Negli ultimi anni il dibattito sul lavoro futuro si è fatto molto intenso. I toni sono divenuti sempre più cupi, di pari passo con una metamorfosi: il progresso del digitale che da innovazione è andato assumendo la forma della rivoluzione. La boutade di Marc Andreessen, “il software si mangerà il mondo” sembra sempre più un’oscura, realistica, profezia. La globalizzazione ha messo sul medesimo piano due geografie, profondamente differenti. Da un lato, c’è una mappa planetaria: vi abitano il progresso tecnologico (il quale avviene ovunque) e l’offerta di lavoro, sempre più mobile e considerevole fonte di vantaggio competitivo comparato. All’opposto, c’è una mappa locale: vi dimorano la cultura, le norme e le tasse che danno forma al lavoro. Questa asimmetria dello spazio si verifica anche per il tempo, il cui scorrere sembra essere disomogeneo: rapido e accelerato per il progresso tecnologico, lento e rallentato per le regole.
Globale versus Locale, Rapido versus Lento, appaiono così i termini entro i quali il lavoro futuro viene vissuto come un’emozione sempre più negativa. Pensiamo al caso dei giovani: coloro ai quali, per definizione, il futuro appartiene. Nel nostro Paese la situazione è notoriamente grave: il venire al pettine di molti nodi strutturali, complice anche la successione di crisi economiche dal 2008, ha prodotto un panorama desolante. Il livello di disoccupazione giovanile è elevatissimo ‒ ben oltre il 30% secondo recenti stime Eurostat ‒ cui si affianca il poco invidiabile primato dei Neet (Not (engaged) in Employment, Education and Training), stimati dall’Istat in oltre 1,3 milioni fra i 15 e i 24 anni.
Data questa condizione di partenza, la digitalizzazione è da intendersi come un’opportunità per i giovani, oppure come l’ennesima minaccia al loro lavoro? Ovviamente la risposta corretta è: dipende. Una metafora aiuterà a meglio capire. S’immagini una bella piscina, ai cui bordi siano disposti dei lettini e delle sedie. L’accesso alla piscina non è libero, in quanto ha una capienza limitata e sostanzialmente non incrementabile, se non trasformando la struttura stessa dell’impianto. Affollano l’impianto cinque distinti gruppi di giovani: a) quelli che hanno l’abbonamento a vita, ricevuto in famiglia; b) quelli che sono riusciti ad acquistare il biglietto giornaliero; c) quelli che hanno acquistato un biglietto orario e sono in fila, fuori dal cancello, in attesa che qualche posto si liberi, per poter entrare; d) quelli che sono in fila per acquistare il biglietto; e) quelli che hanno rinunciato ad acquistare il biglietto.
La decifrazione della metafora è presto fatta. La piscina è la condizione di occupazione lavorativa: fissa nel breve periodo e accessibile solo a chi sia in possesso di un titolo adeguato. I primi due gruppi sono i probabili beneficiari della digitalizzazione. Persone che hanno una certa consapevolezza e visione di come evolveranno le professioni, nonché la possibilità di avere esperienze educative adeguate ad accedere alle migliori opportunità di lavoro. Il gruppo (a) possiede un significativo vantaggio su tutti: grazie alle condizioni familiari favorevoli può giocare d’anticipo sugli altri, avere il supporto dei migliori e non attendere per entrare. È la nuova super-élite del lavoro di cui parla l’Economist, coniando per essa un’etichetta apparentemente paradossale: “meritocrazia ereditaria”.
All’opposto, l’ultimo gruppo è quello degli (auto)esclusi: i Neet di cui già abbiamo detto. Il destino dei giovani del terzo e quarto gruppo è fortemente esposto a quale sarà la qualità della digitalizzazione del lavoro e la velocità del suo manifestarsi. Un aggregato che sembra essere il più numeroso e segnato da una frustrazione che già genera fenomeni preoccupanti che rischiano di aumentare in magnitudine: emigrazione intellettuale, abbandono educativo, e via dicendo. È soprattutto a loro che l’azione del policy maker deve guardare, agendo sul sistema educativo in primis. «Viviamo tutti sotto lo stesso cielo ma non tutti abbiamo lo stesso orizzonte», disse Adenauer. Occorre creare le condizioni perché ciascuno possa avviarsi verso il proprio orizzonte. Ne va della democrazia.