“L’Italia è tornata”. Questo lo slogan che Matteo Renzi ha usato davanti alla comunità italiana in Perù. Il premier è convinto che le riforme “danno certezza”, la stabilità politica “aiuta gli investimenti” e l’Italia torna protagonista anche all’estero. E, all’annuncio dei ricorsi contro l’Italicum, che ambienti di maggioranza considerano senza fondamento giuridico, Renzi reagisce facendo capire che la legge non si tocca. Anzi, come la riforma istituzionale o quella della pubblica amministrazione, aiutano a “rendere un paese semplice” e “la certezza delle regole è condizione per lo sviluppo e gli investimenti”. Intanto, l’attenzione degli attori del comparto energetico è catalizzata dalle mosse di Saipem, che oggi svelerà il suo nuovo piano industriale.
Oggi al Senato prenderà il via ufficialmente, con le comunicazioni in Aula del Presidente Grasso, la sessione di bilancio. Il calendario dei lavori sarà definito alle 12 durante una Conferenza dei capigruppo. Comunque, a quanto si apprende, l’obiettivo della maggioranza e del governo è quello di licenziare il testo entro il 23 novembre. Entro domani la commissione Bilancio dovrebbe fornire il parere sul contenuto della manovra e su eventuali materie estranee e le consuete audizioni si dovrebbero svolgere il 2 e il 3 novembre. Per la settimana successiva dovrebbe essere fissato il termine per gli emendamenti. La commissione Affari costituzionali sarà chiamata a verificare l’esistenza dei presupposti costituzionali in merito al decreto-legge, già licenziato dalla Camera, con cui si intende normare il diritto di sciopero per i dipendenti del ministero dei Beni culturali. La Commissione Bilancio proseguirà ad esaminare il ddl di conversione del dl in materia economico-sociale. Nel pomeriggio, i rappresentanti dell’Associazione bancaria italiana e del Fondo interbancario saranno auditi dalla commissione Finanze in merito all’indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano nella prospettiva della vigilanza europea. L’ufficio di presidenza della commissione Lavori pubblici si riunirà per definire il calendario dei lavori. Il comitato ristretto della commissione Industria riprenderà i lavori connessi all’iter del disegno di legge “Istituzione del marchio “Italian Quality” per il rilancio del commercio estero e la tutela dei prodotti italiani”; successivamente, sarà portato avanti il confronto sulla Legge annuale per il mercato e la concorrenza – è previsto un ciclo di audizioni – e sullo schema di decreto legislativo in tema di efficienza energetica. Potrebbero essere trattati anche i ddl in materie di politiche aerospaziali.
Alla Camera proseguirà il confronto sulle mozioni in materia di autorizzazione alla commercializzazione e all’utilizzo dei prodotti fitosanitari, sulle mozioni concernenti iniziative per rafforzare la cooperazione allo sviluppo a favore dei Paesi africani, anche nella prospettiva della riduzione dei flussi migratori e iniziative per assicurare maggiore trasparenza e partecipazione nelle procedure di nomina dei membri dei consigli di amministrazione delle società partecipate dallo Stato e da altri soggetti pubblici. Andrà inoltre avanti l’esame di articoli ed emendamenti della legge delega in materia di appalti. I deputati porteranno avanti il confronto sul testo con cui si punta a introdurre nell’ordinamento penale il reato di omicidio stradale. La commissione Affari costituzionali sarà impegnata con l’indagine conoscitiva relativa all’eventuale applicazione del ddl di revisione costituzionale presentato dal ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi. La commissione Finanze porterà avanti il dibattito sullo schema di decreto legislativo recante attuazione della direttiva Ue che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento. La commissione Ambiente e la commissione Agricoltura porteranno avanti i lavori relativi al disegno di legge governativo “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”. Nel pomeriggio i rappresentanti di Legambiente, Greenpeace e Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (CNCU) saranno auditi dalla commissione Ambiente e dalla commissione Attività produttive sull’impatto della vicenda Volkswagen sulla filiera nazionale dell’automotive, sui consumatori e sull’ambiente. La commissione Affari sociali inizierà l’esame, per l’espressione del parere, dello schema di decreto legislativo che dà attuazione alla Direttiva Tabacchi.
La “Giornata Parlamentare” è a cura del Centro Studi Parlamentari NOMOS
Fondato nel 1993, NOMOS è uno dei primi studi italiani specializzati nella comunicazione con le Istituzioni. https://www.nomoscsp.com
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1.
(Istituzione del marchio «Italian Quality»)
1. Al fine di favorire la crescita delle esportazioni dei prodotti italiani, nonché di garantire la protezione dei consumatori attraverso la piena e corretta informazione in ordine al ciclo produttivo delle merci, è istituito il marchio «Italian Quality» corredato da logo figurativo.
2. L’istituzione del marchio «Italian Quality» è volta all’identificazione dei prodotti italiani che presentano caratteristiche di eccellenza. Per tali si intendono i prodotti finiti realizzati da professionisti, artigiani ed imprese, iscritti alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e aventi domicilio fiscale nel territorio italiano, che:
a) riportano la marcatura d’origine «Made in Italy», in ottemperanza al codice doganale dell’Unione di cui al regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo, del Consiglio del 9 ottobre 2013;
b) hanno subíto nel territorio italiano almeno una operazione ulteriore e precedente l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ai sensi dell’articolo 60 del codice doganale dell’Unione di cui al regolamento (UE) n. 952/2013 del 9 ottobre 2013;
c) sono stati realizzati nel rispetto delle condizioni previste dal disciplinare di settore di cui all’articolo 2, comma 1, della presente legge.
Art. 2.
