In uno dei primi passi di quel lento pensiero lungo che è Modernità Liquida, il grande sociologo Zygmunt Bauman afferma: «alcuni degli abitanti del mondo sono in perpetuo movimento; per tutti gli altri, è il mondo che rifiuta di stare fermo». Con questa frase in mente, osserviamo lo scenario politico italiano. Mettiamo da parte gli occhi dell’emozione – quelli cioè che ci fanno parteggiare piuttosto che comprendere – e guardiamo bene: molto si muove, poco sta fermo.
Prendiamo ad esempio i partiti, ovvero i player dell’offerta politica nazionale. La Lega, vantando il ruolo di partito politico più longevo, fra quelli in campo, appare come l’unico punto fermo dello scenario competitivo: un tempo Lombarda, poi Nord, ora nulla (ma tutto), la Lega ha effettivamente attraversato oltre venti anni di storia politica italiana ed europea. Tutti gli altri hanno mutato forma e colore – e nemmeno una volta sola (!). Gli attuali soci governativi del Movimento 5Stelle hanno nel proprio codice genetico la rotazione dei protagonisti: lo Statuto esclude la possibilità di ricandidarsi per più di due volte e molte cariche interne – ad esempio quelle di Capogruppo – sono ricoperte a rotazione. Di Maio e Fico, per dire, sono quasi ai saluti.
Silvio Berlusconi, infine. Il capo del centrodestra si è spesso vantato di aver conosciuto (e, spesso, battuto) più leader del Partito Democratico – lasciando intendere che quella è una poltrona piuttosto traballante, a fronte della saldezza della propria. Stilare l’elenco dei leader democratici entrati (e usciti) è esercizio che fa una certa impressione.
Che dire poi dei consensi elettorali – oggi, come mai accaduto nella breve storia repubblicana – fluidi e volubili. I politologi parlano di flussi elettorali, intendendo appunto lo spostamento delle scelte di voto fra le varie tornate. Un vero e proprio caso di studio è quello del PD renziano – che dimezza le percentuali di consenso dalle Europee del 2014 alle Politiche del 2018. Caso unico? Lo vedremo. A noi non pare azzardato rappresentarlo come un possibile new normal della politica italiana; e, del resto: chi l’ha patito ieri lo augura ai propri avversari e, viceversa, chi è al governo del Paese lo vede come spauracchio, reale e concreto, che galleggia laggiù, sull’orizzonte del proprio futuro. A consolidare l’idea che questa sia la nuova dinamica del consenso, vale probabilmente l’esperienza personale di molti: chi non conosce persone che dichiarano, ormai senza remora alcuna, di aver cambiato parte politica più volte?
Partiti, leader, protagonisti, consensi: la politica italiana sembra proprio un “mondo in movimento”. Ma se, invece, fosse la società che “rifiuta di stare ferma”, costringendo la politica ad arrancargli dietro, mutando di forma?
Non è una questione oziosa. Impostare l’analisi in questi termini aiuta, secondo noi, a capire qualcosa di certe crisi identitarie e, di contro, di talune straordinarie performance.
I risultati elettorali delle ultime politiche – con la scia lunga del consenso sondaggistico che ancora permane- sembrano indicare che i principali player in competizione – i pentastellati e leghisti da un lato e i democratici, dall’altro – incarnino i due stati opposti. Il perché si capisce osservando, ad esempio, il modo in cui il Movimento e il PD sembrino considerare la propria base di consenso: i primi la vedono come un grande grappolo, fatto di acini, simili ma non identici, ciascuno rappresentante una precisa istanza antagonista; i secondi la intendono come un vasto sottoinsieme dell’intero corpo elettorale, fatto di individui che dovrebbero trovare, nella condivisione di idee e valori, il comune denominatore. La visione pentastellata del grappolo, appare oggi decisamente in vantaggio su quella democratica del segmento – e non potrebbe essere altrimenti, in epoca di individualismo imperante. Il Movimento può chiamare a raccolta, infatti, offrendosi di rappresentarle con la medesima verve, istanze anche molto differenti fra di loro: deep ecologist, antagonisti economici, delusi, frustrati, NEET, eccetera. Si viene a comporre così un aggregato di individualismi che ha forma costante – il grappolo – ma componenti variabili, fluide: “in perpetuo movimento”. Tutto ciò sfugge e rifugge alla filosofia che anima l’offerta politica dei democratici; è un pensiero che, sebbene si ammanti di post-ideologismo, non riesce a uscire dalla “logica gravitazionale”, dalla dinamica maieutica: io ti offro una visione e dei valori e tu aderisci, concorrendo così a popolare un gruppo omogeneo di individualismi a cui viene chiesto di annullarsi nel segmento.
Grappoli contro segmenti; fluidi contro solidi; individui contro collettivi. La massa, quel termine che esprime una moltitudine, un coacervo, un amalgama – indistinto al suo interno ma ben definito verso l’esterno – è un quid che non c’è più, lo sappiamo. In politica come nel sociale, si è liquefatto, frammentato, dissolto.
Dove risiederà allora il senso della competizione democratica dei prossimi anni? Nei soggetti liquidi, “in movimento”, d’ispirazione web-erista (nel senso della Rete, non del sociologo Weber), aggregatori di grappoli? Oppure nei portatori di una proposta di valore che, inseguendo “un mondo che rifiuta di stare fermo”, puntano alla maieutica degli individui per costruire così dei segmenti di elettorato? A ciascuno il compito di immaginare la risposta giusta.