La città come bene comune, Flick: “La città siamo noi”

Giovanni Maria Flick, già Presidente della Corte Costituzionale, Professore emerito di diritto penale all’Università Luiss di Roma, nel suo ultimo saggio (Elogio della città? Ed. Paoline) affronta i profondi fenomeni di trasformazione sociale, politica, ed economica che caratterizzano il nostro tempo. Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista realizzata da Massimiliano Cannata.

Purtroppo, al di là di tanti discorsi e buoni propositi le “città sono una forbice” come ha titolato una recente inchiesta dell’Espresso. Il caso di Roma appare emblematico. La disoccupazione è al 9% nei quartieri del centro, mentre balza al 20% nei quartieri periferici, dove i laureati sono il 4,3% e solo una persona su quattro possiede la licenza elementare, mentre uno su dieci neanche quella. Si prospetta, per l’immediato futuro, una questione urbana segnata da diseguaglianze crescenti, conflitti e discriminazioni in contesti densi e multietnici. Quali sono le conseguenze di tutto questo sul piano giuridico ed etico-politico?
Quando parliamo di città, sono due i pilastri fondativi cui dobbiamo riferirci. Del primo, di carattere religioso, abbiamo ampiamente trattato; veniamo al secondo, che ha una matrice laica, individuabile nel dettato della nostra Costituzione che ci svela la dimensione partecipativa e inclusiva della città. Il nodo della questione è individuabile nel rapporto tra l’art. 2 che definisce i diritti inviolabili della persona sia nella dimensione individuale che in quella delle formazioni sociali; l’art. 3 che impone di eliminare ogni ostacolo alla pari dignità sociale; l’art. 9 che introduce la questione della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, affermando il valore della memoria in contrasto con questa sorta di alzheimer collettivo di cui tutti sembriamo vittime nell’oblio del passato ed il valore della cultura (quella di tutti, non quella elitaria) per cogliere il legame tra passato e futuro. La città come luogo primario di “formazione sociale”, di confronto, di dialogo, è la prima frontiera di affermazione dei diritti dell’uomo. Questo dovrebbero tenere bene a mente la politica e gli amministratori, per arginare la ghettizzazione contrapposta dei ricchi e dei poveri e l’emersione delle nuove periferie che ormai nascono dentro gli stessi centri storici.

Il tema del paesaggio, come si innesta nella dinamica del lavoro di ricerca che sta portando avanti?
La Costituzione parla di paesaggio, ma è evidente che il termine è sinonimo di territorio e ambiente, quindi implica tutte le problematiche connesse all’interazione con il fattore umano. I padri costituenti hanno anticipato i tempi, gettando i capisaldi di quella che oggi viene definita “questione ecocentrica”, con un chiaro riferimento al superamento di quella dimensione antropocentrica che trova le sue origini nella cultura rinascimentale. Le questioni di cui stiamo parlando possono essere affrontate se vanno viste nel loro insieme. Rispetto dei diritti e dei doveri, affermazione del valore della solidarietà, sussidiarietà orizzontale come riconoscimento del diritto che ciascuno ha di intraprendere, difesa dell’ecosistema: su questo dovrà essere aggiornata l’agenda di una governance globale del pianeta. È evidente che nella nostra Costituzione c’è una ricchezza di vedute e di tematiche tale da poter definire l’orizzonte della città di domani.

Bene comune”: altro principio fondamentale troppo spesso dimenticato e calpestato. Come si può colmare il grave deficit di cultura del diritto?
La cultura del diritto è un fatto di civiltà, come tale va promossa e rafforzata, attenzione però a non adottare una logica giuridica riduttiva quando parliamo di fenomeni urbani. Questo pericolo esiste quando si comincia a discettare sulla ripartizione dei poteri tra città, Provincia, Regioni, Stato. Occorre evitare che la regolamentazione giuridica possa diventare burocratizzazione esasperata. Quello che dobbiamo ricercare è una prospettiva nuova nella gestione dei centri urbani che sappia andare oltre l’applicazione del diritto amministrativo. Ricordiamoci che la città siamo noi. Emerge in questo delicato passaggio il concetto di bene comune, su cui ha molto insistito Stefano Rodotà, che si traduce in uno spazio comune urbano di cui tutti dobbiamo godere, recuperando i valori del rispetto e del dialogo; anche se, allo stato, il bene comune è ancora un traguardo lontano, ad eccezione di alcune forme tradizionali nelle piccole comunità rurali (come le comunità montane di pascolo o di legnatico).