(Modalità e requisitiper la concessione del marchio)
1. La proprietà del marchio di cui all’articolo 1 spetta allo Stato italiano. Il rilascio della relativa autorizzazione all’uso è di competenza del Ministero dello sviluppo economico, ed avviene secondo modalità definite con apposito decreto del Ministro dello sviluppo economico, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, d’intesa con il Ministro dell’economia, sentita la Conferenza Stato-Regioni di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Con il medesimo decreto, sentite le associazioni di categoria interessate, sono stabiliti uno o più disciplinari di settore ai quali professionisti, artigiani ed imprese si attengono ai fini della richiesta di autorizzazione all’uso del marchio di cui all’articolo 1, nonchè i criteri e le modalità per l’esecuzione uniforme su tutto il territorio nazionale dei relativi controlli da effettuarsi da parte di una società di certificazione individuata in base a selezione con procedura ad evidenza pubblica indetta con decreto del Ministro dello sviluppo economico.
2. L’autorizzazione all’uso del marchio di cui all’articolo 1 è rilasciata dal Ministero dello sviluppo economico a società semplici, in nome collettivo e cooperative, società in accomandita semplice, società a responsabilità limitata, reti di imprese di cui all’articolo 3, comma 4-ter, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, organizzazioni di produttori di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 102, e consorzi o società consortili, anche in forma cooperativa, costituiti da imprese, anche artigiane, facenti parte di specifiche filiere produttive, a valere sui prodotti che l’impresa realizza nel rispetto delle condizioni previste dagli articoli 1, comma 2, e 2, comma 1, della presente legge.
Art. 3.
(Registrazione comunitaria e internazionale)
1. Il Ministero dello sviluppo economico provvede alla registrazione del marchio di cui all’articolo 1 in sede comunitaria e internazionale presso l’apposito Ufficio di armonizzazione comunitaria, ai fini della tutela internazionale del marchio in Stati terzi ai sensi del regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993 e successive modifiche e integrazioni, e del protocollo relativo alla intesa di Madrid concernente la registrazione internazionale dei marchi, fatto a Madrid il 27 giugno 1989 e ratificato ai sensi della legge 12 marzo 1996, n. 169.
Art. 4.
(Riconoscibilità dei prodottirecanti il marchio)
1. Ai fini della riconoscibilità e della tutela del marchio di cui all’articolo 1, il Ministro dello sviluppo economico prevede, mediante il decreto di cui all’articolo 2, comma 1, un sistema di etichettatura adeguato a garantire l’originalità dei prodotti recanti il marchio di cui all’articolo 1.
Art. 5.
(Promozione del marchio)
1. Il Ministero dello sviluppo economico predispone campagne annuali di promozione del marchio di cui all’articolo 1 nel territorio nazionale nonché sui principali mercati internazionali per il sostegno e la valorizzazione della produzione italiana e per la sensibilizzazione del pubblico ai fini della tutela del consumatore.
2. Le imprese facenti parte di reti di imprese di cui all’articolo 3, comma 4-ter, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, le organizzazioni di produttori di cui al decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 102, e i consorzi o società consortili, anche in forma cooperativa, costituiti da imprese, anche artigiane, facenti parte di specifiche filiere produttive, possono altresì concertare azioni di promozione dei prodotti contrassegnati dal marchio di cui all’articolo 1 con le regioni, i comuni e le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura interessati.
3. È istituito presso il Ministero dello sviluppo economico l’albo dei professionisti, artigiani ed imprese abilitate a utilizzare per uno o più prodotti il marchio di cui all’articolo 1. L’albo è accessibile sul sito internet del Ministero dello sviluppo economico.
Art. 6.
(Controlli e sanzioni)
1. Il Ministero dello sviluppo economico acquisisce notizie atte a verificare la sussistenza dei requisiti per l’utilizzo del marchio di cui all’articolo 1, segnalando eventuali ipotesi di indebito utilizzo, ai fini dei conseguenti accertamenti, secondo le modalità stabilite dal decreto di cui all’articolo 2, comma 1.
2. Nel caso in cui i controlli, le notizie o gli accertamenti di cui al comma 1 facciano emergere a carico dell’impresa interessata violazioni nell’utilizzo del marchio di cui all’articolo 1 o il venir meno dei requisiti per l’utilizzo del medesimo marchio, il Ministero dello sviluppo economico revoca l’autorizzazione all’utilizzo del marchio.
3. Professionisti, artigiani ed imprese ai quali è stato revocato il diritto all’uso del marchio di cui all’articolo 1 non possono presentare nuove richieste di autorizzazione all’utilizzo del marchio prima che siano decorsi tre anni dal provvedimento di revoca. Qualora la richiesta di autorizzazione riguardi lo stesso prodotto per il quale è intervenuto il provvedimento di revoca, essa non può essere presentata prima che siano decorsi cinque anni.
4. Qualora ne abbia notizia, il Ministero dello sviluppo economico segnala all’autorità giudiziaria, per le iniziative di sua competenza, i casi di contraffazione e di uso abusivo del marchio di cui all’articolo 1. Si applicano altresì le disposizioni di cui agli articoli 144 e seguenti del codice della proprietà industriale, di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30.
5. Con il decreto di cui all’articolo 2, comma 1, sono altresì stabilite ulteriori sanzioni nel caso di uso fraudolento del marchio di cui all’articolo 1 ovvero false o fallaci indicazioni ai sensi dell’articolo 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e successive modificazioni.
Art. 7.
(Copertura finanziaria)
1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge, pari a 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015, si provvede a valere sulle risorse di cui all’articolo 4, comma 61, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e successive modificazioni.
Onorevoli Senatrici e Senatori! — Ai fini di una minore pressione fiscale deve potersi contare su un maggiore livello di crescita economica e quindi su una più alta produzione industriale del Paese. Con l’attuale debolezza della domanda interna sono soprattutto le esportazioni a garantire maggiore vitalità alla nostra produzione industriale.
