeggiò in Iraq una serie di sabotaggi e attentati, e per anni si mise alla testa di milizie sciite autonome, addestrate in Iran con l’aiuto di Hezbollah, che si distinsero rispetto a quelle già presenti, l’Esercito Mahdi e le Brigate Badr.
Ritroviamo anni dopo Suleimani in Siria, nella guerra civile, a tramare ancora. Stavolta per far ritornare Damasco sotto il controllo di Bashar al-Assad, leader politico tra i più vicini a Teheran in Medio Oriente. L’intervento diretto iraniano è poi avvenuto dopo un decisivo gesto di Assad: lo scambio tra 2 mila ribelli catturati e 48 combattenti Quds iraniani catturati dai ribelli. Da lì in poi la presenza di combattenti Quds in Siria, unita a un’altra serie di aiuti, soprattutto finanziari e militari, concessi dall’Iran al regime di Assad, è divenuta nota.
Più volte volato in visita a Damasco, Suleimani ottenne importanti vittorie militari. Si deve alle sue milizie la riconquista di Qusayr, strategica città vicina al Libano, la cui presa ribaltò, nel luglio del 2013, l’andamento della guerra azzerando il vantaggio acquisito dai ribelli contro Assad. Negli ultimi anni le milizie iraniane sono state l’avanguardia offensiva al fianco di Assad come nella riconquista di Aleppo.
Iran e Stati Uniti, su fronti opposti per il controllo geoeconomico dell’Iraq
Diventate sempre più influenti, le milizie iraniane sono state guidate da un Suleimani sempre più potente. Più di recente, Suleimani aveva soccorso i protestatari in Iraq degli ultimi mesi, allo scopo di non perdere influenza e scongiurare un cambio di governo a Baghdad ostile a Teheran.
Oltre alle fortune belliche, le milizie di Suleimani presenti in Iraq – diventate ancora più potenti grazie alle vittorie militari contro l’ISIS – si sono impegnate a gestire ingenti affari economici riuscendo ad accaparrarsi il controllo dei progetti di ricostruzione postbellici e degli affari illeciti. Tutti questi interessi economici hanno convinto i leader iraniani della necessità di accrescere l’influenza in Iraq in funzione anti-americana. Si spiega, quindi, come siano stati miliziani filo-iraniani, con la tacita approvazione del governo iracheno, a partecipare al clamoroso assalto dell’ambasciata americana a Baghdad.
Particolarmente indigesto ai generali americani è stato il recente appoggio di Suleimani a Kataib Hezbollah, accusato di efferatezze contro uomini Usa.
I predecessori di Trump alla Casa Bianca avevano scartato per anni l’idea dell’uccisione di Suleimani, considerando l’azione foriera di una guerra tra Stati Uniti e Iran. Alla fine, Suleimani è stato ucciso per ordine diretto di Trump, che, senza informare il Congresso, si è limitato a pubblicare su Twitter una bandiera americana.