Questi primi anni d’inizio millennio hanno proiettato ciascuno di noi all’interno di una nuova dimensione esistenziale: con la globalizzazione, lo spazio si è esteso al di sopra di ogni confine geografico e, con l’affastellarsi di numerosissime discontinuità, lo scorrere del tempo di vita ha subito una fenomenale accelerazione. Il combinarsi di queste due tendenze opposte – la dilatazione dello spazio percepito e la contrazione del tempo della realtà – ha reso ogni cambiamento molto più rapido del tempo necessario a percepirlo, concettualizzarlo e accettarlo.
A complicare questo già difficile quadro, interviene poi il fenomeno della pressione mediatica, vero cuore pulsante della quotidianità: ogni player della comunicazione raccoglie, costruisce, assembla, amplifica, lancia e rilancia, accadimenti vicini e lontani, ora rilevanti ora marginali, conferendo alla realtà il senso di una ritmica sostenuta e incalzante, per molti (forse) insostenibile.
Niente di strano, quindi, se siamo (ci sentiamo) un po’ disorientati. Niente di strano se ci sfugge qualche accadimento importante. Niente di strano se non afferriamo qualche mutamento in essere di uno o più pezzi della nostra realtà.
Sotto il nostro cielo sta avvenendo, infatti, qualcosa d’interessante a uno dei costrutti sociologici più popolari e (ab)usati da tutti. Ci riferiamo alla generazione.
Una generazione è uno stock di popolazione che condivide un tempo di nascita e un bagaglio condiviso di esperienza, dato dall’esposizione a certi eventi caratterizzanti il tempo proprio della generazione medesima. I membri di una generazione hanno perciò molto in comune fra di loro e poco da spartire con quelli delle generazioni limitrofe, in particolar modo antecedenti. Di qui il celeberrimo conflitto generazionale che tanto ha dato all’Occidente come fonte d’ispirazione creativa, artistica, politica e sociale.
Se guardiamo alle generazioni che stanno oggi popolando il nostro Paese con attenzione, calma e profondità di sguardo, possiamo notare il concomitante prodursi di tre fatti, uno per ciascuna.
La generazione dei Baby Boomer (1946-1960) ha deciso di non invecchiare. Per la prima volta nella storia dell’Uomo, l’aspirazione dell’eterna giovinezza sembra (almeno parzialmente) realizzabile, grazie al miglioramento delle condizioni di vita, dell’alimentazione, delle cure, dei farmaci. “Sessantenni sprint” sfrecciano sulle loro auto costose, magari accompagnati da giovani ragazze straniere e affollano ristoranti e locali, palestre e centri benessere, agriturismi e aerei, cinema e (meno) teatri. Possiedono due risorse preziosissime: del tempo (libero e liberato dal lavoro e dalle incombenze familiari) e del denaro, più nella forma del patrimonio che del reddito. Qualche pillola colorata fa il resto, ed ecco lo spettacolo di una generazione rivitalizzata, che non assume gli stili di vita che ci si aspetterebbe seguissero.
La generazione X (1960-1980) fatica o, addirittura, non riesce a diventare adulta. Con un’economia che ha abbandonato l’età dell’Oro del secondo dopoguerra, fatta di abbondanza di lavoro e welfare per tutti, e dei genitori che rifiutano di mettersi da parte, perché rivitalizzati e desiderosi di dire ancora la loro, i nati in questo blocco vivono uno stallo perenne. La transizione generazionale incompiuta pesa sulla loro identità, ne rallenta i tempi di emancipazione, mette a rischio le prospettive di realizzazione individuale. Di qui la brusca frenata del rinnovamento della popolazione: la nascita di un figlio, evento-progetto per eccellenza, viene rimandato, annullato, perché privo delle condizioni, materiali ed emotive, di contesto.
La generazione Y (1980-2000) inverte il legame pedagogico con le precedenti. È una generazione, detta anche dei Millennial, che non guarda più alle precedenti per trarne insegnamento, ma è lei ad avere qualcosa da insegnare: la tecnologia digitale e le sue meraviglie. Nati e cresciuti in un regime di grande affinità con la tecnologia e i media, di sostanziale disincanto verso i simboli e le narrative della società dei consumi novecentesca, di approcci educativi aperti e in contesti familiari in (rapido) corso di decostruzione e ridefinizione strutturale, i suoi componenti sono gli iniziatori di una vera e propria mutazione genetica collettiva rispetto alle due generazioni precedenti, ancora non compiutamente definita.
È forse la prima volta nella storia umana che le generazioni che convivono e condividono uno stesso suolo, non vivono più sotto lo stesso cielo.
L’aria che tira non è la stessa per tutti.
La paura è il vento che domina la quotidianità dei Baby Boomer e della X Generation: la paura di perdere quello che si è ottenuto e accumulato – in particolare per i primi – la paura di non avere più il tempo per ottenere quello cui si aspira – specialmente i secondi. La paura è dovuta anche alla maggiore consapevolezza della realtà che queste generazioni, per via della maggiore esperienza accumulata, possiedono.
Il senso di un dolce ma definitivo distacco in atto, domina i millennial digitalizzati e secolarizzati. Non è un semplice allontanamento temporaneo indotto dal conflitto generazionale (che non c’è più), ma una progressiva, morbida, presa di distanza dei giovani dai predecessori. Soggetti già protagonisti, laici nell’atteggiamento mentale verso tutto ciò che il secondo dopoguerra ha costruito come modello di vita felice, lontani dalle dicotomie di genere (ma forse più vicini dei loro predecessori a quelle di classe sociale), disincantati rispetto ai bisogni piramidali alla Maslow, sprezzanti della politica. È un fiume in piena difficile, oggi, da individuare e inquadrare, rispetto al quale tutti noi che stiamo leggendo queste righe siamo distanti e diversi. Ben più di quanto pensiamo di esserlo.
La nuova dimensione esistenziale di cui dicemmo all’inizio ci ha forse distratti rispetto a questi tre fenomeni, il cui impatto combinato disporsi sulle forme e strutture del nostro Paese è affatto marginale e appare foriero di conseguenze politiche, economiche e sociali. Quali? “Stay tuned”, direbbe un millennial.
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