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La criptovaluta diventa “moneta di Stato”. Il caso del “petro”

di
Giovambattista Palumbo

Secondo un tweet del Ministro delle Finanze venezuelano, il presidente Maduro avrebbe ordinato al Banco de Venezuela, la banca principale del paese, di accettare la criptovaluta nazionale “petro” in tutte le sue filiali. L’annuncio è arrivato nel corso di un evento che celebrava il decimo anniversario della nazionalizzazione della banca in questione. Il 19 giugno scorso, lo stesso Maduro aveva annunciato che 924 milioni di bolivar (circa 92,5 milioni di dollari) erano stati stanziati per la Digital Bank of Youth and Students, affinché venissero aperti un milione di petro wallet per i giovani del paese. Questo, forse, anche in risposta alla mossa di Trump che, a marzo, aveva espressamente vietato ai cittadini statunitensi di acquistare la criptovaluta venezuelana.
Il petro, insomma, non ha un cammino semplice. Eppure, ha già compiuto quasi un anno e mezzo di vita, da quando cioè, a febbraio 2018, il Governo venezuelano ne aveva lanciato la prevendita per circa 100 milioni di coin, equivalenti a 6 miliardi di dollari, così diventando la prima criptovaluta moneta di Stato. Il petro (riconosciuto ufficialmente anche dall’Opec), tuttavia, non è una criptovaluta “tradizionale”, essendo garantita dalle riserve petrolifere e auree del paese, che, almeno nei proclami, ne dovrebbero assicurare una maggiore stabilità, correlando peraltro il prezzo a quello di un barile di petrolio venezuelano.
Insomma, il petro è più simile al normale denaro e agli strumenti finanziari convenzionali (una sorta di future petrolifero senza specifica data di consegna) piuttosto che alle criptovalute vere e proprie. Anzi, a ben vedere, rappresenta un vero e proprio ossimoro, laddove, se le criptovalute “tradizionali” (a partire dal bitcoin) rispondevano, sostanzialmente, ad un principio di anarchia finanziaria, basato su un sistema peer to peer, senza controlli e regolatori, la criptovaluta di Stato rappresenta invece proprio il tentativo di “imbrigliare” quella tecnologia nei fini del regolatore, che così, (ri)assume il controllo della moneta. E, infatti, non sono pochi i paesi che si stanno avviando sulla medesima strada. A partire dalla Cina, che ha deciso di lanciare una propria criptovaluta nazionale: uno yuan digitale, che dovrebbe sostituire i soldi contanti in circolazione. Per finire a Cuba, che sta studiando come introdurla (sembra che la criptovaluta cubana potrebbe essere intitolata ad Ernesto Che Guevara), anche in questo caso (come per il Venezuela) al fine di aggirare le sanzioni statunitensi e raccogliere risorse sui mercati finanziari internazionali, altrimenti preclusi. E perfino in Iran, lo scorso febbraio, quattro istituti finanziari della Repubblica islamica (Parsian Bank, Bank Pasargad, Bank Melli Iran e Bank Mellat) hanno rilasciato una criptovaluta, chiamata PayMon, garantita dalle riserve auree. Insomma, un fenomeno in evoluzione e difficilmente immaginabile dagli ideatori delle criptovalute, che si ispiravano alle teorie del libertarianesimo.
L’idea era semplice: inventare del denaro di cui nessuno potesse avere il monopolio e che potesse essere regolato solamente dal libero mercato. Ora, però, le stesse valute digitali rischiano di diventare proprio uno strumento per esercitare un controllo finanziario totale da parte di quegli stessi Stati contro i quali le criptovalute, in sostanza, operavano.

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