Lo shock da Covid-19 può essere una pietra tombale sulle speranze delle aree depresse del Mezzogiorno oppure – con azioni giuste e scelte lungimiranti – può diventare il trampolino di lancio per una “partenza nuova”. Non c’è dubbio che l’Italia e gli italiani nei momenti più bui abbiano dimostrato di avere risorse morali e progettuali tali da permettere loro di superare ostacoli enormi e rimettere in moto il Sistema Paese.
Pensiamo al secondo dopoguerra e a quello che siamo stati in grado di fare in tutti i settori, dall’industria al cinema, dalle grandi infrastrutture alla diffusione del Made in Italy nel mondo. Oggi dobbiamo ricostruire le condizioni di un rinnovato fermento economico, sociale e culturale. Il Recovery Fund, almeno dal punto di vista mediatico, è un risultato di un certo impatto sull’opinione pubblica. Ma lo è solo sulla carta: per diventare un grande risultato dal punto di vista economico e sociale deve essere corredato da progetti e strategie validi, efficaci e credibili, altrimenti rischia di trasformarsi nell’ennesimo cahier de doléances, in un elenco di opportunità perdute.
Al di là di un’euforia post vertice europeo – comprensibile, ma fuori luogo – i dati sono preoccupanti. Analizzando gli effetti dell’emergenza Covid-19 sul nostro Paese, lo Svimez rileva che, pur essendo previsto nel 2021 un crollo del Pil più forte al Centro-Nord (-9,6%) rispetto al Mezzogiorno (-8,2%), proprio nel Sud Italia sarà più marcato l’impatto occupazionale, con una perdita di 380mila posti di lavoro. Per il 2021, inoltre, il Mezzogiorno sarà frenato da una ripresa “dimezzata”, con un Pil a +2,3% contro il +5,4% del Centro-Nord. Questi numeri vanno valutati alla luce di quanto già evidenziato dal Rapporto Italia dell’Eurispes che, spazzando via la narrazione consolidata su un territorio meridionale sprecone e divoratore di risorse pubbliche, ha dimostrato che dal 2000 al 2017 il Sud ha subìto uno “scippo” di oltre 840 miliardi di euro in termini di spesa pubblica pro capite (in media, circa 46,7 miliardi di euro l’anno).
Tornando alla riflessione iniziale, il punto è: come riempire di contenuti e progettualità una “partenza nuova” per il Mezzogiorno, alla luce delle previsioni fosche per l’immediato futuro e le oggettive ingiustizie, in termini di investimenti pubblici, subite nel passato recente? Ovvero, come possiamo trasformare una situazione di svantaggio in una di possibile vantaggio per il Sud Italia, anche in relazione alla “partenza nuova” alla quale in qualche modo ci obbliga il Recovery Fund?
Partiamo dal presupposto auspicabile (e ottimistico) che l’Italia sia in grado di elaborare una progettualità tale da permettere al Sistema Paese di rispondere allo shock Covid-19 con un’azione coordinata in vari settori strategici (alta velocità, copertura diffusa della banda ultra-larga, lavoro e taglio delle tasse, ad esempio). Le aree meno vitali del Mezzogiorno rischiano di non essere pronte, di non trarre alcun beneficio da un’azione di ripresa nazionale e di essere una pesante zavorra per il resto del Paese. Per mettersi al passo occorre un impegno supplementare, bisogna bruciare le tappe e avviare velocemente il cammino verso quei passaggi obbligati che permettono di abbattere tre macigni che, come le tre Moire, le dee del destino nella mitologia greca, sono lì da decenni a ostruire i passaggi che permetterebbero al Sud di affrancarsi da un futuro di sottosviluppo apparentemente ineluttabile.
