La pandemia da Covid-19 non ha avuto ripercussioni solamente al livello sanitario ed economico. Uno degli aspetti poco considerati, perché non immediatamente percepibile rispetto all’emergenza in atto, è stato quello dell’impatto ambientale che l’impiego di guanti e mascherine monouso, camici in plastica, protezioni facciali, stanno avendo e avranno (nel breve termine) sull’ambiente. Preoccupati di arginare il diffondersi dell’epidemia e di tutelare noi stessi, abbiamo cominciato a produrre ed utilizzare una quantità di dispositivi di protezione mai visti prima. La mascherina chirurgica, così come i guanti in lattice, sono stati fin dall’inizio consigliati e sponsorizzati, proprio perché in grado di fornire una protezione maggiore: il fatto di essere monouso e quindi cambiati anche più volte nel corso della giornata, garantisce (o almeno così ci sembra) una prevenzione igienica superiore rispetto a mascherine di tessuto o altri materiali.
La plastica è sicuramente un elemento essenziale nella società contemporanea, in quanto materiale ampiamente disponibile e poco costoso. Per questo buona parte dei dispositivi di protezione individuale usati nel mondo sono progettati per essere monouso, prodotti con una gamma di materie plastiche differenti – polipropilene, polietilene e simili – e, una volta gettati, vanno ad incrementare lo spaventoso numero di rifiuti in plastica che già produciamo quotidianamente. Questa è la nota dolente: tali materiali non possono essere riciclati – poiché sono dispositivi sanitari potenzialmente pericolosi per la salute pubblica in quanto veicolo di trasmissione del virus (che sulla plastica sopravvive per 3 giorni) – ed impiegherebbero ben 450 anni per decomporsi completamente. Per questo, i rifiuti vengono accumulati nelle discariche, in attesa di essere inceneriti, contribuendo a sprigionare nell’ambiente una serie di fumi altamente dannosi. Capita inoltre sempre più spesso, per l’incuria delle persone, di vedere abbandonati in parchi, mari o spiagge guanti e mascherine, al pari degli altri rifiuti in plastica.
I dati relativi all’impiego di guanti in lattice, mascherine, camici e altri strumenti di protezione sono allarmanti: secondo uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology[1] dall’inizio della pandemia sono stati buttati ben 194 miliardi di dispositivi di protezione individuale al mese, 129 miliardi di mascherine e 65 miliardi di guanti. La cattiva gestione di questi dispositivi, unito ad un errato smaltimento, stanno provocando una diffusa contaminazione ambientale. L’inquinamento dei mari a causa della dispersione di materie plastiche rappresenta oggi una delle maggiori emergenze ambientali per il Pianeta. Secondo l’ultimo rapporto del WWF[2] la plastica è diventata onnipresente nel Mediterraneo e ogni anno 570mila tonnellate di plastica entrano in mare con effetti devastanti sull’ecosistema marino. Uno studio pubblicato il 23 luglio da SystemIq[3], prevede che il flusso di plastica negli oceani triplicherà entro il 2040, raggiungendo i 29 milioni di tonnellate all’anno se non verranno prese misure immediate. Si dovrebbe, infatti, avviare un nuovo ciclo di gestione dei rifiuti, puntando su una progressiva riduzione e sostituzione della plastica, in modo da poter affrontare efficacemente la catastrofe ambientale cui si va incontro. Solo così, secondo le stime, in 20 anni si riuscirebbe a ridurre di oltre l’80% la produzione potenziale di rifiuti in plastica. La sfida è aperta, e consiste nel rifondare le basi di un’economia circolare, basata sul riciclaggio, sulla sostituzione e sulla progressiva eliminazione di questo materiale dalla filiera di produzione ed imballaggio.
Nel Rapporto Italia 2020[4] dell’Eurispes gli italiani si mostravano consapevoli dei rischi e del livello di gravità dell’emergenza ambientale; tuttavia, pur consapevoli della necessità di adottare un improrogabile orientamento “plastic free”, non nascondevano la difficoltà di fare a meno della plastica nella vita di tutti i giorni. Gli italiani scelgono di acquistare sempre di più prodotti eco-friendly, come prodotti biodegradabili (25%), riciclabili (15%), realizzati con materiali riciclati (13%) o con energia da fonti rinnovabili (11%). Preoccupa ancora, però, quel 33% degli italiani che ammette di far fatica a rinunciare all’acqua in bottiglia, o quel 27% che non riesce a fare a meno delle pellicole trasparenti per gli alimenti. Pochi sono, inoltre, a conoscenza dell’allarmante dato del WWF secondo il quale ogni settimana, a causa dell’inquinamento, ciascuno ingerirebbe una quantità di microplastiche pari ad una carta di credito di plastica da 5 grammi.
I dati mostrano una crescente consapevolezza nei confronti dell’emergenza ambientale, nonché la disponibilità dei consumatori a rivolgere l’attenzione verso prodotti nuovi ad impatto ambientale ridotto o pari a zero. Tuttavia, l’altra faccia della medaglia costringe ad ammettere che l’attuale mercato è saturo di prodotti in plastica, nel quale il consumatore – per pigrizia, abitudine o costi troppo elevati – fatica ad abbandonare l’amato ed economico imballaggio. L’emergenza sanitaria non ha fatto altro che accentuare ancora di più il problema, con l’immissione di tonnellate di plastica non riciclabile nell’ambiente. È doveroso, oggi, intervenire prontamente, e pur non sottovalutando l’importanza della plastica nella prevenzione della trasmissione del virus, è necessario non compromettere i recenti progressi compiuti nell’ambito di un’economia sostenibile e riciclabile. Se non possiamo cambiare immediatamente il ciclo di produzione e diffusione, possiamo almeno ridurne l’impatto, impiegando magari dispositivi di protezione individuali in stoffa laddove possibile, o rafforzando la consapevolezza sul corretto uso e smaltimento dei rifiuti sanitari., Quando la pandemia sarà finita, riusciremo a riparare i danni che nel frattempo si stanno producendo?
[1] https://pubs.acs.org/doi/abs/10.1021/acs.est.0c02178
[2] https://d24qi7hsckwe9l.cloudfront.net/downloads/pandemie_e_distruzione_degli_ecosistemi.pdf
[3] https://www.systemiq.earth/breakingtheplasticwave/
[4] Eurispes, Rapporto Italia 2020, Scheda 20, ”Italiani e packaging: se l’imballaggio non è sostenibile, meglio non acquistare”