I dati confortano questa affermazione: il contributo delle esportazioni di beni e servizi alla formazione del prodotto interno lordo (PIL) è in Italia particolarmente significativo, attorno al 30 per cento; si era ridotto nel 2009 (24 per cento) a seguito della crisi che ha notevolmente compromesso il volume degli scambi di tutte le aree geografiche del globo e poi ha ricominciato a crescere. Nel 2010 e, soprattutto, nel 2011 tale contributo è cresciuto attestandosi al 28,9 per cento. Secondo i dati ISTAT riguardanti i primi nove mesi del 2012, l’incidenza relativa ha superato il 30 per cento. Ciò è confermato anche dall’analisi di Eurostat che prevede un ulteriore incremento per il biennio 2013 — 2014: si calcola, infatti, un contributo che dovrebbe superare — per la prima volta in assoluto — la soglia del 31 per cento, raggiungendo il 31,2 per cento nel corso del 2013 e il 32,3 per cento durante il 2014. Dal 2010 le esportazioni di beni e servizi stanno quindi crescendo — in termini reali — in misura superiore rispetto alle altre componenti del PIL, fornendo di conseguenza il contributo maggiore alla crescita nazionale. In particolare, nel 2011, a fronte di un aumento delle vendite italiane all’estero del 6,7 per cento, i consumi e gli investimenti hanno segnato addirittura una contrazione, rispettivamente, dello 0,1 e dell’1,3 per cento. Nel 2012, tra gennaio e settembre, a fronte di esportazioni cresciute su base tendenziale del 2 per cento, consumi ed investimenti hanno subito una significativa decelerazione, pari — rispettivamente — al -3,3 ed al -9,1 per cento, a conferma della buona performance che sta attraversando il «Made in Italy» nel mondo e delle forti difficoltà che sta conoscendo il nostro mercato interno.
In tale situazione occorre tutelare questo patrimonio nazionale che si chiama commercio estero. In Italia, il commercio estero, come nel resto del mondo, non guarda più solo al lato dell’offerta, ma piuttosto a quello della domanda: le imprese vanno a cercarsi gli acquirenti e non restano «sedute» ad aspettarli. I clienti migliori sono infatti quelli che risiedono dove c’è maggiore crescita economica e quindi nei mercati esteri ricchi o emergenti, anche remoti. In sostanza, le imprese italiane, specialmente le piccole e medie, per restare competitive vanno «accompagnate» sempre di più all’estero. Non solo, ma è ormai provato che le imprese che internazionalizzano vanno meglio delle concorrenti (si veda il recente rapporto ISTAT sulla competitività). Ormai l’estero è per molte imprese una ragione di sopravvivenza, in quanto «costrette» ad esportare oltre metà del loro prodotto se non addirittura, in alcuni settori oggi debolissimi come ad esempio la nautica, quasi tutto quello che realizzano.
La concorrenza straniera è poi sempre più agguerrita e lo è in tutti i settori industriali, anche in quelli dove, fino a poco fa, l’Italia poteva definirsi il Paese più virtuoso — come per esempio le cosiddette quattro «A»: arredamento, abbigliamento, agroalimentare e automazione — e dove forse ancora può continuare ad esserlo, ma solo se ci sarà una idonea strategia di sostegno. Il commercio con l’estero è una straordinaria leva economica, e oggi — in tempi di recessione — lo è ancora di più. L’Italia è a corto di risorse per affrontare una modernizzazione di settori essenziali come la scuola, la ricerca, la sanità e le infrastrutture, utili per mantenere alto il benessere sociale. L’altissima pressione fiscale, aggravatasi negli ultimi anni per scelte governative che hanno premiato più il perseguimento di un rigore finanziario che riforme volte allo sviluppo di politiche espansive, sta ulteriormente prosciugando stanziamenti, redditi e patrimoni. Le conseguenze sono disastrose: le imprese chiudono o delocalizzano, le famiglie si impoveriscono, crollano i consumi e aumenta la disoccupazione. Da economica, in breve tempo, la crisi sta diventando sociale.
La soluzione dell’attuale problema passa essenzialmente da una ripresa della produzione industriale e dei servizi. Produrre di più in tempi di basso consumo interno significa, in buona percentuale, aumentare le esportazioni. Il «Made in Italy» è ancora competitivo perché ha in sé il significato — nel giudizio dei consumatori esigenti di tutto il mondo — di una qualità di livello assoluto. È un asset di valore inestimabile. Inoltre, un aumento delle esportazioni comporta inevitabilmente aumento della produzione e mantenimento dell’occupazione. Eppure commercio estero significa anche qualcos’altro: attrazione di nuovi investimenti. Ecco che allora, in presenza di un flusso extra di risorse dall’estero, il Paese può aspirare ad una crescita economica positiva aumentando la spesa pubblica per attività remunerative come ad esempio talune infrastrutture e ricerca/innovazione. Esportare di più, aumentare la produzione industriale, attrarre più risorse dall’estero significa, infatti, nel breve/medio periodo, trasmettere un’iniezione di fiducia nel sistema italiano che conduce inevitabilmente alla positiva ripresa degli investimenti e all’aumento dell’occupazione.
Se l’industria italiana agisce ormai da tempo in un mercato mondiale caratterizzato dalla progressiva affermazione dei processi di globalizzazione delle attività economiche e commerciali, bisogna anche aggiungere che la nostra produzione industriale ha alle spalle una lunga tradizione di elevata qualità che le ha consentito di ottenere largo apprezzamento sui mercati nazionali ed esteri. Il «Made in Italy» infatti non ha attinenza soltanto con il dato economico e produttivo del Paese, ma va tutelato anche in quanto espressione di conoscenze e valori che hanno saputo adeguarsi ai moderni processi produttivi per affrontare la sfida dei mercati. Nonostante ciò, soggetti ormai alla concorrenza agguerrita dei Paesi emergenti, dove si produce a costi molto più bassi e spesso in assenza di norme che tutelino la sicurezza e la salute dei lavoratori, i prodotti italiani sono sottoposti ormai da tempo ai rischi delle imitazioni e delle contraffazioni. La mancanza di regole comuni sulla produzione, valide per tutti i competitori nel mercato globale e l’impossibilità di attestare l’effettiva realizzazione sul territorio nazionale, fa sì che i nostri produttori si trovino in una condizione di penalizzazione. Allo stesso modo, ne risultano svantaggiati i consumatori attenti all’origine territoriale del prodotto, ai quali la legislazione vigente non garantisce l’adeguata informazione circa l’effettiva origine di questo. Sono molti, infatti, i consumatori per i quali la consapevolezza dell’intera realizzazione del ciclo di fabbricazione in Italia costituisce titolo di preferenza ai fini della scelta di acquisto.
