Si chiamano bot, abbreviativo di robot, programmi informatici fortemente automatizzati in grado di fornire assistenza ma anche di scrivere notizie. Stanno minacciando seriamente il giornalismo, come Michele Mezza sottolinea in Algoritmi di libertà: la potenza del calcolo tra dominio e conflitto (ed. Donzelli). Giornalista, inviato per il Giornale Radio Rai in Urss e in Cina, docente dell’Università Federico II di Napoli e direttore del centro di ricerca sul mobile PollicinAcademy, Michele Mezza con il suo saggio è stato al centro di un partecipato dibattito che si è svolto a Roma nella sede della Fieg, la Federazione degli editori. La comunicazione si profila e si individualizza, come dimostrano i casi di Facebook, di Cambridge Analytica, e di Google. Con l’aiuto di un autore che conosce molto bene le culture del digitale (curatore di un blog per l’Huffington Post dirige la comunità web www.mediasenzamediatori.org), proviamo a comprendere meglio la natura di questo “salto quantico”, che segnerà sempre più il progresso della macchina dell’informazione, condizionando la quotidianità di tutti.
La tecnologia ci sta progressivamente portando verso l’automazione delle notizie. Chi ha interesse a fare a meno dei giornalisti?
Non credo all’esistenza di congiure o complotti; noto piuttosto che il ruolo attivo e critico del giornalista diventa sempre più marginale, e che ci sono evidenti interessi che spingono a considerare tale disintermediazione come un semplice processo di riduzione dei costi e sostanzialmente di alleggerimento dei vincoli professionali. In realtà, il vero motore che sta trasformando il mercato, e di fatto comprimendo il ruolo dei giornalisti, è quello dei service provider, da Google a Facebook, che hanno imposto la centralità dei distributori sui produttori e sui titolari dei contenuti.
Non crede che siamo di fronte a una “deriva” molto grave, che potrebbe portare alla progressiva “scomparsa” del mestiere del giornalista?
È in atto già da tempo una radicale trasformazione del nostro mestiere. In particolare, stanno affiorando nuove modalità di mediazione della comunicazione in cui interfaccia, flusso e algoritmi saranno gli utensili di una cassetta degli attrezzi che disegnerà nuovi profili professionali rispetto a quelli identificati dalla scrittura esercitata e concepita con gli strumenti tradizionali.
Ci sono già casi di notizie scritte da automi?
Ormai i dati ci dicono che il 52% dei contenuti che circolano nell’infosfera non hanno un’origine umana e il 66% dei tweet non proviene da una mente individuale. I bot, utenze artificiali che ci danno informazioni e rispondono alle nostre esigenze sul web e i chatbot che, in particolare, aprono una finestra di dialogo, ci hanno affiancato come matrice e distributori di contenuti. Sistemi poderosi dell’informazione, come le grandi agenzie multinazionali, hanno automatizzato interi àmbiti redazionali, a partire dai reporter che si occupano di economia.
Può fornire qualche esempio?
Certamente: l’Associated Press, che è la prima agenzia di stampa internazionale, con sede negli Stati Uniti, da un anno e mezzo ha robotizzato la sua sezione economica: le notizie non sono più scritte da umani, ma da sistemi programmati. Del resto, il 72% delle transazioni finanziarie sono ormai descritte e raccontate da bot. Ancora: il 45% delle cronache di baseball negli Usa è automatizzato, e dalla prossima stagione agonistica qualcosa del genere verrà sperimentata anche in Italia.
Il professionista avrà ancora dei margini per marcare la differenza rispetto agli automi?
Questa è la partita che abbiamo dinanzi: come individuare nuove modalità che ridiano spessore e valore alla mediazione professionale. Penso che uno dei settori in cui il giornalista dovrà ritrovare una missione sociale è proprio quella di certificatore e di architetto rispetto alle nuove forme automatiche di produzione dell’informazione basate sugli algoritmi.
La rivoluzione 4.0 non rischia di prosciugare libertà e spazio di manovra a un sistema dell’informazione già ampiamente dominato da oligopoli che controllano il mercato?
Cambieranno le dinamiche e con esse inevitabilmente i poteri. Noi, in qualità di giornalisti, abbiamo attraversato stagioni in cui le minacce alla nostra libertà venivano dai poteri occulti, poi dalle proprietà, ancora dai centri finanziari e, infine, direttamente dalla politica. Oggi a minacciare la nostra autonomia sono le grandi piattaforme che, con il monopolio dei loro algoritmi e attraverso il potere di decidere la distribuzione delle news, tendono ad omologare e uniformare la nostra attività di cronisti.
Ultima questione. La proposta di una direttiva sul mercato unico digitale dei diritti d’autore è stata affossata dal Parlamento europeo, se ne riparlerà a settembre. È prevalsa per il momento l’idea che la direttiva sul copyright fosse un attentato alla libertà degli utenti della Rete. Qual è il suo giudizio in merito?
Questo è un punto nodale su cui vedo una pericolosa indifferenza soprattutto da parte della nostra categoria. La normativa proposta dalla Commissione Europea prevedeva di imporre il pagamento di un copyright sulla citazione degli abstract, corredati da titolo e sommario delle notizie. Credo che sia una scelta miope. In cambio di pochi spiccioli per gli editori viene frenata la circolarità dei contenuti che è il vero indotto virtuoso della Rete. Sarebbe molto più efficace e funzionale imporre un diritto di reciprocità. Faccio un esempio per capirci: qualora Google decida di citare e utilizzare i contenuti dei giornali, deve permettere che giornalisti ed utenti delle piattaforme delle testate possano utilizzare le risorse tecnologiche del sistema Google per realizzare, a loro volta, servizi e prodotti. Solo così si potrà garantire una Rete aperta e si potrà moltiplicare l’offerta di servizi.