Il rispetto della Costituzione può aiutarci a governare le città?
Certamente, a patto di ricordarsi che non esiste solo la dimensione della sicurezza, enfatizzata da una certa parte politica, per ragioni demagogiche e di consenso. La città deve tornare ad essere luogo di incontro. Episodi gravi di antisemitismo come quelli accaduti in diverse città che si ripetono con una frequenza impressionante; la caccia allo straniero, la continua mortificazione delle donne trattate come oggetto; l’aggressione verbale o fisica all’ebreo, sono pericolosi segnali che fomentano disuguaglianza e sofferenza, portano indietro l’orologio della storia e che, cosa gravissima a mio giudizio, calpestano i dettami costituzionali. L’odio, la paura, il possesso sono alla base delle tre figure oggi più emblematiche di ostacolo alla pari dignità sociale: l’ebreo, il migrante, la donna.

Etica della cittadinanza e ruolo dell’architetto

Si avverte da più parti l’esigenza di affermare un’universale etica della cittadinanza. Su questo fronte la riflessione di Papa Francesco, espressa nella recente enciclica “Laudato si”, ha aperto un dibattito culturale e politico molto ampio, che avrà importanti ripercussioni. Qual è il suo parere in merito?
L’indicazione del Santo Padre di mettere l’uomo al centro della politica, della cultura e della città impone l’attualità di un pensatore come Jacques Maritain che ha teorizzato lo scenario di un umanesimo integrale, come ambiente di riferimento entro cui il corpo collettivo può evolversi. Abbiamo bisogno di ricostruire la temperie spirituale di autori del livello di Maritain per liberarci dalla paura e porre un deciso freno al profitto e alla sovranità dell’algoritmo, da strumento che dovrebbe essere. Detto in sintesi: presentismo, globalizzazione, efficienza e velocità ad ogni costo stanno schiacciando l’individuo. Dobbiamo recuperare il valore della dignità.

La creazione di grandi aree metropolitane (il caso della “PaTReVe” un polo urbano che dovrebbe riunire Padova, Treviso e Venezia, è emblematico) può essere una risposta alle dinamiche evolutive che segnano la contemporaneità?
Bisognerà con urgenza ridisegnare una legge sulla città che risale al 1942. Qualsiasi intervento non deve cancellare l’identità e la storia gloriosa dei nostri Comuni, che risale a un momento aureo del Medio Evo. Rigenerare la città non deve significare cancellare la memoria e il passato, dando libero sfogo al desiderio di occupare il suolo devastandolo, perché questo genera solo degrado consegnando intere aree alla speculazione e all’emarginazione. La diversità è per l’uomo e per la città soprattutto un valore positivo e di ricchezza interiore; non soltanto un relitto del passato da eliminare o una situazione di inferiorità. Mi riferivo a questo fenomeno quando sottolineavo prima la dinamica emergenza di una “totalizzazione periferica” (la definizione è di Franco Purini n.d.r.), individuabile nella nascita di tante mura divisorie che dentro i centri storici ‒ mura che separano ‒ ghettizzano, allontanano la presenza attiva dei cittadino. La chiusura di tanti negozi di prossimità e botteghe è sotto gli occhi di tutti, causando desolazione, sfiducia, conflitto.

Nell’ampia disamina offerta dal suo studio emerge in maniera netta il ruolo degli architetti. Quali responsabilità hanno questi professionisti sullo sviluppo spesso disordinato della città contemporanea?
L’architetto deve avere consapevolezza della dimensione sociale del ruolo. Deve contribuire con il suo apporto a far sì che le regole del gioco vengano rispettate senza fare concessioni al “gioco delle regole”, divenuto spesso un espediente per prestare il fianco alla speculazione e alle furbizie della politica quotidiana. Anche in questo caso bisogna investire sulla competenza, nello studio della città e nelle discipline urbanistiche. Non dimentichiamo che l’architetto parla il linguaggio delle pietre, traduce in esso, e nella sua staticità, il linguaggio degli uomini nella sua variabilità. Se lo fa con umiltà e competenza, senza gonfiare il petto, come hanno a lungo fatto e continuano a fare taluni archistar tanto di moda, si può ricreare il terreno per edificare una città per l’uomo, in cui le pietre parlano agli individui e la città può tornare ad essere la nostra città, quale luogo che ci ha visto crescere insieme con gli altri, consentendoci di passeggiare nel mondo per scoprirne i segreti nel perenne divenire di una storia che ci riguarda. La città, come il bosco, sono realtà la cui complessità e fragilità sono pari alle loro potenzialità e capacità di ricchezza (quella vera) per lo sviluppo e, prima ancora, per la conservazione della condizione umana. Sono realtà nate, cresciute e vissute attraverso una storia di secoli, ma basta un attimo per distruggerle; dovremmo ricordarlo sempre.

Leggi anche la prima parte dell’intervista

La città non è morta. Flick: “Imporre un alt alla logica del profitto esasperato”

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