Il presente disegno di legge, puntando sul commercio con l’estero come leva per la ripresa economica e produttiva del Paese, mira quindi contemporaneamente alla tutela del produttore e del consumatore, attraverso l’istituzione di un marchio «Italian Quality» che sopperisca all’attuale carenza di informazione e di garanzia consentendo, contemporaneamente, condizioni di equa competizione. Per un’Italia che, grazie alla sua geniale operosità, ha dimostrato di possedere una leadership industriale che se dovesse andare perduta — in evidente mancanza di altre ricchezze, come le materie prime o l’energia — ci condurrebbe ad un terribile declino, il commercio con l’estero può essere invece una chiave di lettura per mantenere, e prolungare nel tempo, un meritato benessere. Così, il «Made in Italy», inteso non solamente come produzione localizzata nel nostro Paese, ma come percezione del prodotto nel suo insieme, rappresenta un asset di enorme valore: secondo una ricerca condotta da KPMG nel 2010, è il terzo «marchio» più riconosciuto al mondo dopo Coca-Cola e Visa, mentre sempre secondo una ricerca condotta da KPMG nel 2011, l’export «Made in Italy» è cresciuto complessivamente del 25,1 per cento e solo verso i Paesi esterni all’Unione europea del 35,3 per cento.
A riguardo, al fine di evitare una certa confusione terminologica — come intervenuta inizialmente nel caso dell’articolo 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 — tra il concetto di «indicazione di origine» del prodotto da un dato Paese e il concetto di «indicazione di provenienza» relativo agli indicatori che attestano l’esistenza di un collegamento dimostrabile tra una determinata caratteristica del prodotto ed un determinato luogo di produzione, è bene chiarire la distinzione tra «marchio» e «marcatura d’origine». Mentre il «marchio» consiste in un segno distintivo che è sempre proprietà di qualcuno, la «marcatura d’origine» non può essere oggetto di trasferimento e dipende solo da dove il prodotto è stato materialmente fatto: non a caso, nella prassi si ricorre a volte all’espressione «origine commerciale» in contrapposizione a «origine doganale», nell’intento di evitare la — facile — confusione tra i due ambiti. Infatti, due beni con la medesima etichetta di origine possono avere storie produttive molto diverse: in un caso si potrebbe trattare di un bene «interamente realizzato» in un dato Paese, mentre in un altro potrebbe aver subito lì solo «l’ultima trasformazione sostanziale».
È dalle regole di origine doganale che dunque discende la «marcatura di origine». Molti Paesi richiedono che l’origine del prodotto sia evidenziata direttamente sullo stesso, anche attraverso un’etichetta, prima di varcare la frontiera, per facilitare i controlli, imponendo, altresì, che essa permanga nella successiva messa in libera pratica ovvero nell’immissione al consumo, in maniera tale che anche il consumatore sia informato dell’origine del prodotto che gli viene offerto, in una boutique, come al supermercato. L’informazione del consumatore, però, è un obiettivo secondario, nel senso che lo scopo principale della «marcatura d’origine» — quello che ne ispira le regole applicative, le semplificazioni, così come le convenzioni — rimane quello doganale. Per quanto riguarda l’Unione europea, il codice doganale comunitario prevede un duplice sistema di regole per definire l’origine doganale di un prodotto: quelle relative all’origine «preferenziale» e quelle relative all’origine «non preferenziale». Le regole del regime «preferenziale» scaturiscono da accordi di volta in volta negoziati tra l’Unione europea e un determinato Paese terzo (o gruppo di Paesi), in base alle quali le merci possono ottenere talune agevolazioni all’atto della loro importazione. Le regole in materia di origine «non preferenziale» sono invece emanate in via autonoma dall’Unione europea e incidono sugli scambi con i Paesi non legati ad essa da accordi tariffari specifici (USA, Canada, Giappone, ecc). In particolare, per i prodotti parzialmente ottenuti in paesi diversi, qualora si tratti di Paesi in regime di origine «non preferenziale», secondo l’articolo 60, comma 1, del nuovo codice doganale dell’Unione, di cui al regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, «Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione».
Per quanto concerne i regimi nazionali, in ossequio al principio di territorialità della legge, i produttori devono conformarsi alle regole sulla «marcatura di origine» vigenti nel Paese nel quale i loro prodotti sono commercializzati. Il «marchio», anche collettivo, assolve principalmente ad una duplice funzione: quella di fornire al consumatore un’informazione aggiuntiva sul prodotto che intende acquistare e quella di prevenire pratiche fraudolente da parte di produttori e importatori. Inoltre, qualora — per certe produzioni — i consumatori colleghino l’origine da un determinato Paese a caratteristiche generali di migliore qualità, il «marchio» può rappresentare altresì, per i relativi prodotti, uno strumento indiretto di promozione delle vendite. Al tema dei marchi il GATT (General agreement on Tarifs and Trade – Accordo generale sulle tariffe e sul commercio concluso a Ginevra il 30 ottobre 1947), dedica l’articolo IX, il cui contenuto, limitato alla fissazione di alcuni principi generali, deve essere integrato con le disposizioni dell’Accordo sulle regole di origine allegato al GATT stesso.