Il primo passaggio da liberare per il Sud porta sulla strada della sburocratizzazione e della rivoluzione “culturale” e tecnologica nella Pubblica amministrazione. Esiste un problema di competenze all’interno degli apparati pubblici, che derivano da una selezione drogata ab origine e dal cattivo funzionamento dei meccanismi di formazione e aggiornamento. Anche se si procedesse velocemente con la digitalizzazione del sistema amministrativo e con la modernizzazione delle procedure, comunque i dipendenti pubblici (ma anche le fasce dirigenziali) soprattutto nel Mezzogiorno, molto spesso, non dispongono delle competenze informatiche di base. Si aggiunga che in Italia – e in misura forse maggiore nelle regioni meridionali – per chi opera nelle Pubbliche amministrazioni è molto più conveniente stare fermi, fare nulla: l’inerzia non comporta rischi e soprattutto è premiale in termini di avanzi di carriera, bonus, riconoscimenti. In questo contesto la burocrazia che sguazza nelle procedure farraginose finisce con l’alimentare le occasioni di corruzione e di malaffare. Ancora oggi si torna a parlare delle troppe leggi, dei troppi vincoli e meccanismi fuori da ogni contesto che devono essere in qualche modo disciplinati e semplificati. Certamente il dibattito è ancora troppo generico e non coglie l’essenza dei problemi. Sarebbe opportuna, da questo punto di vista, l’istituzione di una Commissione speciale di natura parlamentare che si occupi con pieni poteri della questione, riportando il nostro Paese in linea rispetto a quanto accade negli altri principali Stati europei.
Il secondo passaggio obbligato di un Mezzogiorno e di un Paese che non vogliono restare fermi al palo è relativo al “capitale umano” e alla lotta alla povertà educativa. Rispetto ad un concetto generale di “crescita” o di “partenza nuova” questi aspetti non possono essere accessori, perché qualsiasi intervento economico che non si innesti su un tessuto sociale in grado di accoglierlo e farlo crescere si trasforma in mero assistenzialismo, com’è accaduto fino ad ora. Gli ultimi dati forniti dal Consorzio Almalaurea confermano che dal 2003 al 2019 le nostre Università hanno perso oltre 37.000 immatricolazioni, mentre il Mezzogiorno ogni anno perde un quarto dei propri diplomati in cerca di nuove opportunità al Centro-Nord. Non è solo un problema di competenze, è anche un problema che riguarda l’insieme della classe dirigente diffusa, che oggi mostra tutti i propri limiti (fatte salve, ovviamente, alcune eccezioni). Non è più procrastinabile un grande piano di investimenti sul capitale umano da realizzare con le aziende più importanti, con le Istituzioni, con i centri di ricerca e con le Università, per costruire la classe dirigente che dovrà guidare il Mezzogiorno e l’Italia negli anni della rinascita.
Il terzo passaggio obbligato è relativo all’utilizzo dei Fondi europei e, guardando all’immediato futuro, alle specifiche risorse del Recovery Fund. I Fondi europei finora non hanno innescato dinamiche di cambiamento perché scontano il “peccato originale” della programmazione “a cascata”: a Bruxelles si decide una cosa, più giù se ne decide un’altra e nel livello inferiore se ne fa un’altra ancora. I progetti non vengono ideati e costruiti in relazione a ciò che serve al territorio, alla loro coerenza con una strategia di sviluppo, ma per essere il più possibile compatibili con regole contraddittorie e spesso astruse. Più che progetti di sviluppo si tratta di progetti “acchiappa soldi”, che producono risultati frammentari, cattedrali nel deserto o opere inutili. Al Mezzogiorno non servono più orde di progetti funzionali alla logica dei finanziamenti a cascata, ma grandi e lungimiranti programmi strategici.
Infine, una considerazione apparentemente scontata, ma che invece in questi mesi ha fatto sentire quanto l’Italia e il Mezzogiorno abbiano bisogno di quello che, con una fortunata espressione, viene definito un “supplemento d’anima”. Il territorio deve avere “voglia di sviluppo”, il Mezzogiorno deve riuscire a unire competenze, voglia di fare, capacità di guardare avanti, abbattendo allo stesso tempo quei meccanismi che premiano inerzia, superficialità e sciatteria. Senza una condivisione dei traguardi da raggiungere continuerà a prevalere quella logica individualistica al ribasso che, soprattutto nei suoi derivati dell’egoismo sociale e della mancanza di amore per il bene pubblico, ha generato molti dei mali del Mezzogiorno.
Nino Foti, è Presidente della Fondazione Magna Grecia e Componente del Consiglio direttivo dell’Eurispes