Riforma RAI: l’ombra di un nuovo duopolio. Intervista con Vincenzo Vita

Con l’accendersi in Parlamento della discussione sul testo che riformerà la governance del Servizio Pubblico, il focus de L’Eurispes.it continua con un’intervista a Vincenzo Vita, giornalista, politico ed ex Sottosegretario alle Comunicazioni. Una testimonianza critica verso il presente come verso il passato.

Il clima fuori è torrido, ma anche dentro e intorno alla Rai questi sono i giorni più caldi. Lei si è espresso in maniera assai allarmata su quello che sta emergendo in merito alla riforma della governance. Cos’è che non va? Quali sono gli elementi di maggior pericolo?

“Come diceva il grande Bartali, “tutto sbagliato, tutto da rifare”. Con la proposta di legge del governo si torna indietro di 40 anni fa, a prima della riforma della Rai del ’75 che ridisegnò il sistema pubblico attribuendone l’indirizzo e il controllo al Parlamento, non al governo. Un principio ispirato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la cui importantissima sentenza del ’74 permise di prefigurare e indirizzare la riforma del ’75. Il testo del governo attualmente in discussione sembra un ritorno al passato, con la Rai torna sotto l’egida del governo, con la funzione dell’Amministratore delegato investita di poteri che neppure Ettore Bernabei, mitico Direttore Generale della Rai del monopolio, ha mai avuto. Ma non basta: se da una parte ci si occupa in questi termini della governance, dall’altra neanche si sfiora il tema della missione strategica del Servizio Pubblico nell’era digitale. Questa mancanza di attenzione manifesta un limite profondo, una grave colpa di un governo che per una volta, visti i numeri e le posizioni di diversi gruppi in Parlamento, potrebbe fare qualcosa di più di una piccola legge sbagliata”.

In un suo recente articolo lei ha paragonato l’intervento legislativo di questi giorni alla legge 10 del 1985, quella che, di fatto, “blindò” l’impero berlusconiano. Questa riforma dunque rappresenterebbe una svolta di segno negativo, e addirittura darebbe vita ad un nuovo duopolio: di fronte ad una Rai dimessa, il nuovo confronto-scontro nei prossimi anni sarebbe tra Mediaset e Sky

“È così. I dati sono inconfutabili. Durante l’ultima relazione annuale dell’Agcom il Presidente Cardani ha detto e documentato come la Rai, sul fronte del fatturato aziendale, è ormai al terzo posto. Al primo c’è Sky, con Mediaset che precede di poco il Servizio Pubblico – un svantaggio che la Rai difficilmente potrà ridurre, bloccata com’è dal canone e da una pubblicità che non aumenta. L’attuale testo del governo ridimensiona ulteriormente la Rai, mentre la sua mission rimane incerta e non definita; tutto ciò alla vigilia del rinnovo della convenzione con lo Stato che scadrà nel maggio 2016, tra meno d’un anno. Il rischio che il Servizio Pubblico venga “inchiodato” al terzo posto è palese. Si avrà dunque, per forza di cose, un nuovo duopolio. Una situazione affine a quella conseguita dalla legge 10 del ’85, che sancì il duopolio Fininvest-Rai”.

Ma se è vero, come è vero, che politica e comunicazione sono state legate a doppio filo negli ultimi trent’anni, perché il sistema politico, il governo, dovrebbe rinunciare ad un ruolo comunque forte della Rai, che è sempre stata il soggetto di rappresentanza e comunicazione più “sincronizzato con le esigenze dei vari esecutivi?

“Guardi, le faccio un discorso generale. Negli ultimi anni c’è stato un dibattito molto acceso finalizzato a trovare una formula societaria – si era parlato di fondazione autonoma – che rendesse la Rai indipendente. Si è cercato quindi di troncare la dipendenza dai partiti, un rapporto tra l’altro asfittico visto che non ci sono più i partiti di massa come li abbiamo conosciuti nel passato. Una Rai “dei partiti” senza i partiti diventerebbe una Rai di lobby da salotto e gruppi di potere che, per altro, non risponderebbero a nessuno. L’indipendenza, l’autonomia della Rai sono quindi oggi non solo un obbiettivo politico ma un dovere civico, una necessità storica. Ma promesse come gli slogan di Renzi, “via i partiti dalla Rai”, sono state incaute: con questa proposta del governo non solo l’Ad è di emanazione governativa – in contraddizione, quindi, con la Corte Costituzionale -, ma la maggioranza del Cdm, che passa da 9 a 7, ha 4 componenti di emanazione parlamentare, quindi dei gruppi e dei partiti. Su questi aspetti il testo si dimostra molti simile alla vecchia legge Gasparri, tanto vituperata da Renzi a parole ma di fatto riconfermata. La sloganistica si è così rivelata più cinica propaganda che verità …”