Quel che rileva ai fini del presente disegno di legge è dunque evitare possibili equivoci circa la locuzione inglese «Made in Italy» che potrebbe essere intesa sia come «marcatura d’origine» in senso doganale, sia come «marchio» nel senso di simbolo reputazionale agli occhi dei consumatori di tutto il mondo: anche se di nomenclatura doganale si tratta, infatti, è necessario prendere atto che la denominazione d’origine italiana «Made in» ha assunto la valenza di marchio collettivo. Ora, pensando a quel vincolo doganale che associa l’origine di un prodotto all’ultima trasformazione sostanziale (si veda il citato articolo 24 del codice doganale comunitario), è sufficiente dare un contributo finale, per meritarsi un «premio» che l’immaginario collettivo globale associa a un’italianità quasi totale? Il problema deriva dal fatto che in Europa, a fronte dell’esigenza di facilitare la costruzione del mercato interno, non esiste l’obbligo della marcatura d’origine sui prodotti, indipendentemente che siano realizzati in un Paese membro, o siano di provenienza extra-europea. Il non obbligo non significa impossibilità, ma facoltà, anche nel commercio interno, purché nel rispetto del codice doganale dell’Unione. Con il crescere degli scambi import-export dei primi anni duemila, però, il non obbligo di indicarne l’origine ha ampiamente consentito di immettere al consumo, in Europa, prodotti importati, senza qualsivoglia etichetta d’origine, facendo credere che fossero stati realizzati in Italia, comportando così un’indubbia diluizione del valore reputazionale del «Made in Italy», fatto che assume una valenza particolare a causa della grave crisi recessiva che ha colpito l’economia italiana.
Sono stati numerosi i progetti di legge presentati nelle passate legislature alle Camere in materia di marchio «Made in Italy» e, in qualche modo, si può dire che l’attenzione del Parlamento sul tema è sempre stata viva. Sono state in particolare approfondite le proposte al riguardo assegnate alla Commissione attività produttive della Camera dei deputati, il cui lavoro è giunto alla formulazione di un testo, elaborato dal Comitato ristretto, adottato poi come testo base. Il presente disegno di legge, al fine di valorizzare il «Made in Italy» sul nostro mercato come sui mercati terzi, anche tenendo conto del citato testo base e dei lavori già svolti sul tema nelle passate legislature, si propone di istituire un marchio collettivo (e cioè di proprietà pubblica) «Italian Quality», applicabile a qualunque settore industriale, su base volontaria: si tratta di uno strumento di politica industriale, utile per recuperare competitività attraendo investimenti, facendo «rientrare» imprese che avevano delocalizzato (perché il marchio lo potranno ottenere solo quelli che dimostrino l’origine italiana), certificando le filiere, valorizzando il territorio e potendo meglio competere sui mercati. Un marchio di proprietà dello Stato è inoltre ulteriore garanzia per utilizzatori e consumatori, specialmente contro sue eventuali contraffazioni; valorizza i prodotti di brand non ancora famosi; è così, allo stesso tempo, marchio di visibilità e strumento di tutela del «Made in Italy». È, in sostanza, un «passaporto per le merci» che permette loro di essere riconosciute dai consumatori nel mondo.
La proposta tiene evidentemente bene in considerazione gli orientamenti comunitari in materia. Già nel 2005, infatti, la Commissione europea ha espresso parere negativo circa la possibilità di istituire un marchio nazionale attestante la localizzazione su territorio italiano di tutti i processi di fabbricazione di un prodotto, sostenendone la incompatibilità con il principio di libera circolazione delle merci nel mercato interno. In particolare, tale previsione si pone in contrasto con il codice doganale comunitario, aggiornato dal Regolamento (CE) n. 450/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, ma soprattutto con l’articolo 34 del Trattato sul funzionamento dell’Unione che vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione e le misure di effetto equivalente. Tuttavia, secondo l’articolo 30 del medesimo Trattato, le restrizioni all’importazione giustificate, tra l’altro, da motivi di tutela della proprietà industriale e commerciale sono autorizzate, qualora non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra Stati membri.
In base all’interpretazione, data dalla Corte di giustizia europea di tale normativa, i requisiti cui le normative nazionali assoggettano la concessione di denominazioni nazionali di qualità, a differenza di quanto accade per le denominazioni di origine e le indicazioni di provenienza, possono riguardare solo le caratteristiche qualitative intrinseche dei prodotti, indipendentemente da qualsiasi considerazione relativa all’origine o alla provenienza geografica degli stessi. In particolare, si osserva che esiste una giurisprudenza risalente e costante della Corte di giustizia europea in materia di marchi di qualità di titolarità di enti pubblici, che ritiene incompatibile con il mercato unico, sulla base dell’articolo 34 del Trattato, la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo, «la quale di per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri» (si veda la sentenza della Corte UE del 12 ottobre 1978, causa 13/78, Eggers Sohn et Co. VS. Città di Brema); a tale principio fanno eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza.
Nella medesima prospettiva si pone, altresì, la decisione del 5 novembre 2002 (causa C-325/00), nella quale la Corte di giustizia dell’Unione europea ha censurato la Repubblica Federale di Germania, per aver violato l’articolo 34 del Trattato con la concessione del marchio di qualità «Markenqualität aus deutschen Landen» (qualità di marca della campagna tedesca), in quanto il messaggio pubblicitario, evidenziando la provenienza tedesca dei prodotti interessati, «può indurre i consumatori ad acquistare i prodotti che portano il marchio (…) escludendo i prodotti importati (…)». Nella stessa sentenza si rileva, inoltre, come il fatto che l’uso del suddetto marchio sia facoltativo — come previsto anche per il marchio oggetto del presente disegno di legge — non elimina il potenziale effetto distorsivo sugli scambi tra gli Stati membri, posto che l’uso del marchio «favorisce, o è atto a favorire, lo smercio dei prodotti in questione rispetto ai prodotti che non possono fregiarsene» (punto 24 della citata decisione).
Alla luce della normativa comunitaria e dei principi testé richiamati, affermati della giurisprudenza della Corte di giustizia, un ente pubblico può essere titolare di un marchio collettivo e concederne l’uso solo a condizione che tale marchio non attribuisca valore qualitativo all’origine della materia prima o del luogo di trasformazione, ma si basi esclusivamente sulle caratteristiche intrinseche del prodotto; sembrerebbe pertanto da ritenersi preclusa l’attribuzione di marchi relativi a prodotti diversi da quelli agroalimentari sulla base della mera provenienza geografica dei prodotti e senza che a quest’ultima risultino intrinsecamente connesse precise caratteristiche qualitative dei prodotti stessi. L’istituzione di un marchio collettivo di titolarità pubblica finalizzato a identificare genericamente le produzioni realizzate prevalentemente in Italia sembra pertanto suscettibile di determinare censure da parte delle istituzioni comunitarie.
