Hillary Clinton, verso Usa 2016

La corsa al “novembre 2016” parte con un grande anticipo rispetto alle logiche europee.
Barack Obama annunciò la sua candidatura il 10 febbraio 2007. Un intero anno per farsi conoscere, per convincere, per raccogliere fondi e mobilitare volontari, per “fare la campagna” in un Paese con 340milioni di abitanti, in cui votano in meno di 220milioni. Il che impegna la campagna presidenziale in primo luogo nel “convincere” le persone a iscriversi nelle liste elettorali.

Come nel 2007 anche questa volta per i democratici il candidato favorito nelle presidenziali 2016 sembra essere Hillary Clinton, ex First Lady, ex senatrice dello Stato di New York ed ex Segretario di Stato.
Va ricordato tuttavia che la Clinton è ben nota all’estero, ma molto poco centrale nella politica americana; è un personaggio conosciuto, ma amato prevalentemente in ambienti elitari che le consentono di raccogliere una grande quantità di fondi e le offrono una ottima copertura mediatica. Ma la ex First Lady non è particolarmente apprezzato dalla massa degli elettori, al contrario di quanto avviene per molti senatori e governatori in carica.
Grazie all’eredità di Bill Clinton e all’appeal di Obama in Europa i democratici sembrano veleggiare. Così, mentre all’estero non sono noti i nomi dei candidati repubblicani (che hanno una straordinaria forza interna), conosciamo bene i nomi di candidati democratici, talvolta non altrettanto popolari e amati in casa propria. Peccato che votino gli americani.
Accade spesso che il presidente democratico eletto vinca gli Stati chiave (quelli col maggior numero di voti presidenziali) ma non “numericamente il numero degli Stati”, e superi di pochissimo la conta dei  voti popolari. Il GOP, il Grand Old Party repubblicano, può contare invece su di un saldo consenso territoriale, mantenendo costantemente – salvo che in un paio di eccezionali bienni – la maggioranza dei deputati e dei senatori, e di fatto condizionando fortemente, se non bloccando, l’azione politica del Presidente.

A novembre 2016 non si voterà solo per il Presidente. Nella stessa data si rinnovano infatti i parlamenti e i governatorati di circa 30 Stati, numerosissimi consigli comunali e municipali, Corti di stato e di giustizia, l’intero Congresso e un terzo del Senato (33 senatori oltre eventuali seggi vacanti). Anche questo è un elemento fondamentale per comprendere i tempi dilatati di questa lunga corsa.

I candidati alle primarie “stringono accordi e alleanze”, interne e qualche volta esterne al proprio partito, con i vari soggetti di questo mostro elettorale, e guardano alla platea complessiva degli elettori.
Tra gennaio e giugno 2016 si terranno i “caucus”  le votazioni primarie negli Stati dell’Unione, e chi vincerà di fatto sceglierà – anche in funzione del consenso e dell’appoggio ricevuto nella sua campagna – i vari candidati in tutte queste elezioni locali. In questa logica scendere presto in campo significa assicurarsi una dote politica in grado di influire sulle scelte dell’effettivo presidente nominato, poter garantire la candidatura ai propri uomini, scegliere alcune nomine e semmai prenotare un ruolo influente nel nuovo Congresso o nel nuovo Senato, se non nel governo.

Ma partire “presto” assicura un altro asset politicamente strategico : il consolidamento mediatico della propria posizione, che assicura i tempi giusti per stringere accordi politici territoriali, e soprattutto raccogliere i fondi necessari per la propria campagna e il sostegno del maggior numero di volontari: che si vinca o che si perda questa sarà la “dote” da mettere sul piatto per appoggiare questo o quel candidato tra gennaio e giugno 2016.
Partire” presto” per un candidato ritenuto favorito significa fare terra bruciata di finanziatori e sostenitori attorno a possibili sfidanti, che avrebbero molta difficoltà a contrastare un candidato su cui tutti puntano proprio perché considerato vincente.

I giochi tuttavia non si chiudono a giugno, quando si esprimono gli Stati e quindi si fa la “conta” dei voti e degli elettori, per i repubblicani, o dei delegati, per i democratici. La vera sfida è tra fine agosto e la prima settimana di settembre 2016, quando si tengono le convenzioni dei partiti, che confermano quella candidatura. Sono tre mesi in cui “si definiscono gli equilibri interni”, si chiariscono i rapporti di forza, i candidati al Congresso, al Senato, negli stati… tutte partite che attraggono potenziali finanziatori, volontari, alleanze, e in definitiva il consenso necessario per essere un “cavallo vincente” negli ultimi settimane di campagna elettorale.