Troppe volte capita

“Purtroppo è così. E dire che noi avevamo proposto un bel testo, figlio di un dibattito durato quattro anni, promosso dal Move On e con tante associazioni della società civile, tra cui Articolo21. Il testo, depositato alla Camera (a firma Sel, Civati e diversi altri parlamentari), prevedeva i seguenti punti: un Direttore Generale, non quindi un Ad, e in luogo dell’attuale Consiglio e della Commissione di Vigilanza – che è si dimostra un organismo desueto e non più attuale – un Consiglio di Garanzia, formato, come in Germania, dalle associazioni della società civile e solo in parte minoritaria da personalità di nomina parlamentare”.

La politica discute e dibatte di governance e non di mission. Ma sta davvero alla politica di sviluppare questo tema o non spetterebbe allo stesso Servizio Pubblico di inquadrarlo e, quindi, autodeterminarsi?

“Evitiamo gli equivoci. Quanto parlo di mission non mi riferisco all’organizzazione aziendale, che è compito esclusivo, autonomo e indipendente della azienda Rai; parlo del senso profondo del Servizio Pubblico. La Rai nacque e passò dal monopolio alla riforma mantenendo tre grandi missioni: 1) l’unificazione culturale e linguistica dell’Italia, attuata non solo dai programmi del maestro Manzi, ma anche tramite i grandi sceneggiati, le videocronace di eventi e tante altre proposte che costruirono una cultura comune; 2) la difesa del pubblico da un facile monopolio privato, dovuto dalla “scarsità delle risorse tecniche” – le poche frequenze di allora, se lasciate al libero mercato, sarebbero facilmente divenute appannaggio di una sola figura privata; 3) partecipare al rilancio dell’industria culturale italiana mediante la produzione di programmi, audiovisivi e film italiani ed europei. Anche oggi questi tre punti restano attuali, ma divengono meno decisivi se non si coglie e si affianca un altro nuovo punto chiave: nell’epoca transmediale-crossmediale, l’epoca della rete per intenderci, il pubblico diventa il nuovo centro di riferimento. Si va aprendo una nuova stagione di “alfabetizzazione” degli italiani alla quale sarebbe doveroso contribuire per rendere tutti i cittadini uguali dinanzi a queste nuove opportunità tecniche. E se il Servizio Pubblico non si prende carico di questo compito, chi lo farà?

In verità qualcosa si è tentato. Il Servizio Pubblico ha avviato negli ultimi mesi iniziative in tal senso, per affrontare il divario digitale. Penso alla cosiddetta “Non è mai troppo tardi, versione 2.0”. Al momento iniziative embrionali, e non è un caso che se ne sia parlato pochissimo, e meno che mai in questi giorni

“Simili iniziative sono apprezzabili, soprattutto se oltre al divario digitale si occupano di colmare quel divario culturale che impedisce di sfruttare le opportunità che le nuove tecnologie producono. Io però penso ad una cosa più specifica: il Servizio Pubblico deve offrire programmi – udite udite – gratis, programmi free. Nell’epoca in cui la soglia competitiva si è spostata sulla fruizione a pagamento – difatti Mediaset e Sky competono sui diritti del calcio, le cui partite vengono criptate, su una nuova “serie A” appannaggio di chi ha disponibilità economiche -, il Servizio Pubblico deve offrire a tutti gli stessi servizi avanzati. Questo è il tema nuovo dell’epoca crossmediale, e qui passa – mi permetto di dire – un grande capitolo della democrazia dell’informazione”.