Si ricorda, peraltro, come non abbia dato luogo a rilievi da parte delle istituzioni comunitarie la previsione di due marchi collettivi relativi a prodotti diversi da quelli agroalimentari ad opera della legge 9 luglio 1990, n. 188, che ha inteso tutelare la «ceramica artistica e tradizionale» prodotta in determinate zone del territorio nazionale secondo «forme, decori, tecniche e stili divenuti patrimonio storico e culturale delle singole zone» nonché la «ceramica italiana di qualità» prodotta in conformità ad un apposito disciplinare approvato dal Consiglio nazionale ceramico. In entrambi i casi il marchio viene attribuito esclusivamente a produzioni ceramiche localizzate nel territorio nazionale ma solo qualora presentino determinati requisiti qualitativi.
E d’altro canto deve essere comunque rilevata la finalità perseguita dal disegno di legge proposto attraverso l’istituzione di un marchio «Italian Quality» e consistente nell’assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, in conformità con il disposto di cui all’articolo 153 del Trattato che istituisce la Comunità europea. In questa prospettiva, con una risoluzione approvata il 26 settembre 2007, il Parlamento europeo ha invitato la Commissione di Bruxelles a valutare la possibilità di introdurre un marchio europeo per la sicurezza del consumatore e ha sollecitato il Consiglio degli Stati membri ad adottare l’etichetta «Made in» con la quale indicare il Paese di origine per i prodotti appartenenti ad alcuni settori merceologici (tessile e abbigliamento, gioielleria, vetro e ceramica, scarpe, cuoio, pellicce, mobili). Un’esigenza condivisa dalla maggioranza dei cittadini europei, che vedono nel marchio uno strumento di consapevolezza e sicurezza al momento dell’acquisto.
Inoltre, in questo senso rileva la proposta di Regolamento comunitario concernente l’introduzione dell’obbligo di indicazione del Paese d’origine sull’etichettatura di taluni prodotti importati da Paesi terzi [COM(2005) 661], finalizzata a porre rimedio alla posizione di svantaggio della Comunità europea rispetto ai suoi partner commerciali come Canada, Cina, Giappone e Stati Uniti, i quali già impongono l’obbligo di un marchio di origine sulle loro importazioni. Tale proposta di Regolamento rappresenta un importante passo in avanti, in relazione alla necessità di assicurare una corretta informazione ai consumatori, i quali attribuiscono un importante valore commerciale all’informazione sull’origine geografica di un prodotto, e di tutelare la competitività dell’industria comunitaria. La proposta di Regolamento è stata affrontata nel 2005 dalla Commissione e successivamente approvata dal Parlamento europeo nell’ottobre del 2010, grazie all’appoggio ed il sostegno di alcuni Paesi come l’Italia, in primis, Francia e Spagna, seppure avversata da altri Paesi come Gran Bretagna, Germania, Olanda e Paesi nordici. Questa stessa proposta è stata però ritirata dal programma legislativo della Commissione nell’ottobre 2012 e solo il 13 febbraio 2013 la Commissione europea — su iniziativa dei commissari europei all’Industria, Antonio Tajani (Vice Presidente della Commissione), e alla Salute e tutela dei consumatori, Tonio Borg — ha varato due nuove proposte di Regolamento sul «Made in», con particolare riguardo alla sicurezza ed all’indicazione d’origine obbligatoria dei prodotti di consumo non alimentari e sul miglioramento della sorveglianza di mercato nell’Ue per questi stessi prodotti.
Questa nuova proposta [COM(2013) 78 final] trae origine dal cambiamento della base giuridica e dalla volontà del Parlamento europeo che ha approvato a gennaio una risoluzione in cui sollecitava la Commissione a ripresentare una nuova proposta di Regolamento da inserire nel Programma legislativo 2013. Rispetto al Regolamento del 2005, la nuova proposta tende a superare le obiezioni dell’Organizzazione mondiale del commercio, prevedendo un obbligo di indicazione dell’origine non solo per i prodotti extracomunitari (come ad esempio «Made in China»), ma anche per gli stessi prodotti provenienti dall’Europa («Made in Europe»), con possibilità di indicare lo Stato membro di fabbricazione. In particolare, la proposta di Regolamento sulla sicurezza generale dei prodotti fissa delle regole per assicurare la loro piena tracciabilità, in base al quale vengono posti obblighi proporzionati e attentamente calibrati a tutti gli attori della filiera: dal produttore all’importatore, sino al distributore. Attraverso questo nuovo Regolamento, il consumatore potrà sapere esattamente cosa compra grazie a un’etichettatura in grado di identificare chiaramente le caratteristiche del prodotto.
Nello specifico, la disposizione di cui all’articolo 7 del proposto Regolamento prevede l’indicazione di origine obbligatoria e risponde alla necessità di individuare dove un prodotto è stato fabbricato ai fini della sua piena tracciabilità e, quindi, ad una maggiore responsabilizzazione di autorità di controllo e produttori. Per i beni prodotti in Europa, l’impresa potrà scegliere se indicare genericamente «Made in Europe» o più precisamente, ad esempio, «Made in Germany» o «Made in Slovakia» piuttosto che «Made in Italy» o «Made in France». Questa disposizione è del tutto compatibile con le regole dell’Organizzazione mondiale del Commercio, in quanto non discriminatoria, applicandosi allo stesso modo a merci Ue e non. È questa la grande differenza rispetto alla proposta sul «Made in» del 2005 che imponeva la marcatura solo ai prodotti importati dai Paesi terzi. Quella proposta aveva come base giuridica l’articolo 133 del Trattato, oggi 207, quello che disciplina la competenza dell’Unione europea in materia di politica commerciale. La proposta dei commissari europei all’Industria e alla Salute è invece basata sull’articolo 114, che consente il ravvicinamento di legislazioni per l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno. Disposizione che ci si aspetta possa essere fortemente sostenuta dal Parlamento europeo che, lo scorso 17 gennaio, ha adottato una Risoluzione nella quale sottolineava l’importanza di una corretta informazione del consumatore. Pertanto, la ratio del presente disegno di legge appare compatibile con i più recenti orientamenti comunitari in materia, realizzando un equo contemperamento dei citati interessi comunitari (libera circolazione delle merci tra Stati membri e corretta informazione dei consumatori).
