HomeCulturaUniversità, Puglisi: “Evitiamo la fiera delle telematiche”

Università, Puglisi: “Evitiamo la fiera delle telematiche”

di
Valentina Renzopaoli

Le università private potrebbero diventare società di capitali. A questo tema, l’Eurispes ha dedicato una ricerca intitolata “Trasformare in società di capitali le università non statali”. E recentemente il Consiglio di Stato si è espresso in merito emettendo un parere. Quali sono le prospettive e quali sono le criticità? Ne parliamo con il Prof. Giovanni Puglisi, Rettore dell’Università degli Studi di Enna “Kore”, componente del Consiglio Universitario Nazionale, per molti anni membro del Comitato dei Garanti dell’Italian Academy di Columbia University e per circa 15 anni stato Rettore dell’Università IULM di Milano, di cui oggi è Presidente.

Prof. Giovanni Puglisi, in un futuro prossimo, le università private potrebbero diventare società di capitali. A dare il via libera al provvedimento che potrebbe modificare il sistema dell’istruzione universitaria, è stato il Consiglio di Stato che si è espresso sul merito, rispondendo ad una richiesta formulata dal Miur. A questo tema, l’Eurispes, aveva dedicato qualche settimana fa, una ricerca intitolata “Trasformare in società di capitali le università non statali”. Come valuta questa eventualità?
Debbo precisare che le notizie date sono una semplificazione giornalistica di un problema importante ma molto complesso. Innanzitutto, il Consiglio di Stato non ha emesso nessuna sentenza ma si tratta soltanto di un parere. Il parere è stato molto difficile perché è arrivato in seconda battuta dopo un primo parere interlocutorio e non è “disco verde” a nulla. Si tratta di 37 pagine di cui 34 sono una interessante discussione in punto teorico giuridico sulle società di capitali, in ratione e in ragione della loro natura genetica e delle loro finalità. Uno splendido saggio che va ad arricchire la letteratura giuridica in termini di diritto pubblico dell’economia, di diritto costituzionale e amministrativo; insomma, un eccellente lavoro. Detto questo, il Consiglio di Stato, il parare lo emette nelle battute finali, quando sostiene che «non esiste nessuna norma giuridica che vieti che le società di capitali possano mettere al loro interno un’università». Secondo una vecchia dottrina, ciò che non è previsto non è vietato. Ecco, questo passaggio fa scaturire un dubbio.

Mi spieghi professore…
A mio parere, il Consiglio di Stato non chiarisce se parliamo della possibilità che le università non statali si possano trasformare in società di capitali tout court o se società di capitali possano avere nella loro “pancia” un’università.
È un punto da dirimere perché, se sono le società che hanno in pancia le università, l’università diventa un ramo d’impresa e la società può continuare a vivere indipendentemente dall’univertà perché probabilmente ha anche altri rami d’impresa. Se invece la società “è” l’università, il problema è un po’ più complesso.

Quindi la stampa, a suo parere, ha dato un’informazione sbagliata?
Dire, come ha detto la stampa, che il Consiglio di Stato ha dato il via libera, non è corretto. Il Consiglio di Stato ha fatto uno splendido saggio che va bene per gli studiosi di diritto pubblico dell’economia ma dal punto di vista politico; il Consiglio di Stato poteva esprimere solo un parere che ha comunque la necessità di una norma di legge apposita del Parlamento che dirima le criticità in materia. Del resto, lo stesso Consiglio di Stato esplicita in modo chiaro questo passaggio.

Lei sarebbe favorevole o no al cambiamento?
Mi lasci dire una cosa: capisco che la formazione possa essere una linea di business, però in un mondo in cui l’analfabetismo cresce; in cui esiste un problema serio sulla qualità della formazione primaria, secondaria e superiore e dell’alta formazione; in un mondo in cui, soprattutto in Italia, il sistema universitario ha difficoltà significative nello sviluppo in termini di qualità e di profitto; in un Paese diviso in “due Italie” ‒ una che ha potenzialità molto alte di sviluppo e quindi di business e un’Italia che ha potenzialità meno alte, che è il Sud ‒ non so quanto sia saggio inserire una “terza” situazione che diventa concorrenziale al sistema pubblico, al sistema privato non profit, creando un “tertium genus” tutto orientato al profit di privati. Dunque, per rispondere alla sua domanda, in linea di principio, io non sono contrario. Però credo che tutto questo non possa essere messo in campo con una semplice norma di legge che liberalizzi il settore, affidandolo, senza regole, ad un mercato selvaggio di interessi individuali o di gruppi italiani o stranieri. Occorre una regolamentazione ben articolata, altrimenti si corre il rischio di drogare il mercato e l’alta formazione.

Di fatto, però, l’attuale configurazione del sistema, frutto di diversi passaggi legislativi, e basata sul binomio autonomia/articolazione dell’offerta, pone già, gli atenei statali in diretta competizione tra loro e con gli enti privati.
Logico che c’è un sistema di concorrenza ma la concorrenza deve avere delle regole che nel mondo universitario, non sono sicuro ci siano. Il sistema è già abbastanza selvaggio: in questa competizione, oggi, la gente sceglie secondo due parametri: la fama dell’Ateneo (spesso misurata con classifiche non certificate) e la disponibilità economica degli utenti. Dovrebbe essere più rigoroso il sistema selettivo. Incentiviamo la concorrenza ma mettiamo regole vere. Poi, diciamolo con franchezza, in Italia questa vicenda è legata principalmente al nodo “telematiche”.

