Se “The Post”, il film di Steven Spielberg, è stato definito “una lettera d’amore al mestiere del giornalista”, un libro uscito da poco muta questo amore in passione. Al centro c’è ancora una donna, non più Katherine Graham, la proprietaria del Washington Post, che nel 1971 ebbe il coraggio di pubblicare i “Pentagon Papers” che smascheravano le bugie del governo sulla guerra in Vietnam. No, dobbiamo andare indietro di circa un secolo, quando entra in scena Elizabeth Cochran, in arte e per tutti Nellie Bly, la prima giornalista investigativa americana. E’ imperdibile “Dove nasce il vento”, scritto per Bompiani da Nicola Attadio (204 pagine, 16 euro), una biografia che sembra un romanzo, eroico e commovente.
Figlia di un giudice onorario, che la madre aveva sposato in seconde nozze, rimasta orfana a sei anni di quel papà che adorava, e che purtroppo non aveva lasciato un testamento, Elizabeth affronta un’infanzia e un’adolescenza durissime: povertà, impossibilità di chiudere il ciclo scolastico, un patrigno violento. La sua vocazione per il giornalismo si rivela a Pittsburg, la città mineraria in cui ora vive assieme alla madre. Il giornale locale, Il “Dispatch” pubblica dei corsivi che relegano la donna in un ruolo subalterno. Lei reagisce e scrive da “free american girl”, come si sente, una lettera di protesta, firmandosi “ragazza orfana e sola”, Lonely Orphan Girl. Non pubblicano la lettera, ma un annuncio che le chiede di presentarsi in redazione. Ed è così che comincia la carriera di Elizabeth.
Perché il suo nome le viene cambiato d’imperio? Perché le donne, all’epoca, se giornaliste, potevano scrivere solo attraverso un nickname. E perché Nellie Bly? Per riprendere una vecchia canzone americana scritta dal padre della musica folk, Stephen Foster, che diceva “Nelly Bly ha un cuore caldo come una tazza di tè e più grande delle dolci patate del Tennessee”. Soltanto che il redattore che lo propose storpiò Nelly in Nellie, che le rimase attaccato per sempre. Ma c’è un secondo travestimento di cui Nellie Bly fu invece la creatrice assoluta: l’inchiesta sotto copertura. Fingersi cioè “non giornalista” assumendo l’identità giusta per poter avere accesso a verità, racconti, documenti, che altrimenti non avrebbe mai potuto rivelare al lettore. Si finge operaia per accedere a quegli ostelli, gestiti da organizzazioni cristiane, in cui le ragazze che lavorano vengono accolte, senza attenzione, senza affetto, senza amore, lasciando che si ubriachino o che finiscano a letto col primo che capita. Il suo articolo esce sul domenicale del “Dispatch” una domeinca del 1885 e conquista valanghe di lettori.
L’anno dopo, a 22 anni ancora da compiere, riesce a farsi inviare in Messico per una grande inchiesta su quel paese. Dopo cinque mesi di straordinarie corrispondenze, deve uscirne di corsa, inseguita dalla polizia del presidente Diaz, per aver scritto, fra l’altro, che la stampa locale è a lui asservita. Per “Il Dispatch” Nellie è una presenza importante, che aumenta di molto le vendite, ma anche ingombrante, e il direttore la relega così alle pagine di costume. Lei non accetta questo ghetto e decide di fare il grande balzo.
Andrà a Manhattan, e si presenterà al direttore del grande giornale “The New York World” con una proposta sconvolgente: fingersi pazza e riuscire a farsi internare al manicomio femminile “Blackwell’s Island”, che sarà il capolavoro del suo giornalismo undercover. Molti medici la analizzano, ma lei riesce a superare il loro esame, per poter descrivere, compagna per dieci giorni di altre sventurate, i maltrattamenti che quelle donne debbono subire. Un’inchiesta che farà clamore e costringerà le autorità a correre ai ripari migliorando radicalmente le condizioni interne. E lei, a 23 anni, è la giornalista più conosciuta d’America.
Poi un’altra sfida clamorosa, compiere il giro del mondo in meno degli 80 giorni descritti nel romanzo di Jules Verne, scrittore che conoscerà a Parigi. Nellie ci riesce, realizzando l’impresa in 73 giorni. Tanti altri stunt, come venivano chiamati quei colpi giornalistici, il matrimonio con un anziano uomo d’affari, l’abbandono momentaneo della professione, il tentativo di costruire una fabbrica modello e il ritorno al giornalismo, come corrispondente sul fronte della prima guerra mondiale. Morirà a New York quattro anni dopo la fine del conflitto, di nuovo povera e sola, come all’inizio della sua carriera. Attadio alterna al racconto della sua vita, frammenti di storia degli Stati Uniti, come ad esempio la nascita, nel 1893, del Movimento populista. La storia si ripete, e speriamo che anche il giornalismo ne sia all’altezza.
L’immagine di copertina si riferisce al manicomio femminile Blackwells Island
La foto di Nicola Attadio è di Tania Cristofari