Per quanto concerne il livello nazionale, la disciplina dei marchi è contenuta in atti normativi di rango primario e, in particolare, nel decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, recante il Codice della proprietà industriale e negli articoli 2569 e ss. del codice civile. Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite, il nuovo testo dell’articolo 117 della Costituzione, al comma secondo, lettera r), attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di opere. Il marchio, in quanto segno distintivo — volto cioè a distinguere i prodotti o servizi di un’impresa da quelli di altre imprese — è istituto connesso alla materia delle opere dell’ingegno essendo comunemente utilizzato per identificare e tutelare queste ultime. Inoltre, deve considerarsi come la disciplina del marchio sia essenzialmente volta a prevenire ed a reprimere atti di concorrenza sleale e la materia della tutela della concorrenza risulti di esclusiva competenza dello Stato ai sensi del secondo comma, lettera e), dell’articolo 117 della Costituzione. Così pure la disciplina del marchio, contenuta nel codice civile (articoli 2569-2572) e nel citato codice della proprietà industriale, deve essere ricondotta alla materia dell’ordinamento civile, di esclusiva competenza dello Stato ai sensi del secondo comma, lettera l), dell’articolo 117 della Costituzione.
La tutela sui mercati mondiali dei prodotti tipici del «Made in Italy» è stata poi più volte indicata tra le linee di azione prioritarie previste nei documenti di programmazione economico-finanziaria approvati nel corso delle passate legislature. L’obiettivo è stato perseguito dapprima sul versante della promozione e della riconoscibilità sui mercati esteri della produzione italiana, con un pacchetto di misure che sono state inserite nella legge finanziaria per il 2004; successivamente gli interventi si sono concentrati sul profilo della lotta alla contraffazione dei prodotti. Nella legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria 2004) all’articolo 4 (commi da 49 a 84), sono state inserite apposite norme finalizzate a promuovere la produzione italiana («Made in Italy») e a tutelare i diritti di proprietà industriale e intellettuale delle imprese italiane sui mercati esteri, prevedendo a tutela delle merci prodotte integralmente in Italia o considerate prodotto italiano ai sensi della normativa europea in materia di origine, la regolamentazione dell’etichettatura «Made in Italy», oltre che la possibilità di adottare un apposito marchio.
In particolare, la legge finanziaria 2004 ha istituito un Fondo di promozione straordinaria del «Made in Italy», presso il Ministero delle attività produttive (ora Ministero dello Sviluppo economico), ai fini di una campagna promozionale straordinaria a sostegno della produzione italiana. Ai sensi dell’articolo 4, comma 61, si prevede la possibilità di disporre di questo Fondo per «l’istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine». Il presente disegno di legge, quindi, s’inserisce sulla scia di questa disposizione, posto anche che il comma 63 del citato articolo 4 dispone che «le modalità di regolamentazione delle indicazioni di origine e di istituzione ed uso del marchio di cui al comma 61» sono definite con un apposito regolamento, che ad oggi non risulta essere stato emanato.
Nel merito della proposta, che fa riferimento al modello tedesco di marchio collettivo volontario, e quindi al Geräte — und Produktsicherheitsgesetz del 2004 (in particolare, alla sezione 7 e all’articolo 7 della proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sulla sicurezza dei prodotti di consumo del 13 febbraio 2013 [COM(2013) 78 final], il disegno di legge si compone di 7 articoli.
All’articolo 1, al fine di favorire la crescita delle esportazioni dei prodotti italiani, nonché di garantire la protezione dei consumatori attraverso la piena e corretta informazione in ordine al ciclo produttivo delle merci, è istituito il marchio «Italian Quality» (di seguito marchio). La scelta del nome del marchio è volta a superare la citata confusione terminologica che può intervenire tra «marchio» e «marcatura d’origine» che alcuni prodotti possono già vantare. La ratio sottesa all’istituzione del marchio collettivo come disciplinato nel presente disegno di legge, infatti, fa riferimento all’esigenza di maggiore trasparenza circa l’origine dei prodotti, laddove anche il «luogo di produzione» fa parte del «come del processo produttivo», nel senso che l’attività svolta in un certo Paese risponde sia a specifiche tradizioni che a specifiche normative, le quali si riflettono inevitabilmente sull’atto produttivo e, quindi, sul prodotto. Secondo questa prospettiva, le caratteristiche qualitative intrinseche e oggettive del prodotto marchiato «Italian Quality» costituiscono evidentemente una conseguenza inscindibile e imprescindibile del fatto che più fasi del processo produttivo sono avvenute nel nostro Paese. In sostanza, si tratta di mettere il consumatore in condizioni di riconoscere le produzioni italiane per le quali non solo «l’ultima trasformazione sostanziale» è stata realizzata nel territorio nazionale (si veda il citato articolo 24 del codice doganale comunitario), arrestando così quell’indubbia diluizione del valore reputazionale del «Made in Italy» determinatasi a seguito dell’incremento degli scambi import-export dei primi anni duemila, in assenza di un obbligo di marcatura d’origine sui prodotti a livello europeo.
L’istituzione del marchio è volta all’identificazione dei prodotti italiani che presentano caratteristiche di eccellenza, per tali intendendo quei prodotti finiti realizzati da professionisti, artigiani ed imprese, iscritti alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e aventi domicilio fiscale nel territorio italiano, che riportano la marcatura d’origine «Made in Italy», in ottemperanza al codice doganale comunitario; hanno subìto nel territorio italiano almeno una operazione ulteriore e precedente l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ai sensi dell’articolo 24 del codice doganale comunitario; sono stati realizzati nel rispetto delle condizioni previste dal disciplinare di settore di cui all’articolo 2, comma 1, della presente legge.