Lei parla di “servizi gratuiti”. Eppure il Servizio Pubblico pare innervato da una dinamica commerciale e pubblicitaria, una dinamica che – e questo è stato fatto risaltare in molti altri interventi del nostro focus – è la conseguenza dell’assunzione da parte delle dirigenze Rai di un determinato orizzonte: quello della logica commerciale, “l’ideologia dello share e dei fatturati pubblicitari. Ciò si riflette sul modo in cui gli organi dirigenti della Rai concepiscono e progettano l’azienda

“Mi trova d’accordo. Oramai il mercato pubblicitario la fa da padrone, e anche la Rai, pur essendo pubblica, appare in realtà molto “privata” nelle sue logiche, nelle sue cifre, nel suo linguaggio. La competizione con Mediaset ha caricato di “numeri” tutto, e anche l’informazione ne risente. Benché tutte le leggi esordiscano affermando che l’informazione è un bene pubblico, nella realtà non lo è più: è oramai un bene “privatizzato”. La riconquista dell’informazione come “bene comune” dovrebbe, in tal senso, tornare ad essere un obbiettivo centrale nella mission della nuova Rai. Nonostante il percorso involutivo sia oramai consolidato, “non è mai troppo parti” – citando ancora una volta il maestro Manzi – per cambiare strada. L’idea di svincolare la Rai, almeno una consistente parte del suo palinsesto, da una logica strettamente commerciale è più che credibile. Basta deciderlo”.

Considerando poi che gli attuali introiti della pubblicità, in calo da diversi anni, sono quasi equivalenti alle risorse perdute per l’alta evasione del canone

“È una bella tentazione. Si riapre una vecchia discussione. “Almeno una rete (generalista) senza pubblicità” si diceva, proprio per sperimentare fino in fondo una completa indipendenza della Rai dai vincoli assoluti dello share. Ma queste argomentazioni avrebbero dovuto e potuto animare una reale discussione sulla riforma complessiva del Servizio Pubblico; non è un caso che siano assenti nel testo di riforma che, nei fatti, si presenta come una controriforma, per altro limitata ad uno spicchio del problema, ovvero la governance. Il futuro sarebbe nelle mani di un Ad dotato di bacchetta magica che, magicamente, deciderebbe per il bene di tutti. Ma anche se si trattasse di un genio, come potrebbe un uomo solo al comando intervenire su d’una struttura così appesantita e ferma, ed in un contesto che, tra l’altro, non ha regolato il conflitto d’interessi, che non ha un antitrust degna di questo nome, che non ha una banda larga (nel 2014 l’Italia era in fondo alla classifica europea)?”

Ma qui le sollevo un’osservazione cattiva. Lei per un quinquennio, dal 1996 al 2001, è stato Sottosegretario alla Comunicazione dei governi Prodi, D’Alema e Amato. Il centrosinistra ha governato anche tra il 2006 e il 2008. Come mai in quegli anni non siete riusciti a riformare in maniera più corretta e lungimirante il sistema della comunicazione e, in particolare, a restituire un senso, ormai perduto, alla missione della Rai come Servizio Pubblico?

Obiezione accolta, vostro onore”. Questo è rovello della mia “coscienza infelice”: ho perso, e con me molti sono stati sconfitti. E non si è trattato solo del frutto delle macchinazioni di avversari agguerriti. Le responsabilità sono state anche nostre. Mi ricordo il dibattito sul conflitto d’interessi; eravamo quasi sul punto di farcela. Il testo presentato al Senato, dopo quello troppo blando del ’98, era pronto, ma tutti i gruppi dirigenti del centrosinistra di allora, con incoscienza, preferirono durante l’ultimo anno di legislatura privilegiare la riforma del Titolo V della Costituzione, e non “chiudere” sul conflitto d’interessi. Il disegno di legge 1138, questo dannato numero che mi rode ancora dentro, avrebbe potuto riformare la Rai e imporre regole più avanzate e limiti sulla pubblicità.
Ricordo poi anche il tema sull’Antitrust, quando all’ordine del giorno c’era la questione del passaggio al satellite di Rete4; ci fu uno scontro, e io fui attaccato per mesi, etichettato da Rete 4 medesima come “il nemico” della televisione commerciale. Perdemmo diverse occasioni, e con queste, l’intera partita. Con il senno di poi le posso dire, pur conscio che la storia non si fa mai con i “se”, che “se” in quelle convulse fasi mi fossi ribellato di più, “se” avessi puntato i piedi, i risultati sarebbero potuti essere diversi. Ho finito invece per privilegiare quel vecchio assioma, che a sinistra ci ha accompagnato fin da piccoli e che diceva “a volte è meglio sbagliare tutti insieme che avere ragione da solo”. Allora, sbagliando, mi accontentai del pensiero comune, e come tutti ne ho pagato un prezzo”.

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