Violenza sulle donne, violenza psicologica, femminicidi. Tre facce della stessa medaglia. Tre fenomeni strettamente collegati tra di loro che richiamano subito alla mente le molte immagini di casi cronaca, ma solo parzialmente ci restituiscono la complessità di una violenza sommersa e quotidiana. Sconvolgente per chi la subisce, questa violenza, che deteriora, giorno dopo giorno, fino a provocare gravi danni psicologici e cicatrici difficili da rimarginare. In molti casi, poi, l’epilogo è fatale. La violenza psicologica e fisica si trasforma in follia omicida verso la propria moglie, ex moglie, compagna, ex compagna. Dinanzi alle visioni angoscianti e ormai note dei femminicidi, rimaniamo sbigottiti, impotenti e confusi. Non ci restano che infinite domande alle quali è difficile dare risposta. Come è possibile che delle donne moderne e intellettualmente libere, al primo spintone, o anche alle prime aggressioni verbali, non allontanino l’uomo che le sta minacciando? Forse per negazione, forse per sensi di colpa. Ma anche e soprattutto perché sono terrorizzate dalle ritorsioni che possono subire, rimanendo così imprigionate per anni in una vita costellata da ricatti, minacce ed esplosioni di violenza ingiustificata.
La violenza fisica non è mai il frutto di un banale caso isolato e circoscritto a quel momento. È invece il risultato di un lungo percorso di manipolazione e sottomissione, basato su un controllo totalizzante e costante sulla donna. È come una ragnatela sulla quale il partner manipolatore immobilizza la sue vittima, alternando momenti di profonda affettuosità a momenti di ira furibonda (sempre ingiustificata). Quasi tutte le donne ammazzate per mano dei loro mariti, hanno subito in maniera reiterata nel tempo violenza piscologica e fisica.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nell’ultimo anno le donne vittime di omicidi sono state 137, quasi una ogni tre giorni, e di cui 102 hanno perso la vita in ambito familiare.
Il termine femminicidio è stato utilizzato per la prima volta in una sentenza del 2009.
Per chiarire meglio il concetto, sono indicative le parole dell’antropologa Messicana Marcela Lagarde, che definisce femminicidio come: «La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia».
Al di là dei tecnicismi, occorre definire il fenomeno per quello che è diventato: un delitto “identitario”, che ha origini nel substrato sociale ed è strettamente legato ad una mentalità che concepisce la donna come un “oggetto” da possedere. Identitario nel senso che è l’identità stessa di essere donne a subire una trasposizione culturale deviata e deviante.
Negli ultimi anni è stato fatto molto, ma è ancora poco. Soprattutto per quanto riguarda la risposta istituzionale. Basta pensare all’ultimo caso di cronaca. Irene Focardi, 43 anni, scomparsa il 3 febbraio e ritrovata cadavere il 29 marzo per mano del suo ex compagno Davide Di Martino. Eppure, Irene, il suo compagno lo aveva denunciato e fatto condannare nel 2014. Poi che cosa è successo? Dopo sei mesi di cella, il suo assassino ottiene i domiciliari e torna a vivere accanto alla casa della ex compagna. Da settembre a dicembre 2014 per tre volte la donna finisce in ospedale, sporge denuncia e nessuno interviene. L’ultima risale al 12 dicembre 2015, dopodiché la ragazza scompare nel febbraio 2015. Qualche tempo dopo sarà rinvenuto il suo corpo, martoriato, in un sacco nero della spazzatura, esattamente mentre si svolgeva il processo d’appello in cui il pubblico ministero chiedeva l’assoluzione di De Martino. Che ora è chiaramente in carcere. Ma Irene è morta. È un’altra vittima di un sistema (giuridico? sociale?) che promette tanto, ma tutela molto poco. Se così non fosse stato, questa donna sarebbe viva.
Possibile che una donna che subisca violenze è destinata a sopportare o a morire? Sui quotidiani, sui social e in televisione, siamo quotidianamente bombardati da campagne contro le violenze sulle donne. Molte sono le associazioni nate a tutela e difesa delle donne, che invitano a denunciare i propri aguzzini. E molte ne sono uscite, da questo spirale di violenza, lottando con forza per il proprio diritto di essere donne in grado scegliere ciò che è meglio della loro vita. Ed è questo a lasciare perplessi: lottare per qualcosa che, in effetti, dovrebbe essere scontato, in una società evoluta. Eppure non tutte le donne che hanno lottato, ce l’hanno fatta. Molte di loro, hanno impiegato anni per lasciare i propri mariti e dopo esserci riuscite, sono state tormentate, sfregiate (come nel caso di Lucia Annibali ad esempio), o uccise.
Ci dovremmo chiedere se sia stato fatto abbastanza, se davvero le leggi ad oggi presenti nel nostro ordinamento siano adeguate e in grado di evitare queste tragedie. Ma al di là delle leggi, chiediamoci se forse un’educazione sociale e culturale possa essere il punto di partenza per cambiare totalmente il modo di pensare di alcuni uomini, ma anche per accrescere la consapevolezza delle donne. E se si partisse da questo? E se il maschilismo radicato che, per molti aspetti, caratterizza purtroppo ancora il nostro Paese lasciasse il posto ad una nuova cultura di equilibrio e di parità reale tra i generi?
Tante leggi, tante associazioni contro la violenza sulle donne, ma ancora tanti omicidi. Paradossi tipici italiani che meritano una risposta, se non definitiva, almeno tempestiva.