L’articolo 2, comma 1, prevede infatti che la proprietà del marchio spetti allo Stato italiano, così come il rilascio della relativa autorizzazione all’uso che rimane di competenza del Ministero dello sviluppo economico ed avviene secondo modalità da esso definite con apposito decreto, da emanarsi entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, d’intesa con il Ministro dell’economia, sentita la Conferenza Stato-Regioni. Con il medesimo decreto, il Ministero dello sviluppo economico è tenuto a stabilire uno o più disciplinari di settore ai quali professionisti, artigiani ed imprese si attengono ai fini della richiesta di autorizzazione all’uso del marchio, nonché le modalità per l’esecuzione uniforme su tutto il territorio nazionale dei relativi controlli.
Il comma 2 dell’articolo 2 prevede poi che l’autorizzazione all’uso del marchio sia rilasciata dal Ministero dello sviluppo economico a società semplici, in nome collettivo e cooperative, società in accomandita semplice, società a responsabilità limitata, reti di imprese, organizzazioni di produttori e consorzi o società consortili, anche in forma cooperativa, costituiti da imprese, anche artigiane, facenti parte di specifiche filiere produttive, a valere chiaramente sui prodotti che l’impresa realizza nel rispetto delle condizioni stabilite per l’autorizzazione all’uso del marchio dalla presente legge e dal disciplinare di settore di cui all’articolo 2, comma 1.
L’articolo 3 dispone che il Ministero dello sviluppo economico provveda alla registrazione del marchio in sede comunitaria e internazionale, mentre ai fini della riconoscibilità e della tutela del marchio, l’articolo 4 stabilisce che il Ministro dello sviluppo economico debba prevedere, mediante il decreto di cui all’articolo 2, un sistema di etichettatura adeguato a garantire l’originalità dei prodotti recanti il marchio.
L’articolo 5, rubricato «Promozione del marchio», al comma 1 dispone che il Ministero dello sviluppo economico predisponga campagne annuali di promozione del marchio nel territorio nazionale nonché sui principali mercati internazionali per il sostegno e la valorizzazione della produzione italiana e per la sensibilizzazione del pubblico ai fini della tutela del consumatore. Al comma 2 dell’articolo 5 si stabilisce inoltre la possibilità per le imprese facenti parte di reti di imprese, organizzazioni di produttori, consorzi e imprese, anche artigiane, facenti parte di specifiche filiere produttive, di concertare con le regioni, i comuni e le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura interessati, azioni promozionali dei prodotti contrassegnati dal marchio mentre al comma 3 è disposta l’istituzione, presso il, Ministero dello sviluppo l economico, dell’albo delle imprese abilitate a utilizzare per uno o più prodotti il marchio, albo che deve essere accessibile sul sito internet del Ministero stesso.L’articolo 5, rubricato “Promozione del marchio”, al comma 1 dispone che il Ministero dello sviluppo economico predisponga campagne annuali di promozione del marchio nel territorio nazionale nonché sui principali mercati internazionali per il sostegno e la valorizzazione della produzione italiana e per la sensibilizzazione del pubblico ai fini della tutela del consumatore. Al comma 2 dell’articolo 5 si stabilisce inoltre la possibilità per le imprese facenti parte di reti di imprese, organizzazioni di produttori, consorzi e imprese, anche artigiane, facenti parte di specifiche filiere produttive, di concertare con le regioni, i comuni e le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura interessati, azioni promozionali dei prodotti contrassegnati dal marchio mentre al comma 3 è disposta l’istituzione, presso il, Ministero dello sviluppo l economico, dell’albo delle imprese abilitate a utilizzare per uno o più prodotti il marchio, albo che deve essere accessibile sul sito internet del Ministero stesso.
All’articolo 6, comma 1, si prevede che il Ministero dello sviluppo economico acquisisca notizie atte a verificare la sussistenza dei requisiti per l’utilizzo del marchio segnalando eventuali ipotesi di indebito utilizzo, ai fini dei conseguenti accertamenti da effettuarsi secondo le modalità stabilite dal decreto di cui all’articolo 2, comma 1. Nel caso in cui si riscontrino violazioni nell’utilizzo del marchio secondo il comma 1 o il venir meno dei requisiti per l’utilizzo del medesimo, il comma 2 dell’articolo 6 stabilisce che il Ministero dello sviluppo economico revochi l’autorizzazione all’utilizzo del marchio. Ove sia riscontrata una violazione della disciplina relativa al marchio, l’articolo 6 dispone che a professionisti, artigiani ed imprese interessa dal provvedimento di revoca sia inibita la possibilità di presentare nuove richieste di autorizzazione all’utilizzo del marchio prima che siano decorsi tre anni da tale provvedimento, che diventano cinque nel caso in cui tale richiesta riguardi lo stesso prodotto per il quale è intervenuto il provvedimento di revoca (comma 3). Inoltre, il comma 4 dell’articolo 6, al primo periodo prevede che, qualora ne abbia notizia, il Ministero dello sviluppo economico debba segnalare all’autorità giudiziaria, per le iniziative di sua competenza, i casi di contraffazione e di uso abusivo del marchio e al secondo periodo che si applicano le disposizioni di cui agli articoli 144 e seguenti del codice della proprietà industriale, di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30.
Infine, il comma 5, dell’articolo 6 stabilisce che con il medesimo decreto di cui all’articolo 2 sono altresì stabilite ulteriori sanzioni nel caso di uso fraudolento del marchio ovvero false o fallaci indicazioni ai sensi dell’articolo 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e successive modificazioni.
Da ultimo, a copertura delle spese per l’introduzione del marchio e la sua promozione, l’articolo 7 dispone che si provvede a valere sulle risorse del Fondo di promozione straordinaria del «Made in Italy» di cui all’articolo 4, comma 61, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e successive modificazioni.