Cosa intende dire?
In tutto il mondo, i grandi Paesi hanno una sola università telematica ‒ le famose open university ‒ che serve l’intero Paese; in Italia, invece, abbiamo “la fiera” delle università telematiche; addirittura abbiamo università tradizionali che vengono affiancate da quelle telematiche. E la telematica in Italia non nasce per un impulso irresistibile di ampliamento della piattaforma formativa alle classe deboli, ma nasce per un impulso irresistibile a migliorare i propri conti. Per chi ha una società è un investimento; per chi ha un’università tradizionale è un tentativo di avere più clienti. La vocazione al profilo giuridico di università private di capitali in Italia è, quindi, profondamente diversa dalla vocazione che ha fatto nascere esperienze analoghe negli Stati Uniti, come Columbia University o Stanford, che sono invocate spesso e impropriamente come casi di riferimento.
C’è poi un aspetto macroscopico che riguarda l’autonomia del docenti e sui cui il Consiglio di Stato non è chiaro. Il problema che mi pongo è il seguente: come una società di capitali, quindi privata, possa contrattualizzare dei dipendenti pubblici. Ovvero: come si regolerebbe il rapporto tra le società di capitali e docenti? I docenti resterebbero pubblici? Dipenderebbero dallo Stato o dalla società di capitali? Oggi le non statali non profit utilizzano e pagano professori che restano comunque nell’àlveo di un sistema pubblicistico (per esempio continuano a far parte delle Commissioni ASN e di valutazione comparativa). La differenza è che, oggi, l’università non statale che paga un professore, lo fa senza il rischio o il dubbio che essa possa chiedere al professore di seguire una linea ideologica o di parte. Nel momento in cui il docente si trovasse a lavorare per una società di capitali che deve fare business e profitto, siamo sicuri che l’insegnante riesca a mantenere quell’autonomia professionale e morale che è garantita, per i professori universitari, dalla Costituzione?

Lei, insomma, sta ponendo un tema che è etico e deontologico?
Non c’è dubbio. Sono sulla linea del Consiglio di Stato: non c’è nulla oggi che vieti che si realizzi questo progetto. Però il legislatore, che mette mano a questo tertium genus, deve porsi tutti questi problemi e se li deve porre prima di fare la “frittata”.

Senta professore, secondo una recente ricerca dell’Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia), il 90,5% dei ricercatori italiani è destinato a lasciare l’Università. Motivo per cui, tanti ricercatori italiani emigrano all’estero. D’altro canto, il finanziamento pubblico alle università italiane è pari allo 0,41% del Pil, contro lo 0,93% della Germania e l’1,06% della Francia. Da decano dei rettori, non le fa male leggere questi risultati?
Certo che mi fa male. Il nostro Paese è tra le sette più industrializzate economie del mondo, e per quanto riguarda il manufatturiero è in cima alla lista; però è un Paese che spesso non si pone il problema di come è arrivato in vetta; né se lo pone, soprattutto, la sua attuale classe dirigente. Ecco, l’Italia è arrivata in vetta perché c’è stata, nella seconda metà del secolo scorso, una molla etica che ha dato a questo Paese uno slancio formidabile in tutti i settori, compreso quello dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Abbiamo un’università che è apprezzata dal mondo intero, e ne siamo certi perché quando i nostri studiosi arrivano in altri paesi, li prendono e li tengono. Peccato che tutto questo sia finito in una zona entropica; quello che ora, invece, sta succedendo è che si sta riducendo il supporto a tutte le attività di sviluppo, ricerca, formazione, servizi, etc; in questo modo, da un lato, depotenziamo il sistema, per cui lentamente potrebbe finire in un degrado; in secondo luogo, induciamo i nostri giovani ad andare all’estero.
In tutto questo, il Governo cosa fa? Riduce i finanziamenti alle università statali, azzera quasi la contribuzione alle non statali non profit e, oggi, sembrerebbe guardare addirittura a questo mondo come una fonte di approvvigionamento fiscale per le casse dello Stato. E questo è il Paese dove vogliamo creare il tertium genus delle società di capitali per la formazione superiore? Io sono un ottimista, e non sono contrario in via di principio. Ma, a mani giunte e in ginocchio, mettiamo regole trasparenti, ma regole vere che si rispettino, e che prevedano una severa sanzione per chi le vìola. Un appello infine: facciamo leggere le carte di questa idea legislativa a Sergio Mattarella: ma non al “Presidente Mattarella”, bensì al “Professore Mattarella”, accademico di lungo corso. Forse un consiglio di scienza e di vita ce lo potrebbe dare.

Per approfondimenti, è possibile consultare lo studio dell’Eurispes “La trasformazione in società di capitali delle Università non statali” nella versione integrale

https://eurispes.eu/ricerca-rapporto/2019-2/le-universita-non-statali-in-italia-ipotesi-di-trasformazione-in-societa-di-capitali/

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