Infine le cifre, che rappresentano al meglio tutta questa macchina. Le ultime elezioni presidenziali sono costate oltre 3 miliardi di dollari. Cifra record polverizzata dalle elezioni di medio termine del 2014, in cui sono stati spesi oltre 4,1 miliardi. Secondo alcuni analisti queste presidenziali supereranno la soglia psicologica dei 10 miliardi, di cui 6 miliardi solo per le presidenziali.

La macchina in campo perla scelta di oltre 6.000 figure (dallo sceriffo di contea al senatore dello stato, passando per i rispettivi parlamenti statali e governatorati) che vengono elette a novembre 2016 è imponente e se volessimo semplificare e sommare tra loro i partiti e i comitati elettorali parliamo di oltre 10.000 professionisti, 250mila volontari, 20mila comitati e sezioni elettorali. A tutto questo si sommano oltre 400 agenzie e aziende di pr e comunicazione che vengono coinvolte nella campagna, e che per sei mesi lavorano a tempo pieno solo nella comunicazione politica.

I candidati che attualmente hanno ufficializzato la propria candidatura sono Hillary Clinton (democratica – il 12 aprile) e i repubblicani Ted Cruz (23 marzo) Paul Rand (7 aprile) e Marco Rubio (13 aprile), quest’ultimo con una mossa strategica notevole: annunciando già il ticket con Paul Ryan, una delle anime della destra repubblicana.

La sfida all’interno dei democratici è tutt’altro che chiusa. La mossa della Clinton è quella di sempre: cavalcare l’onda dell’essere la favorita, sfruttare al massimo la macchina organizzativa di famiglia (nel 2007 raccolse da sola prima delle primarie oltre 120 milioni solo per la propria campagna, mentre Obama ne raccolse meno di 30 nello stesso periodo), e cercare così di dissuadere possibili antagonisti (semmai spingendoli ad un accordo preventivo). Ma come nel 2007 non sono escluse sorprese. La comunicazione della Clinton evidenzia forti limiti di raccolta del consenso a livello interno, specie sulle forti minoranze. Per questo la partita del 2007, che nella vox populi doveva essere già chiusa, vide una decina di candidati in campo, che diluirono di molto la sua forza organizzativa e politica.

hillary

 

La sfida in campo repubblicano è ancora più aperta. Con il risultato delle elezioni di medio termine il GOP è molto rafforzato a livello territoriale e punta alla conferma della propria rappresentanza legislativa, che configurerebbe il potente braccio armato di un’amministrazione a guida repubblicana.
Il peso maggiore stavolta lo avrà – ne ha già dato prova l’anno scorso – il Tea Party.  I fratelli Koch, vera anima politica e organizzatrice di questo “partito nel partito” (per alcuni un vero e proprio terzo partito) hanno annunciato nel corso dell’incontro annuale a Palm Springs che direttamente e indirettamente avrebbero investito circa 900 milioni nella campagna repubblicana (il doppio di due anni fa).
Un peso economico – ma anche un pacchetto di sostenitori politici – che fa gola a tutti i candidati repubblicani: presenti all’incontro infatti tutti e tre gli attuali candidati, i tre senatori, Rand Paul, Ted Cruz e Marco Rubio, tutti alla ricerca di quel sostegno.
L’annuncio di Rubio del ticket con Ryan (il già candidato vice di Romney all’epoca di fatto imposto come rappresentante del tea-party) va esattamente in questa direzione, oltre che consolidare il sostegno dell’anima “bianca” del Gop, che comunque digerisce poco e male un candidato “non bianco protestante”. Rubio è infatti figlio di cubani immigrati in Usa alla metà degli anni ’50.
Anche in casa repubblicana i giochi sono tutt’altro che chiusi. Per Jeb Bush si tratta di un’ ultima chance (se vincesse Rubio dopo i probabili 2 mandati l’alternanza con Ryan sarebbe implicita e per lui sarebbe chiusa ogni porta per la Casa Bianca). Anche per questo (e forse solo per questo) il “terzo Bush” potrebbe essere quasi costretto dall’anima del sud bianco a scendere in campo per queste primarie.

Insomma, la sfida è lunga e quanto mai aperta in entrambi gli schieramenti.
Le sorprese non mancheranno, anche per quanti sono considerati in grande vantaggio, soprattutto perché la nostra percezione europea, sia sui candidati sia sulla politica americana e sui suoi meccanismi, è oltremodo falsata da una narrazione spesso televisiva assolutamente deformata e deformante.
Per comprendere al meglio questa fase, almeno sino a dopo l’estate, per vedere chi effettivamente resterà in campo e con quale respiro finanziario, occorrerà quanto mai seguire le scelte dei “grandi strategist”. Ma spesso anche i più ferrati commentatori politici da questa parte dell’atlantico conoscono poco “chi conta davvero a Washington” e si fermano a interpretare alla bene e meglio i talk show, caricandoli di un valore che in realtà è assai relativo.

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